da Daniele Poto | Ago 26, 2019
In un’estate foriera di dolorosi lutti l’ultimo libro di Camilleri è commercialmente e editorialmente una preda ghiotta. In veste grafica un po’ dimessa però è l’ultimo regalo dello scrittore siciliano, non si sa quanto propenso alla pubblicazione di questi pensieri sparsi, un diario di viaggio, appunti in libertà sulla vita e sull’esistenza. Non c’è un ordine preciso di catalogazione perché si prescinde dal criterio cronologico. C’è una numerazione che si spinge fino al 142 per indicarci la trama intellettuale, talvolta intimista, talvolta storica, di uno dei più grandi narratori scoperti nel secolo breve, affermatosi in tarda età, immortalmente reso celebre dal personaggio di Montalbano. C’è tanta Sicilia e tanta vecchiezza in questi ritrattini che ci mostrano l’autore nelle pratiche casalinghe di scrittura. Quando mette il vestito buono in omaggio al lettore e si dedica per qualche ora della mattina all’esercizio preferito e amato della scrittura. Si avverte anche stanchezza perché in una riflessione l’autore la confessa manifestatamente, sazio di tessere trame, forsennatamente richiestegli dagli editori. L’arco temporale è vasto. Ci sono situazioni ripensate del fascismo e del dopoguerra in un “Confesso che ho vissuto” umano, persino troppo umano. Pensatore laico, manifestatamente di sinistra, critico sull’imbastardimento della politica e dei costumi, a tratti dissacrante. Un vecchio palesemente giovane perché fresco di mente e di reazioni. Immerso nel suo tempo ma anche censore del mainstream corrente. Chi vuole conoscere a fondo predilezioni e fobie di Camilleri potrò piacevolmente immersi in questa lettura a tratti aneddotica ma sembra sostenuta da uno stile colloquiale e salottiero che mette infinitamente a proprio agio il lettore. Un’opera minore ma anche un messaggio di congedo dal mondo, quasi anticipato qui e lì da toni pessimisti e distaccati. Quasi un presagio del distacco a venire. Un piccolo testamento saggistico che aggiunge cumuli di grandezza a uno scrittore vicino al popolo. Nel segno migliore di quest’ultimo sostantivo.
data di pubblicazione:26/08/2019
da Daniele Poto | Ago 26, 2019
Armando Zappolini è l’onnipresente portavoce di Mettiamoci in gioco, una campagna in rete per la limitazione dell’azzardo che raccoglie sul territorio nazionale l’adesione di 39 sigle per un totale di nove milioni di iscritti. Trattasi di un bel pezzo di società civile che martella costantemente la politica per ottenere una legge di riordino per un gioco pericoloso che sottrae agli italiani risorse per 110 miliardi (dato del 2018) nel solo comparto legale. Il libro-testimonianza frutto dei suoi sforzi è una fotografia ragionata e credibile dell’esistente di un sistema proditorio che toglie denari all’economia, tempo a lavoro, hobby, iniziative sociali, nel nome del miraggio della grande vincita. La recente insensata vincita al Superenalotto di 209 milioni mostra la fatuità di un sistema che prema il singolo e deprime i perdenti (la collettività) nel segno di una svolta esistenziale che, da solo, il denaro non può dare. Il libro contiene storie e casi umani toccanti di vite e famiglie perse per questa seduzione, il brivido, l’adrenalina dietro una slot machine o persino acquistando caterve di “gratta e vinci”. L’azzardo alimenta una bolla economica, una spirale che va spezzata senza cadere nell’eccesso del proibizionismo. Lo spettro di un’educazione a vasto raggio (nelle scuole, nelle famiglie) è il miglior antidoto a questa piaga. Sottintende un lavoro a lungo termine che non è evidentemente nei piani della macchina istituzionale troppo impegnata a drenare risorse per colmare una piccola falla del debito pubblico. Conoscere i meccanismi dell’azzardo, anche attraverso questo manuale, è un contributo alla comprensione e alla cittadinanza resistente attiva. Non è accettabile che l’induzione all’azzardo crei migliaia di malati patologici, incrinando il tessuto sociale. Camuffare il gioco per azzardo è la grande manipolazione semantica di un sistema che conta su simpatie occulte e lobby manifeste, attive per contrastare in Parlamento ogni piano di riordino.
data di pubblicazione:26/08/2019
da Daniele Poto | Lug 30, 2019
Il linguista Simone negli ultimi anni si è dedicato ad alcuni pamphlet particolarmente incisivi nella rilettura di usi e modi della cultura italiana ed europea. La sua ultima pubblicazione contiene un punto di vista insolito e tutt’altro che buonista rispetto al tema della grande migrazione, chiave di volta per il successo politico della Lega all’insegna del generale grande rifiuto degli italiani rispetto al diverso che viene dall’Africa. La valutazione non può prescindere dall’analisi del pregresso. Forse è nella generale distrazione della politica che 600.000 clandestini si sono insediati nei confini patri. E il permissivismo oggi non rischia di ricadere come un boomerang sui colpevoli mallevadori di questo diffuso permissivismo? Simone ci fa riflettere sul tema: gli ospiti sono per caso nemici che vogliono rubarci il welfare faticosamente conquistato? C’è da scavare nell’antropologia e in parte anche nella psichiatria per percepire il sentimento dei connazionali e del marketing politico che ne sfrutta la loro diffidenza per arrivare a un’analisi rigorosa di pro e contro, tra bisogno di manodopera, generoso spirito di accoglienza e geopolitica. Trattasi di materia delicata, a tratti aggrovigliata, spesso risolto con spirito pregiudiziale. O di qua o di là. Vedi le reazioni rispetto al comandante Rackete. In realtà è doverosa la problematicità rispetto a materia complessa. C’è il complesso del post-colonialismo, dell’Europa colpevole che deve restituire quello che ha tolto (diremo soprattutto la Francia) e, sull’opposto versante, quella che Simone definisce la Grande Sostituzione ovvero il sospetto che una nuova religione possa insediarsi nel vecchio continente soppiantando un sistema di valori collaudato e funzionale, incrinato da massici apporti di materia prima umana. L’autore è al disopra delle parti e non necessariamente politicamente corretto rifiutandosi di obbedire al mainstream contemporaneo. Agita il sottile gusto della provocazione che, a differenza del pensiero dei politici, si permette di volare più in alto, rivisitando anche la storia delle migrazioni che parte della Grecia e continua fino ai nostri giorni in una linea spezzata, dialettica e spesso conflittuale.
