da Daniele Poto | Nov 20, 2019
(Teatro Piccolo Eliseo- Roma, 14/24 novembre 2019)
Tesissima riconversione teatrale di un libro di successo. Prova d’attrice encomiabile in interno sardo per un grande successo di pubblico (e forse anche di critica).
Coraggiosa versione teatrale del romanzo che ha reso celebre sul suolo nazionale Michela Murgia, sdoganando la parola del titolo. Nella tradizione sarda, dallo spagnolo acabar, significa uccidere, aiutare le persone a morire. Sull’attualità montante del tema la stupefazione della protagonista Maria che scopre la realtà dell’ambiente e in particolare delle pratiche di Bonaria Urrai, sarta che si dedica a questa attività crudele e insieme umanitaria. L’ammirazione di Maria per questo personaggio fa i conti con questa macabra scoperta che rivoluzione il suo modo di pensare e introduce un elemento anomalo nel rapporto. La musica elettronica e i cambi di luce sono solo gli elementi di spaziatura di un monologo lungamente efficace che solo un attrice di livello poteva gestire con disinvoltura. Ormai, risparmio a parte, sono vastamente diffuse le scenografie minimal chic: sedie, un piccolo salotto, il resto è lasciato alla libera immaginazione. Nel paesino immaginario della Sardegna dove avvengono queste strane manipolazioni tutto sembra ridotto all’essenziale. La regola è il primitivismo nei rapporti. La fuga nel continente non rompe questo strappo feroce con una realtà serena. Il ritorno nell’isola è dovuto a un’emergenza e in un certo modo chiude il cerchio, fa i conti con l’esistente. Non si può cancellare il passato consistente in lutti accumulati. Pietà e ferocia dell’atto hanno bisogno di una decantazione. Lo spettacolo ha avuto il chiaro gradimento della componente femminile, la parte più sensibile e partecipativa della generica utenza teatrale. Una componente video a tratti sorprendente si configura come elemento di rottura dell’affabulante monologo. La drammaturgia di Carlotta Corradi è parte fondante del successo in sala.
data di pubblicazione:20/11/2019
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Nov 19, 2019
Tempi di anniversari e di ricordi. Per un 1968 che in Italia è stato soprattutto 1969, data di presunte rivoluzioni di lutti, di cambiamenti tellurici della società. Carlo Santi, non tradendo le proprie origini di cronista sportivo, ci consegna questo instant book che è una realistica fotografia di uno spaccato generazionale di cinquanta anni fa. Non è un caso che in copertina svetti il traumatico gesto di Smith e Carlos, un pugno guantato di nero, esibito durante la cerimonia di premiazione della finale dei 200 metri piani a Città del Messico, a esplicitare quella discriminazione razziale, così viva e cogente negli Stati Uniti. Ma naturalmente quel biennio ha molte altre valenze e significati. I Giochi Olimpici del 1968 furono funestati dal massacro degli studenti che nella calma ovattata delle gare fu quasi ignorato, secondo le testimonianze qui riprodotte di molti italiani medagliati. Quello fu l’anno in cui i calciatori presero coscienza di non dover essere più dei pacchi postali spediti da una società all’altra, varando l’Associazione sindacale di cui fu immarcescibile presidente Sergio Campana. Il 1969 fu anche l’anno dei Giochi della Gioventù, una scossa per dare al Paese un imprinting sportivo, un’innovazione che gli anni hanno provveduto a cancellare e dalle cui leve uscirono comunque atleti come la Dorio o Ortis. Nel 1968 morirono Robert Kennedy e Martin Luther King facendo evaporare un altro pezzetto del sogno americano. Il 1968 fu l’anno in cui la nazionale azzurra di calcio vinse il campionato europeo. Fu l’anno dell’altitudine miracolosa per battere record in quota, del salto in alto reinventato da Fosbury, da mille parabole che, come un sogno infranto d’infanzia, si arrestarono su quel 1968 fatidico. Libro della nostalgia che non dimentica il Vietnam, il clima da guerra fredda, lo sbarco sulla luna con la conflittuale e dispendiosa concorrenza tra Usa e Urss. Quando Nato e Patto di Varsavia erano realtà solide oltre che punti di riferimento della politica mondiale. Erano le stagioni in cui si voleva cambiare il mondo prima che il mondo cambiasse noi.
data di pubblicazione:19/11/2019
da Daniele Poto | Nov 8, 2019
(Teatro India – Roma 5/10 novembre 2019)
Il folgorante memoir di una one woman show. Meno aggressiva del solito, più lirica, più ripiegata su stessa.
