da Daniele Poto | Ago 1, 2018
L’arte del camminare ha una lunga tradizione nella letteratura di viaggio e no. Ed Erling Kagge nel raccontarci l’epifania dei piedi e delle meraviglie che possono sviluppare, anche a livello di endorfine, più che attingere a una bibliografia internazionale preferisce rifarsi a esperienze personali. Ecco perché più che Handke e Walser, grandi camminatori ed elogiatori della pratica, troviamo comuni mortali, uomini della strada, rappresentanti di una categoria forse in via di estinzione perché sopraffatta da mezzi più veloci nell’era del consumo spiccio e della superficialità. Kagge ha camminato al Polo Nord come al Polo sud, ha percorso i bassifondi di New York, ha vissuto esperienze pratiche ma nell’agile volumetto Memoir a cavallo tra saggistica e letteratura, preferisce rifarsi alla vita di tutti i giorni. Era un cattivo studente, maldestro in ginnastica ma ha rivalutato il gesto pratico del camminare conferendogli un carattere sovversivo nel mondo del troppo buono e del troppo facile. Erano grandi camminatori anche i filosofi. Come non ricordare la scuola peripatetica ateniese, come non citare Kierkegaard che iniziò a spegnersi, in conseguenza della delusione amorosa provocatagli dal diniego di Regina Olsen, proprio quando smise di camminare. Tutto ciò può apparire vintage nell’epoca dei suv e dei jet supersonici ma il buon norvegese che scrive è un estimatore della natura e si rende che quanto più cammina lentamente tanto più gusta il paesaggio circostante. E il viaggio è più importante della meta finale perché ogni passaggio arricchisce e favorisce pensieri e accumuli. “Camminare ci ha reso possibile diventare quello che siamo e, se smetteremo di farlo, smetteremo anche di essere noi stessi. Allora, forse, saremo diventati qualcos’altro”. Camminando il cervello si libera di freni censori. Come nel sogno permette un’accurata ricognizione di sè stessi. Forse i più saggi nel mondo dello sport sono i marciatori. Oltre a bruciare grassi e a percorrere il giro del mondo (vedi Pamich) sono i più navigati “turisti della strada”.
data di pubblicazione:01/08/2018
da Daniele Poto | Lug 11, 2018
Un libro funerario? Tutt’altro. Un libro di sana e goliardica allegria anche se la sinossi può ingannare. Apparentemente è un tema caro a Foscolo e alla letteratura nederlandese l’archeologia delle tombe, il viaggio filosofico-esistenziale verso i sepolcri dei personaggi importanti della formazione intellettuale. Ma per D’Urso, poeta tellurico, è solo il pretesto per parlare della vita di tutti i giorni, spiccatamente anche di sé o, meglio, di un quarantenne apparentemente senza arte né parte che però ha bisogno di punti di riferimenti letterari. Non necessariamente scrittori famosi ma gli autori che hanno contribuito alla sua formazione. Si direbbe un bildungsroman on the road. Così l’aspetto funebre viene riscattato da un “palazzeschiano” divertimento nel girare l’Italia, l’Europa e il mondo alla ricerca di cippi funebri, di consistenti libri e intellettualità in valutazione ma anche di amici d’occasione che possano ospitarlo. Letteratura, saggistica? Un libro che sfugge a ogni tentativo di catalogazione anche autobiografica. Fuori dagli schemi, simpaticamente e stagionalmente. Perché adatto all’estate. Non è vero che forse prima o poi tutti noi dobbiamo confrontarci con la morte? E se volete sapere chi sono i punti di riferimento di questo percorso possiamo citare scrittori fuori moda come Guido Morselli, Dolores Prato, Cristina Campo. Ma anche Premi Nobel come Wislawa Szymborska. Scelte personali dell’autore: motivate! Spesso biografie deraciné, vite che si sono concluse con un suicidio ma non per questo letterariamente meno ammirevoli. Se ci lasciamo prendere per mano da D’Urso ci accorgeremo che il percorso del viaggio – le sue modalità – risulta, risultano più interessanti del punto d’arrivo. L’uomo, l’autore è anche quello che sceglie, sbaglia, seleziona, contraddice. Nela letteratura così come nella vita. E se vi convince il D’Urso narratore potete anche scoprire il poeta ironico e disilluso.
data di pubblicazione:11/07/2018
da Daniele Poto | Lug 1, 2018
Dimenticato dalla storia come un Carneade che sia sacrificato per un compito più grande: fare spazio al mito di Cassius Clay poi Muhammad Alì. Ma Sonny Liston, perito per droga nel 1970 all’età ipotetica di 38 anni, è il protagonista di incontri dubbi e discussi con il campionissimo. Match probabilmente indirizzati a suo sfavore dalla mafia di Frankie Carbo, anche considerando che i bookmakers quotavano 7 1 l’incontro. Da campione in carica sfida il giovane fenomeno che danza sul ring ma mette a segno pochi colpi. Si tratta un match equilibrato ma, a sorpresa, Liston abbandona all’inizio della settimana ripresa per un dolore alla spalla. Non c’è frattura, non è un grave infortunio ma tanto basta per decretare l’ammain’arm di uno dei più spaventosi picchiatori del ring. Né più brillante è la rivincita dove Liston pur essendo favorito crolla inebetito al tappeto con una pessima simulazione già dalla prima ripresa per un colpo che viene subito definito fantasma. Il libro è affascinante perché da quel rematch fa partire le due diverse storie. L’epopea di Alì, affiliato ai Musulmani neri, impossibilitato a combattere per quattro anni mentre Liston scivola progressivamente nell’anonimato. Per rifarsi una verginità va a combattere il Svezia dove il suo pugno continua a far male. Inseguendo invano una possibile rinascita. Dubbi i suoi incontri e dubbia pure la sua morte perché sembra che abbia iniziato a fare fastidio la sua pretesa contrattuale di ricevere, come pattuito il 10% dei proventi degli incassi dei successivi match del campione in carica. Dunque la morte per overdose sarebbe una montatura inscenata ad arte per depistare le indagini. Di questo campione sfortunato, pluri-detenuto, odiato dai bianchi, rimane un record di tutto rispetto: 54 incontri con 50 vittorie e 39 successi per ko. Ruggeri ama i dubbi e i perdenti e sollecita persino incertezze sulla reale data di nascita di Liston che potrebbe essere stata contraffatta addirittura di quattro anni.
