da Daniele Poto | Feb 25, 2019
(Teatro Quirino – Roma, 19 febbraio/3 marzo 2019)
Incandescente dramma in un interno. Una festa mal riuscita per colpa del nazismo che svela le crepe dei rapporti interni di un gruppo di presunti amici.
Un improvviso cambio di registro è la valvola della drammaturgia di uno spettacolo riuscito. L’ambientazione nei fondali della seconda guerra mondiale potrebbe sembrare un po’ retrò ma in realtà si rivela perfettamente funzionale a una situazione che potrebbe avere validità odierna come dimostrano il plot cinematografico di Perfetti sconosciuti o le stridenti storie di Yasmine Reza. L’innesco ricorda la tragedia delle Fosse Ardeatine. Un’ilare festa tra amici viene funestata dall’attentato che toglie la vita a due ufficiali tedeschi. La vendetta è raccapricciante: venti italiani, due per condominio dovranno pagare con la vita questo gesto di ribellione. E l’ufficiale nazista chiede al gruppo di famiglia e di amici in un interno di scegliere autonomamente i due virtuali condannati a morte. Il pretesto scenico è un’eccellente accensione. Come si può immaginare questa beffarda richiesta mette di fronte il gruppo alle proprie paure, a slanci di coraggio più spesso alternati a lampi di egoistica vigliaccheria. Nel contenitore dei due tempi le contraddizioni e i disvelamenti si sprecano. La moglie del padrone di casa si scoprirà poco virtuosa, il medico assai poco efficiente, persino barlumi di omosessualità trapeleranno dall’intreccio. Rari splendori e abbacinanti miserie spaccano i dialoghi. Non sveliamo il finale che non sarà necessariamente drammatico se non per le conseguenze dei rapporti tra i sette protagonisti, dilacerati per come hanno rivelato un fondo di umanità non proprio edificante, a parte qualche rara eccezione. Da sottolineare l’eccezionale omogeneità del cast tra cui spiccano la dolente debolezza del medico interpretato da Gianluca Ramazzotti, il piglio professorale e gassmanniano con cui Emanuele Salce tratteggia il personaggio di Vincenzo e la straordinaria bravura di Maurizio Donadoni alias Andrea. Il titolo sembra quanto mai appropriato a quanto si sviluppa in scena. Amici che si trasformano in belve.
data di pubblicazione:25/02/2019
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 18, 2019
Un libro può contenere una vita? Domanda retorica ma che si pone misurando la vitalità di un giovane 83enne innamorato della stessa e del basket. Racconto di 70 anni di esistenza completamente votata a una professione che è anche una vocazione. Tonino Zorzi è stato prima un ragazzino molto vivace, poi un promettente cestista, quindi un capocannoniere scudettato, infine un coach che ha avuto anche missioni speciali nel guidare la nazionale italiana di pallacanestro. Non si sarebbe mai ritirato se le condizioni di salute non lo avessero costretto. E dunque in questo volume-confessione, totalmente affidato a inesistente velleità letterarie si rivela appieno: esuberante, eccessivo, sopra le righe. Non è un libro specialistico perché contiene un pezzo di trasformazione dell’Italia sportiva e non solo. Dall’oratorio all’americanizzazione spinta. Dunque di qui la libera scelta di non affidarsi a un ghost writer per tradurre in bella calligrafia i racconti sparsi di questa errabonda esistenza. Il volume è spartano e non curato, trabocca di ripetizioni e di refusi. Ma la voglia di raccontare di Zorzi erompe e scardina gli schemi e si fa perdonare la mancata revisione che avrebbe giovato alla migliore confezione e accessibilità del testo. L’anziano che affabula ha il viso dolce di un bambino che distilla dolci ricordi ad aneddoti, affogati in un mare magnum di amicizie. Si tratteggia il basket dei pionieri, della pallonessa, di quando le trasferte nell’Urss venivano ripagate con l’importazione di caviale barattato con le calze di seta. Ricordi vintage dell’epoca che fu, anche sotto canestro. Si espande la generosità di Zorzi nel lanciare giocatori d’avvenire e nell’innamorarsi delle piazze cestistiche che ha frequentato, entrate nel midollo come una seconda pelle. Zorzi ha attraversato tutta la penisola, mai negandosi un ingaggio: da Gorizia a Reggio Calabria, vivendo anni ricchi e anni grami, ma con intatto il sorriso e la soddisfazione di chi è pagato per fare nella vita il mestiere che più gli piace. Altro non avrebbe saputo scegliere né fare.
data di pubblicazione:18/02/2019
da Daniele Poto | Feb 12, 2019
(Teatro Rivellino di Tuscania – Viterbo, 10 febbraio 2019, poi in tournée in Italia)
Malinconico one man show di un attore fuori dalle quinte da molto tempo. Purtroppo si vede e si vede. Con grande rispetto per la perduta grandezza.