data di pubblicazione:30/07/2019
da Daniele Poto | Lug 19, 2019
L’etologia del sopruso potrebbe apparire un approccio esile per un piccolo libro di culto. Ma Valerio Magrelli, critico, poeta, saggista, è bravo a sfruttare l’input per una rivisitazione della maleducazione collettiva di cui siamo vittime nella nostra vita di tutti i giorni. Maleducazione come costume della casa o biglietto da visita per un Paese in decadenza e in vacatio dalle buone maniere. A casa, come al volante o a in vacanza. Un testo estivo che ci ricorda la deriva in cui ci siamo cacciati per il mancato rispetto del prossimo. Magrelli individua nitidamente la figura dell’alterprivo, un soggetto auto-referenziale che invade le spiagge, concede ogni libertà (anche di bagno) al proprio cane, evita di mettere la freccia mentre guida. Insomma, ignora il prossimo in tutte le sue possibili declinazioni. Nel volumetto la messa a fuoco a volte è imprecisa. E non c’è omogeneità di resa retorica tra capitolo e capitolo con qualche indulgenza letteraria estremamente perdonabile. In fondo questo è l’elogio di un distaccato radical chic che vuole evitare di farsi invadere dal volgo. Dunque non c’è discriminante di politica di sinistra, semmai c’è un riferimento alla diade èlite-popolo, così in voga oggi nel dibattito contemporaneo. Magrelli propone il caso personale con l’ipotesi di razzismo sui rossi, cioè su chi ha il pigmento nella pelle di questo colore, rivolgendo la propria ironia al discrimine dell’odore e dei pregiudizi storico. Per Lombroso gli uomini in rosso erano più adusi a commettere crimini a sfondo sessuale. Bizzarre teorie dell’epoca. Magrelli rivolge un’accorata supplica alla burocrazia e ai suoi inafferrabili e poco comprensibili meccanismi. In effetti se a Roma occorrono quattro mesi solo per prendere l’appuntamento per il rilascio di una carta d’identità vuol dire che stiamo vivendo una fase sociale di estremo riflusso. Con un’Italia paziente che si tiene alla larga dall’ipotesi di una rivoluzione. Magrelli compreso dato che l’autore si augurerebbe semplicemente una vita dalla qualità migliore anche in ragione delle tasse che paghiamo.
data di pubblicazione:19/07/2019
da Daniele Poto | Lug 17, 2019
C’è il mondo distopico di Fahrenheit 451 in questo piccolo livre de chevet, manuale di ricognizione per l’editoria che verrà da parte di un attore-scrittore che nella propria gavetta ne ha assaggiato i meccanismi. Dunque Giorgio Volpe, scrittore affermato di un’editoria tradizionale (quella delle classifiche, del Premio Strega e del Salone del libro) si trova proiettato in un’altra dimensione quando la sua casa editrice viene venduta a una multinazionale il cui unico imperativo categorico è abdicare alle leggi di mercato. Dunque in un crescendo parossistico di censure, di proibizioni lessicali, di moniti esistenziali, il suo reticolo tradizionale di legami, la sua comfort zone di colpo crollerà per lasciare il posto alla produzione di merce, secondo le regole, anche espositive di un supermercato. Il racconto lungo dunque è la progressiva esposizione a un incubo senza ristoro, del crollo esponenziale del concetto di letteratura. Spariranno valori, ideologie nel grado zero della produzione e del consumo. Una visione terrificante che però appartiene, profeticamente, anche a un pezzo di presente dell’industria del libro con i suoi oligopoli, la sua società chiusa, il deprezzamento del merito a favore dei valori correnti della pubblicità. Il libro fa sprofondare il protagonista nel grottesco muovendo i tasti del controllo totale da parte del nuovo editore. Che taglia i ponti delle sue conoscenze, minaccia i familiari, per esaltare il proprio potere e costringere Volpe alla sofferta pubblicazione di un capolavoro ormai deformato. E l’unico critico che oserà muovere una contestazione a questo prodotto di laboratorio farà una brutta fine. Trattasi della descrizione di una società dal pensiero unico la cui unica possibilità per l’autore è l’accettazione di un indottrinamento coatto. Siamo tanto sicuri che il quadro disegnato da Manzini non sia direttamente il futuro prossimo? Senza neanche aspettare il 2050 vaticinato dai futurologi. L’editoria appare come un mondo repellente da cui occorre star lontani. Come pensano il 56% degli italiani che non leggono un solo libro nel corso di un anno solare.
data di pubblicazione:17/07/2019
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