da Daniele Poto | Gen 10, 2020
(Teatro Ghione – Roma, 9/26 gennaio 2020)
(Un classico della comicità, molto sfruttato, persino un po’ logoro. Un intreccio da barzelletta nel duello diventa il pretesto per 80’ di comicità con comprensibili alti e bassi).
La premiata ditta comica Pistoia & Triestino si è costruita una solida base di pubblico e il tutto esaurito alla prima senza particolari Vip (notato il solo Franco Nero) testimonia di una larga base di gradimento popolare. Abbandonato per un ciclo il filone di Gianni Clementi, il duo pesca in Francia. E dopo La cena dei cretini sfrutta Veber per un frammento di comicità pure che attinge alla commedia dell’arte, a quella degli equivoci, al repertorio consolidata del mestiere dei due attori. Il film tratto da questo spunto risale nientemeno che al 1973, è passato quasi mezzo secolo, quando gli attori erano Lino Ventura, Jacques Brel e Nino Castelnuovo. Triestino dopo aver imparato il bielorusso (Ben Hur) qui si esprime in un italiano russizzato. Mantenendo l’ambientazione francese (marsigliese) si è ammiccato alla scuola dei duri di tanti gialli scritti e vissuti in loco. La bravura è quello di dilatare una trama che potrebbe essere riassunta in cinque righe e pochi minuti di teatralizzazione. Dialoghi fatto di tormentoni all’interno di uno scenario tradizionale (un inconsueto triangolo). Politica e attualità sono bandite perché il dettame del divertimento detta legge. Quando il sipario cala è chiaro che non ci sarà spazio per il secondo tempo se non per il riassunto dello speaker, l’apprezzato doppiattore Angelo Maggi. Spettacolo di consumo ma di qualità nel segno di quel divertimento popolare che è quasi sparito dai teatri italiani nel nome di una seriosità dominante e auto-referenziale. La scena di Francesco Montanaro con lo schema delle due camere comunicanti è funzionale alla felice sinergia dei due amici attori. E gli interpreti di contorno, con una citazione particolare per l’amante, s’incastrano magnificamente nella filosofia ludica del lavoro di gruppo.
data di pubblicazione:10/01/2020
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 7, 2020
(Teatro di Documenti – Roma, 3/6 gennaio 2020)
Esilarante e scoppiettante trattamento di un autore letterariamente e cinematograficamente riccamente riscoperto. Trama-pretesto tra giochi di luce, cambi di sala e balli partecipati con il pubblico.
La conformazione del teatro si presta a cambi di scena, a brusche ed intermittenti suture di un vaudeville affrontato a ritmo di carica. Con gli uomini che fanno le donne e viceversa. Giochi di travestimenti e inganni sull’età per un matrimonio che, sul brivido dell’erotismo agognato, si deve fare a tutti i costi. La prima notte di nozze sarà un disastro ma l’invenzione miracolosa della fatina buona farà si che una vecchia rugosa si trasformi un’affascinante fanciulla ovvero come da un paginetta e mezzo di Basile si possa ardire a un’incalzante crescendo. Per la verità il finale è anche nero e non solo rosa. Perché la sorella invidiosa ci lascerà le penne e nell’immobilità finale si riscatta la bravura del demiurgo Longobardi che nella ripresa di uno spettacolo collaudato si esalta come femminella stagionata, guidando marpionescamente le danze, con frequenti ammicchi rivolti al pubblico. Che si fa esso stesso attore itinerante e partecipante alla favola rosa-nera. Il napoletano è la lingua (non il dialetto) dominante ma anche attori romani se la cavano magnificamente. Non è facile vedere in scena 18 attori e/o musicisti. Anche questo è un miracolo della passione teatrale nelle sale di Damiani che consentono contorsioni semi-acrobatiche degne di una grotta. Il viaggio fantastico è una digressione nella fantasia più spinta con afrori di burlesque nei travestimenti e un pizzico di poesia. Sullo sfondo il mito di una bellezza, agognata e raggiungibile, alla fine. Il turpiloquio è la scorciatoia ovvia per parlare alla pancia del pubblico pensante.
data di pubblicazione:07/01/2020
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 20, 2019
Le scapigliate avventure in barca di uno dei più prolifici autori del mondo, banalmente definito di genere. Simenon è come un calciatore esperto che sa giocare sulla fascia, al centro e persino in difesa. Come in questa operina minore (in letteratura non si butta niente) rieditata da un editore importante e prestigioso e dunque abilitata a una sicura e importante vendita. Qui lo scrittore di gialli vira nel giornalista corrispondente che si aggira nel Mare Nostrum Mediterraneo, tra Europa e Africa, cavando succhi basilari dalla vita di mare e da alcune esperienze molto ruspanti. Il deterrente sessuale è sempre molto vivo nelle sue fantasie senza particolari connotazioni di genere. Si carpiscono molte informazioni sul suo carattere e sulle sue abitudini, sulla sua passione per il mare e per le sue idiosincrasie. Giornalista parziale e dunque non fedelissimo della realtà, restituita attraverso gli occhi sensibili dello scrittore e quindi con un’accezione particolare. Non altissima letteratura ma fogli di giornale deperibili, peregrinazioni che possano apparire senza capo ne coda. Più che notizie giornalistiche, divagazioni, piccole fughe narrative con altrettanti microscopici episodi descritti con avidità di particolari. Il libro si arricchisce delle foto, un accostamento e in fondo una passione coltivata dallo scrittore francese per diversi decenni. C’è amore e odio per il Mediterraneo descritto come una serie ininterrotta di golfi. Un mare oggi improvvisamente poco pescoso e che costringe i pescatori nostrani a pericolosi sconfinamenti. Trapela un’ironia distante, un po’ radical chic. L’aristocratico mantiene sempre le distanze dal volgo. Gli scritti sulla goletta rivelano curiosità e stupore nei vari passaggi dalla Tunisia all’Italia e a Malta, sempre con l’occhio attento alle onde ma anche ai personaggi che popolano quel mare e che gli conferiscono un’identità precisa. Pezzi di apprendistato rivalutati dopo che la scoperta e la fama di Maigret hanno compiuto un’importante traversata nella letteratura mondiale.
