da Daniele Poto | Dic 8, 2019
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 28 novembre/8 dicembre 2019)
Una donna malata invecchiata precocemente si spegne nell’arco dei 70’ di spettacolo. Ma la sua vera malattia forse è la solitudine. Monologo arricchito condito con la grande empatia di Lunetta Savino.
C’è un solo personaggio che si relazione (fintamente) con tanti interlocutori immaginati, disegnati scenicamente con grande maestria dall’interprete. C’è la colf, l’amica fidata, il giovane che gioca sul pianerottolo, la nipote interessato, il fidanzato fittizio. La protagonista ha 27 anni ma ne dimostra 60 per gli esiti di una rara malattia che determina il suo invecchiamento precoce. Ma non si rassegna. Lotta e vive insieme con il pubblico, consolandosi con il canto, pubblico anche, in un bar e con l’aspirazione al primo rapporto carnale con un teorico fidanzato a cui manda innumerevoli regali ma che (guarda un po’!) non risponde mai ai suoi inviti. Esibizione di pregio di un’attrice che ha fatto passi da gigante nel curriculum e si dimostra pienamente all’altezza per una prova di rara difficoltà. Teatro pieno e applausi scroscianti. E forse fa parte dell’esibizione anche la rutilante uscita di scena del novello Scaramacai tornato essere umano e non personaggio quando si libera di una parrucca attrezzo di scena. Per una volta la scena non è nuda come spesso avviene quando l’attore monologa. La porta è il deterrente delle uscite in cerca di normalità della donna sfiorita innaturalmente presto. Esibizione piena di gesti comuni e di vita quotidiana, con ripetizioni che sfiorano il sublime nella normalità/anormale di un’esistenza presto destinata a spegnersi di fronte ai crudeli ed enigmatici annunci del medico e alla prospettiva della chemioterapia. La fine è nota e non se ne uscirà senza dolore. Tina fa i conti con un destino che le presenta il conto e contro cui non si ribella più.
data di pubblicazione:08/12/2019
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 6, 2019
(Teatro SanGenesio – Roma, 27 novembre/8 dicembre 2019)
Uno scoppiettante classico evergreen regala lampi di comicità, a tratti demenziale. Il pastiche funziona anche grazie all’ottima sinergia interpretativa degli attori, la Compagnia Teatrale Sogni di Scena.
Non una scelta facile quella della family comedy. Sui generis una famiglia molto allargata. Ospiti indesiderati di una festa che si apre con un misterioso tentativo di suicidio. La comicità sta anche nell’attendere invano la comparizione dell’autore dell’insano atto. Tutti si affastellano attorno a lui, apparentemente per cercare di coprirlo ma, massimamente, per difendere la propria reputazione. Così tra la ruspante oca, la cuoca esagerata, si delineano manie e tic dei protagonisti che in una serata senza servitù devono cavarsela da soli fino alla fine dell’epilogo quando compare la polizia. E la versione di quello scelto per depistare più che convincente è ammaliante e scioglie anche la tensione di un investigatore mostrato come integerrimo. Si ride e si sorride in campo a due ore e due tempi di farsa disimpegnata che ha come primo obiettivo un’esplosione di comicità. Sono battute che arrivano presto alla pancia, qualcuna richiede una riflessione più attenta, certo non rivolta a quegli spettatori che nelle prime file confermano la propria dipendenza da uno smartphone acceso, nell’imperturbabilità sorridente del cast. Il testo di Simon invecchia lentamente ed è apprezzabile il tentativo di ribadirne l’originalità senza sconfinamenti forzosi nell’attualità da parte della regista. Lo spazio scenico viene sfruttato fino in fondo e l’elemento delle scale è la pietra d’inciampo di parte della comicità Non si bada a spese anche per i costumi di scena Trattasi di una serata di galla e le mise notturne delle attrici ribadiscono un’atmosfera, ben in coerenza con il plot farsesco. L’ennesima bella prova di un affiatato consesso di attori.
data di pubblicazione:06/12/2019
[sc.voto3t]
da Daniele Poto | Dic 4, 2019
Il sottotitolo è accattivante ed illuminante. “Gli anni ottanta, magia di un’epoca in cui avevamo il mondo in pugno”. Metafora del momento più radioso del pugilato italiano. Con personaggi come Oliva, Rosi, Kalambay, capaci di imporsi su ring nazionali e internazionali decretando il successo del pugilato noble arte non come rissa selvaggia alla Tyson ma come elegante lezione di stile. Era un momento che si prolungava dalla saga di quel Benvenuti, umiliato da Monzon ma capace di proiettare una luce positiva sul seguito di uno sport oggi decaduto a eventi e personaggi residuali. Come infatti paragonare uno Scardina o un Vianello attuale ai Parisi e ai Nati, a campioni mondiali ed europei in un mondo popolato ormai da un’infinità di sigle spesso indistinguibili? Il tramonto della boxe è stato decretato dalla scarsa credibilità del sistema complessivo, dalla relativa buonafede dei giudici, dal proliferare delle sigle e dallo scadimento dell’attività dilettantistica che ha reso sempre più labile il confine con il mondo professionale. Oggi si costruisce un record con una serie di incontri già segnati e la fortuna dei pochi sopravvissuti è soprattutto mediatica. Torromeo ci restituisce invece l’età felice del pugilato italiano con una serie di riuscite immersioni nel mondo dei protagonisti. Vissuto da vicino, confidenzialmente. La serie di fotografia scattate su questo sport in decadenza restituisce il quadro veridico di un’epoca in cui anche gli italiani vivevano meglio forti di una classe media consolidata che, dopo l’esplosione del boom, cercano di consolidarsi come borghesia sull’esempio di Germania, Francia, Inghilterra. C’era anche il sogno imitativo americano dietro i successi sportivi. In effetti non si arrivava per caso a giocarsi su un ring un titolo mondiale. Alle spalle c’era la solidità del movimento, l’intraprendenza dei manager, la voglia di rischiare di una società che non si poneva limiti di sviluppo e non si interrogava sulla possibile decrescita più o meno felice.