data di pubblicazione:01/07/2018
da Daniele Poto | Giu 11, 2018
L’epica zingaresca, tout court ex jugoslava, di Emir Kusturica, si riverbera in sei racconti lunari. Conscio di non avere il respiro lungo per il romanzo il popolare regista bosniaco dimostra doti non comuni anche da scrittore con le curiose epifanie dei suoi personaggi picareschi. Non necessariamente confinati dentro le mura di Sarajevo.
L’eco della guerra e della profonda divisione tra i popoli sembra non aver scalfito la sua hibris, il suo sentirsi profondamente jugoslavo e neanche ex. L’orgoglio della nazione che fu trapela con moti d’orgoglio, rispettosa da una parte delle svolte storiche maturate ma dall’altro con una sintonia di fondo, il piccolo miracolo, artefice anche Tito, di aver riunito popoli di etnie e religioni diverse in un’Europa che allora predicava l’unità e oggi tante divise frammentazioni.
Sei racconti per restituire il fascino di un popolo fieramente sopra le righe, descritto come barbaro ma probabilmente imbarbarito dalla storia delle sopraffazioni subìte. Nel resto si respira l’atmosfera delle prime prove cinematografiche quando l’ispirazione pulsava di autobiografismo. L’immaginazione è sostenuta dai ricordi del bambino Emir. Qui c’è tutto di reale e tutto di fantastico in un melting pot in cui non è necessario distinguere i due “forni” narrativi. La Via Lattea forse era il lungo incedere verso il mare – sponda croata di Dubrovnik- o la nostalgia delle montagne olimpiche di Sarajevo per l’organizzazione di un’Olimpiade che oggi appare come un miracolo di buona volontà considerando poi la violenza degli anni a venire. Dunque dalle stelle all’acqua con un completamento che sembra la metafora del puzzle jugoslavo, di un indomabile spirito di fondo non fiaccato dalle guerre e dagli odi intestini.
Ci si tuffa in un mondo affascinante che è lontano dalla narrativa italiana almeno quanto quella sudamericana. E non ci annoia mai. Il profumo d’infanzia si scontra con il mondo già crudele degli adulti e ci fa capire come ad est si maturi prima per le prove che la vita ti porta presto ad affrontare.
data di pubblicazione: 11/6/2018
da Daniele Poto | Mag 21, 2018
(Teatro Lo Spazio- Roma, 18/20 maggio 2018)
Una comicità lunare. Perché letteralmente ambientata sulla luna. Ispirati da Buster Keaton due astronauti dipingono vivacemente le contraddizioni della vita di tutti i giorni che non riesce a essere governata dal timone della scienza.
Un piccolo e breve florilegio di gag dimostra che il teatro può ancora muovere sul piano del genere una seria concorrenza alla televisione. Lo dimostrano le reazioni del pubblico, probabilmente non alla prima visione di questa breve (50 minuti) ma intensa, a tratti farneticante e demenziale, vicenda. Quadretti scomposti e con collegamenti ad hoc per una storia che non si può raccontare perché in scena fiocca un florilegio di battute calde e fredde, legate a una scenografia affidata a materiali essenziali. Il teatro non è solo seriosità e impegno. I due clown/astronauti si scontrano con i due strambi gestori del teatro che rimandano spesso alla prosaica realtà della sopravvivenza del genere. Dunque un teatro che si affitta per compleanni, matrimoni e qualsivoglia impresa che possa portare denaro. È chiaro che l’impaccio, l’equivoco, il calembour fanno ridere per una comicità che a volte è di parola, a volte di situazioni, a volte di contrastato movimento spaziale. Così lo spettacolo filante e premiato di fine stagione funziona fino in fondo con l’impressione che gli spettatori, ampiamente fidelizzati, si siano gustati almeno un paio di volte l’esibizione. Gli interpreti sono Corrado Zizzo, Daniele Dosideo D’Arcangelo, Luca Refrigeri e Katiuscia Rossi ben diretti da Fabio Cicchiello. Tutti completamente padroni del testo e delle gag per un piccolo convincente piccolo capolavoro di rustica comicità. Il corto lungo o lo spettacolo in miniatura che dir si voglia, nei limiti umili delle sue ambizioni, ha già raccolto primi ed esprime una formula collaudata e interpreti all’altezza della situazione.
data di pubblicazione:21/05/2018
Il nostro voto:
Gli ultimi commenti…