Flavio Bucci, attore borderline, è stato un grande protagonista della scena italiana degli anni ’70 e ’80 occupando una pole position mediatica anche grazie ai grandi ascolti di fiction televisive come quella in cui impersonava Ligabue. Recitazione sopra le righe, altisonante e tonitruante, da mattatore, con il rischio del birignao dietro l’angolo. Poi ha accumulato il peso di vizi personali, dissipando un talento con passatempi costosi e distraenti. Alla metafora dell’attore che muore in scena ha preferito il saggio ventennale ritiro. Ora, per passione o necessità, è tornato a calcare i palcoscenici con l’amorevole contributo dell’amico regista Marco Mattolini che con pazienza ha cercato di scuoterne la pigrizia e la ruggine professionale. Dopo l’esordio al Belli di Roma ha in programma una vasta tournée in giro per l’Italia con uno spettacolo che non si può dire rodato. Il primo tempo scorre via tecnicamente disastroso. La piccola troupe ha ritardato l’inizio dello spettacolo arrivando all’ultimo momento dalla capitale e un sentore di improvvisazione si è respirato con continue ripetizioni e la scarsa sincronia tra il parlato di Bucci e le immagini che scorrevano sulla scena. Bucci non si abbandona al flusso degli aneddoti ma rimane nella medietà di una narrazione quieta e un po’ banale. Nel secondo tempo il regista Mattolini sembra intervenire in scena per raddrizzare la barca. S’improvvisa giornalista e stimola Bucci con domande appropriate. Il protagonista si scioglie e si anima, la tensione s’impenna, anche perché Bucci fa ricorso al bagaglio della memoria per restituire in scena, sia pure vestendo panni borghesi, le interpretazioni classiche che lo hanno reso famoso. L’attore è un atleta, se non si allena peggiora. L’augurio è che le repliche possano snellire e sciogliere un lungo strutturato monologo che ha bisogno di qualche guizzo e di una messa a punto omogenea.
data di pubblicazione:12/02/2019
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 7, 2019
Facebook ha festeggiato i 15 anni di vita. Ma non è stato un genetliaco felice. Il fenomeno di abbandono di gran parte dei due miliardi di utenti sugli oltre sette miliardi di popolazione mondiale è evidente e sotto gli occhi di tutti. Provate a cliccare sul profilo dei vostri amici: alcuni sono morti, altri sono digitalmente scomparsi e non si hanno notizie, altri si sono cancellati dal vostro elenco. La ricerca di Spitzer sembra prendere questa tendenza come un fenomeno positivo. C’è una corrispondenza diretta tra il numero dei link postati da un iscritto e il suo relativo grado di infelicità. La sua lontananza dal mondo reale è certificata da questa apparente vicinanza al mondo digitale. La coesione tra virtuale e reale è una sintesi e una sinergia possibile ma estremamente difficile nella pratica, se non altro per una questione di tempo a disposizione. L’iperconnessione porta a risultati di “stampo giapponese”. C’è chi addirittura muore per questo, travolto da un abisso esistenziale che non sembra lasciare spazio per altri attività. La connessione con il mondo è sintonia che si stabilisce su ben altre frequenze. La solitudine induce al dolore. Un dolore misurabile attraverso esperimenti di laboratorio. Provate a scrivere su facebook a una persona che non vi risponde? Non ne ricavate un senso di profondo e irrimediabile frustrazione? Al contrario la partecipazione alla vita sociale e di comunità allunga la vita. Come pure un matrimonio rispetto alla condizione di single. La risposta femminile al lutto e la sua maggiore aspettativa di vita è direttamente funzionale alla migliore predisposizione alla socialità del soggetto femminile e alla sua migliore risposta interattiva agli stimoli esterni. L’autore crea una corrispondenza tra la solitudine e una percentuale più elevata di disturbi cardiaci e di sviluppi tumorali. L’uso prolungato di smartphone atrofizza la capacità di istituire relazioni profonde e autentiche, invita alla passività e a un senso che potremo definire di ripiegamento pessimistico di fronte agli imprevisti della vita.
data di pubblicazione:07/02/2019
da Daniele Poto | Feb 6, 2019
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 31 gennaio/17 febbraio 2019)
Il fosco interno della vita di un calciatore che somiglia molto a Cristiano Ronaldo. Difatti si chiama Cristian. Per tutti quelli che diventano Totti (ma anche non lo diventano).
Il calcio fuori dal rettangolo di gioco. Con tanti, forse troppo elementi. Quello che i tifosi non vedono: superomismo, omosessualità, egolatria, razzismo uomo contro uomo in senso hobbesiano ovvero il mio successo è la tua rovina. Ritratto del football in un interno con scene ripetute di nudo, di amplessi, di linguaggio scurrile. Uno spettacolo forte, ai limiti dell’hard rigorosamente vietato ai minori di diciotto anni. Con interpreti che oltre a recitare si cimentano in una prova muscolare in cui si dimostrano artisti del salto alla corda, maghi delle flessioni. E sanno anche palleggiare bene il pallone. La vita del calciatore in tre scene. Nella prima due under si misurano con il futuro in una partita in cui uno solo uno dei due prevarrà. Nella seconda il più cinico è arrivista si misura con il prezzo del successo nell’incontro ravvicinato con una ballerina escort incaricata di filmarne le debolezze a scopo pubblicitario. Ma è stata proprio lui (si scoprirà) a commissionarle la ripresa. Nella terza i due amici di un tempo si rivedono. Il primo ha incassato milioni, ha girato il mondo; è ricco, famoso e viziato; il secondo ha ripiegato su un lavoro ordinario, deluso dall’impatto con il football. Ma c’è un’attrazione ambigua che li lega e in una serata di follie e di eccessi a base di sostanze psicoattive coinvolgeranno nella pseudo-orgia un ignaro quanto poi disponibile inserviente. La conclusione è tutt’altro che rassicurante. Alla fine le luci si spengono (e il sipario cala) sul protagonista che vuole essere un vincente ma che invece rappresenta la frustrazione del fine carriera e dell’isolamento a cui lo ha condannato il successo e l’illimitata e finta possibilità di potere attribuitagli dal denaro. Titolo originale The Pass: il denaro non regala sempre felicità anche se su Instagram hai collezionato trenta milioni di like. Il testo teatrale ha avuto anche una versione cinematografica.
data di pubblicazione:06/02/2019
Il nostro voto:
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