data di pubblicazione:04/12/2019
da Daniele Poto | Nov 24, 2019
(Teatro di Documenti- Roma, 15/24 novembre 2019)
Un classico della drammaturgia ibseniana, carico di ambiguità e di dissimulazioni. Due ore di spettacolo teso e sobrio, proposto con apprezzabile filologia teatrale e rispetto del testo originale.
Nella suggestiva location di un piccolo teatro storico sfilano i cinque protagonisti di un autore molto rappresentato, tutt’altro che passato nel dimenticatoio teatrale. Sala lunga e stretta, a contatto di pubblico dove i protagonisti recitanti si producono nell’affabulazione e poi si siedono, pazienti, in attesa della loro successiva entrata in scena. Ma attenti anche in situazione di pausa, ad abbozzare nuove caratteristiche che appartengono alla loro profondità. L’apparente verità si colora con l’apparire delle menzogne e di tante situazioni irrisolte, legate a paternità incerte. Realtà fatta di spettri e di ribaltamenti perniciosi. Una virtuale macchina del fango messa in moto dalla ricerca della verità. Un moto quasi inconsapevole provocato dallo sviluppo degli eventi. Rivelazione chiama rivelazione in un vortice che non sembra mai fine, in un processo dialettico in cui il personaggio inizialmente sbozzato si riconvertirà in uno completamente diverso nella catarsi teatrale. Spettacolo ricco di pathos. L’attualità di Ibsen sta nel delineare un mondo completamente privo di certezze, sin dal piccolo nucleo familiare. Tragedia in cui si intravedono baluginii proto-femministi ben in linea con l’autor di Casa di Bambola o Hedda Gabler. Siamo all’interno di uno spaccato borghese con molti derivati ottocenteschi di cui, volontariamente, non ci si sbarazza fino in fondo, per scrupolo di fedeltà e di corretta adesione alle tematiche dell’autore. Spettri come fantasmi e minacce. Opinioni, credenze, pregiudizi e decisioni in atto. Se il teatro è conflitto qui lo scioglimento emotivo è propedeutico alla messa in moto di un rigoroso groviglio di scoperte variamente metabolizzate dai protagonisti. Non tutto è come sembra, non tutto sarà eguale a prima.
data di pubblicazione:24/11/2019
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Nov 22, 2019
(Teatro India – Roma, 19 novembre /1 dicembre 2019)
Non un semplice reading, una struttura composta di 80’ con foto, creazioni video, le stesse impennate acustiche conditi da virtuosismi dell’attore in scena..
Inaspettato recupero di Steinbeck, cantore prima giornalistico poi letterario, di una crude temperie della società americana. Migranti ante litteram in cerca di una difficile terra promessa, la California. Pane amaro con una metafora di estrema attualità rispetto alla realtà di oggi. Popolizio definisce “un’operina” il lavoro composito realizzato in appena 15 giorni per volere del Teatro di Roma con una risposta di pubblico esuberante legata al carisma dell’interprete. Le onde della sua voce raccontano in una dozzina di capitoli la sala dei poveri, esemplificata in 685 pagine e recente ri-traduzione dall’autore americano, oggi recuperato sulle scene anche con la fluviale edizione de La valle dell’eden (otto ore di durata) per la regia di Antonio Latella. Non ci si annoia nella scansione dei capitoli anche per la suggestione delle foto (poi ammirabili in una mostra fotografica nel foyer) e per le percussioni del musicista di scena che asseconda il testo con una partitura predefinita ma non priva di qualche guizzo di improvvisazione originale. Il finale è lirico e l’uscita del one man show contrassegnata dalla riproduzione di un famoso brano di Bruce Springsteen pienamente dentro la vicenda. Così Steinbeck esce dal cono d’ombra in cui l’aveva relegato la sua presunta ingenuità e il ben diverso impatto di un Faulkner. Il suo presente storico (sembra raccontare i fatti in presa diretta) riacquista mordente tattile. Intravediamo la polvere e le spighe di mais, i trattori che sostituiscono il lavoro umano. I robot del nostro futuro sono solo il perfezionamento di un mondo del lavoro con regole sempre più spietate e tayloriste. Malavoglia in salsa statunitense con focus sulla crisi agricola che stritolò negli anni ’30 del passato secolo un bel pezzo di società.
data di pubblicazione:22/11/2019
Il nostro voto:
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