data di pubblicazione:20/12/2019
da Daniele Poto | Dic 18, 2019
(Teatro Eliseo – Roma, 3/15 dicembre 2019)
Letteratura al cinema con qualche problema di mimesi e di rappresentazione. Duetto di attori per un’innocenza che viene contaminata dal sospetto di una insinuante cultura giornalistica del fango. Attualissimo richiamo ai nostri tempi.
Impresa ardua quella di trapiantare un classico del premiato autore tedesco a teatro nei limiti delle pareti esistenti e di una storia letterariamente assai dilatata. Lo scrittore aveva puntato sul dissidio tra la donna protagonista e il giornalista mentre la versione teatrale si apre a ventaglio ad altri scenari, in particolare al rapporto malcelato di affetto tra il datore di lavoro e la governante, progressivamente trascinata in uno scandalo dal quale non sembra poter uscire. C’è il poliziotto cattivo e quello buono. C’è la madre, c’è l’amica, c’è la moglie dei benestante. Il fascino di Katharina viene fuori progressivamente disvelato dal folle e irrazionale sentimento verso un presunto terrorista che alla fine si rivelerà un criminale abbastanza innocuo. Tanto rumore per nulla? No, perché ci scappa il morto. Il giornalista che deforma persino le interviste incurante di ogni possibile deontologia professionale. C’è catarsi e climax in questa esecuzione, legittima difesa dopo un tentativo di approccio sessuale. Risulta leggermente ostica la narrazione in terza persona di Katharina che serve a raccordare le storie e ad accorciare lo sviluppo della vicenda, espediente forse inevitabile. Mazzotta continua a rivelarsi ben più dotato dello stereotipo di Fazio, spalla di Zingaretti in Montalbano. Del resto aveva già rivelato il proprio talento in Anime Nere, il più fedele film sulla ‘ndrangheta della cinematografia italiana minuti. Non è uno spettacolo facile con qualche caduta di ritmo, frutto del voler dire tanto e dello sforzo immane di condensazione di un’opera letteraria che gode di un ritmo cadenzato.
data di pubblicazione:18/12/2019
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 18, 2019
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 12/22 dicembre 2019)
Teatro nel teatro, efficacemente. Dalle Brigate Rosse ai piccoli dissidi interni di una compagnia che punta al successo attraverso il sequestro del Grande Critico. Inutilmente..
Piccolo spettacolo di charme senza gli effetti speciali e la mondanità del Grande Eliseo. Con un pubblico di nicchia che scoppia a ridere nelle svolte micidiali della comicità a portata di mano. Quattro attori che diventano solisti nei momenti di maggiore climax. Sfigati? Irrealizzati più che altro, in cerca di successo. Soprattutto quello che potrebbe venire dalla visione dalla recensione di un critico radical chic che riflette tutti i peggiori difetti della categoria giornalistica. Vanesio, superficiale, bugiardo e super-impegnato. Così dopo che la piccola compagnia riesce a ritrovare un filo logico di programmazione dopo liti e chiarimenti faticosi il grande giorno sembra arrivato. Ma la delusione sarà cocente perché l’illustre ospite non arriverà. Ed allora il testo entra nel testo. Il flash back sulle Brigate Rosse diventa il sequestro del critico che legato e imbavagliato viene obbligatoriamente e coattivamente costretto ad assistere allo spettacolo. Ma si addormenterà e dunque svanirà consenso e recensione. Mesta uscita di scena e finale gramo, sconsolato che riflette un po’ metaforicamente lo stato di una categoria inappagata che fa fatica a sbarcare il lunario. Dunque la prova in cento minuti del quartetto di Lisma diventa anche una fotografia sullo stato difficile dell’arte teatrale. Delle difficile combinazione tra artigianato e sopravvivenza. Contenuta anche la caricata di un superatissimo teatro sperimentale dove primeggiava il corpo, l’occhiuto e strumentale richiamo a Pasolini. Vincerà la tesi del regista. Vincerà il naturalismo che è incontro di uomini, di storie e di contraddizioni. Dunque un sottotesto che si legge in maniera defilata rispetto ai fuochi artificiali di notevoli esplosioni di comicità.
data di pubblicazione:18/12/2019
Il nostro voto:
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