La Danco rappresenta un esempio probabilmente unico nell’attualità teatrale nazionale. Fabbrica da sé i propri spettacoli, arrampicandosi su un testo ulceroso, autobiografico ma non del tutto, riassumendo nei suoi umori sconnessi il degrado di Roma e la confusione personale. Tanto tempo è passato dalle particine in film o fiction che non le appartenevano, La sua vera essenza sprigiona a teatro in una scena vasta che lei anima con movimenti suggeriti dal cambio di luci. Domina il testo fluviale, distribuito in un’ora di esibizione con la sola rutilante esibizione di rabbia con un lancio di sedie. L’attrice racconta la sconnessione di Roma con un viaggio nei quartieri raccontando la propria precarietà di attrice con siparietti comici particolari riassunti nell’incontro con impresari balzani e inaffidabili. E’ una storia del teatro raccontata attraverso metafore che testimoniano la dura coesistenza dell’arte (o del tentativo di essa) con le necessità materiali dell’esistenza. Dunque la scena è un modo per esorcizzare nevrosi, tic, ipocondrie con un cammino dal basso, condito di cammei, di dialetto romanesco, di qualche più o meno necessario turpiloquio. L’età ha temperato qualche spunto più radicale e nella sua drammaturgia circolano, inaspettati, persino momenti di lirismo, temperato dal gioco dell’ironia. Il segreto, anche nella recitazione, è non prendersi troppo sul serio. E la scommessa continua a funzionare visto la grande presenza di un pubblico insospettatamente inter-generazionale. La Danco viaggia sul suo singolarissimo tappeto volante, consapevole inventrice di un nuovo genere. Insieme autrice, regista, performer, la trinità che riassume con la sua personalità. Efficace nelle sue rituali conquiste, nel raccontare nuovi pezzi di vita. Puntualmente, ogni due/tre anni. Aggiungiamo che il tutto è ispirato all’opera di Robert Rauschenberg.
data di pubblicazione:08/11/2019
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 30, 2019
(Teatro di Villa Torlonia – Roma,17/30 ottobre 2019)
Un garbato omaggio a Achille Campanile, più che dimenticato oggi. Un pastiche condito con opportuna colonna sonora e movimenti scenografici essenziali in un teatro che rimane un gioiello.
Achille Campanile è venuto a mancare alla cultura italiana più di quaranta anni fa. Ma il suo ricordo è stato perentoriamente rimosso, dimenticando il largo successo di pubblico della sua multiforme attività di umorista, scrittore, sceneggiatore, autore di teatro, giornalista, barzellettiere. In una chiave di minimalismo comico un affiatato e giovane trio ha raccolto un meritato applauso collettivo del pubblico per questo omaggio alla memoria, fatto di siparietti comici, di battute brucianti, di un situazionismo dialettico, piccante, curioso e naturalmente eccentrico. Un tappeto sonoro anni ‘50, a caratterizzare l’atmosfera rètro, è l’ingrediente di sala. Tra una e l’altra scenetta movimento di sedie sfruttando il grande spazio a disposizione, un efficace riempimento di scena. Battutacce dell’assurdo montano e prendono il sopravvento in questa operazione un po’ nostalgica ma funzionalmente efficace. Le capacità di travestitismo degli attori è l’occasione per sfoggiare indiscriminata bravura. Una vera rivelazione Luisa Borini i cui cambiamenti di voce costituiscono uno spettacolo a parte. C’è ritmo, c’è adesione a Campanile, persino nello spirito dei balletti en travesti. Sorprese visionarie con echi futurismo e surrealismo, come l’alba di un mondo nuovo tutto da scoprire. Stravaganze veloci, colpi di scena. Sprizzano allegria e ottimismo i quadri presentati, abilmente scelti in un repertorio sconfinato, espresso in oltre mezzo secolo di presenza nella società italiana. Campanile è spiazzante, anti-retorico. Oggi si direbbe politicamente scorretto. E probabilmente sarebbe contestato dalle femministe perché è un autore che non fa sconti ai sessi (se è per questo neanche agli uomini e alla loro ipocrisia). Un’occasione per riscoprirlo con la sua larvata ipocondria e le sue frecce avvelenate rivolte contro il conformismo del suo tempo.
data di pubblicazione:30/10/2019
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 26, 2019
(Teatro de’ Servi – Roma, 18 ottobre/3 novembre 2019)
Un trittico di amici che si fa indissolubile. Il giovanilismo solidale tra problemi di droga, di auto-realizzazione e di impegno in una società sempre più conflittuale.
Il cartello del Sert, per il recupero dei tossicodipendenti, lancia un primo scenografico segnale sull’ambiente respirato dai tre protagonisti di una bella e nascente storia di amicizia. Un trittico di solitudini a confronto. Famiglie lontane, con compagni di viaggio gli spinelli e un linguaggio crudo giovanile ma non volgare. Frutto di un lavoro di gruppo la commedia offre molti spunti nel primo tempo e gira leggermente a vuoto nel secondo dove il potere di una maggiore sintesi avrebbe giovato, evitando qualche calo di ritmo. La recitazione funziona e crea emozioni descrivendo la full immersion nella confidenza e nella intimità condivisa di vicende sentimental/sessuali difficili e conflittuali come la società che li circonda. La commedia viene gestita con proprietà collettiva e misura con le vicende individuali che diventano il paradigma di una condizione esistenziale stentata e insoddisfacente. Il disagio alligna sovrano e senza troppe possibilità di riscatto e redenzione. Spettacolo di giovani ma non solo per giovani, constatando anche l’età del pubblico presente. Riti e miti di una generazione disincantata che percepisce che il proprio futuro sarà peggiore di quello dei propri padri. Ascensore sociale fermo, dipendenze in agguato. Il riscatto con i sentimenti di amicizia e la ritrovata condivisione finale attraverso uno strike. Non quello del bowling ma una sostanziosa vincita a una scommessa ippica. L’occasione per manifestare concretamente una conclamata amicizia che si dispiega con fatti e non con parole. La sinergia attoriale testimonia su un lavoro già rodato e maturo. Interpreti d’avvenire attesi a nuove prove dopo una scrittura collettiva che funziona e qualche consiglio di regia del più esperto e multifunzionale Massimiliano Bruno, utilissimo prezzemolo teatrale.
data di pubblicazione:26/10/2019
Il nostro voto:
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