da Daniele Poto | Gen 31, 2020
C’è un afrore corporale molto siciliano in questo libro di uno scrittore isolano che ha rinunciato alle lusinghe censorie di un grande editore per percorrere una via solidale con un fidato compagno di viaggio. Un Verga del XXI secolo? L’ambizione è minore ma il profilo di scrittura non è necessariamente più basso in questa storia d’umiltà che viene dal basso, che profuma di vicoli, di stenti, di eterna lotta per la sopravvivenza nella svolta generazionale di madre in figlia, raccogliendo il testimone ingrato della prostituzione. Dove la professione è una via di mezzo tra il dover essere e l’impossibilità di sfuggire a un destino già scritto dove i protettori sono i potenti o semplici profittatori che cercano di trovare agio nel mestiere più antico del mondo. Quartetto di donne che si rincorrono nella stessa sorte in un’atmosfera di grave realismo dove non c’è mai erotismo se non la ripetitività meccanica del gesto per un mucchio di monete o per un semplice pasto. Il cocktail servito prevede sesso, amore, malattia e il miraggio di una possibile redenzione. La storia ha un’ampia forbice cronologica prendendo spunto dall’arrivo dei liberatori americani, pronti a dispensare dollari e cioccolata. L’universo maschile descritto appare ingrato e cinico, materialista e avido, con qualche minuta eccezione. L’alto e il basso sono gli estremi di profonde diseguaglianze sociali, peraltro non riscattate neanche oggi. Il linguaggio piano incentiva lo sviluppo di una narrazione accattivante di un autore che sta bruciando le tappe e che con questa operina ha iniziato a costruire una poetica che si è più pienamente dispiegata in altri tentativi di ancora più solide architetture letterari. Trapela la passione per la terra odiata e amata, ferace spunto per uno spaccato d’epoca convincente. La prostituzione a Palermo era una risorsa di vita filtrata come unica possibilità esistenziale di donne sole, mal consigliate e mal protette.
data di pubblicazione:31/01/2020
da Daniele Poto | Gen 24, 2020
(Teatro Sistina – Roma, 21/26 gennaio 2020)
Una divertente commedia gastronomica che asseconda una tendenza di moda. Psicodramma comico per quattro attrici che funzionano nella ripresa di uno spettacolo collaudato e di successo.
Una vera cucina in scena con odori e afrori speziati e cibo per il pubblico, rompendo la consueta sacralità del Sistina e le classiche pareti di scena. Uno spettacolo già rodato che mostra meccanismi comici di pronta presa con un quartetto di attrici che offrono performance sorprendenti anche rispetto alla propria quotazione. Spicca in particolare Tosca D’Aquino che salendo di tono regala qualche momento esilarante negli assolo. Funziona la caratterizzazione regionale che ben si attaglia alle origini delle protagoniste, quartetto di cucina tutto al femminile, capace di combinare guai ma anche di risolverli mentre si affollano ospiti mutevoli e diversi in sala, compreso un fantomatico ispettore della Michelin che potrebbe regalare al locale l’auspicata stella. C’è il dialetto pugliese, il campano, il romano e il lombardo in una particolarissima koinè linguistica. La Brescia ha l’occasione per mettere in risalto le proprie doti coreutiche con un siparietto che richiama il burlesque e le sue doti di danzatrice. La cucina e il regno delle donne, delle confidenze, delle intromissioni ma anche di un ragionevole sbarcare il lunario. Con il patrocinio della Federazione Italiana Cuochi le attrici scendono tra il pubblico e fanno assaggiare preziosità culinarie. Il filo conduttore /tormentone è la risoluzione di un gravoso problema economico causato da una delle quattro. Ma non c’è dramma ma semmai risoluzione. Cibo e uomini sembrano analoghe pietanze da cucinare in modo appropriato. La soluzione di un mondo salvato dalle donne (anche in cucina) sembra perfettamente logica e calzante. Spettacolo bello ripieno e decisamente appagante nei limiti del genere.
data di pubblicazione:24/01/2020
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 23, 2020
(Teatro Eliseo – Roma, 21 gennaio/2 febbraio 2020)
Un classico di repertorio rivisto per la terza volta e con grande pathos da un attore ormai novantenne ma ancora intrepidamente sulla scena sostenuto dal fedele Sturno.
L’attore di prego non va mai in pensione e così con la migliore attitudine possibile la compagnia di Glauco Mauri, sinergicamente affiatata, sostiene il primattore nella sua generosa ripresa del dramma scespiriano. Una scenografia gagliarda e dispendiosa sostiene il terzo tentativo di drammaturgia e con sostanziali elementi di novità che rendono stuzzicante l’approccio. Il collaudato mattatore lascia ampio spazio di espressione ai comprimari con un atto di generosità che è anche risparmio delle proprie forze. Ma quando è il momento Mauri si prende tutta intera la scena con degli autentici pezzi di bravura che mostrano un’arte e una padronanza della professione che non tramonta. Prova d’attore ma anche prova per il pubblico visto che lo spettacolo si protrae per tre ore, sostenendo anche divagazioni finali che Shakespeare poteva certamente permettersi in teatri che erano anche luoghi di intrattenimento e loisir secondo un concetto dell’uso del tempo molto diverso da quello odierno. La folla di Re Lear scivola nel vacuo dove anche bisbigli e borborigmi sono significativi per l’afasia di un linguaggio e di una dialettica progressivamente persi. Un ascensore è la trave di sostegno di entrate e uscite in scena con un gioco di luci che sottintende tempeste, bruschi scarti emozionali, il senso di un tradimento consumato dalle figlie rispetto a un padre generoso ma imprevidente. Gli attori usano anche la platea per rompere la monotonia degli ingressi secondo una moda sempre più gettonata. E Barbareschi, sempre più aduso alla kippah, si gode una prima con teatro pieno e numerose ovvie chiamate finali per la compagnia. Spettacolo intenso di tecnica, di repertorio, di una tradizione ampiamente reinterpretata.
data di pubblicazione:23/01/2020
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 18, 2020
Non è il momento della cultura, non è mai il momento della lettura, meno che meno sembrano affacciarsi spazi per la poesia. Dunque un tentativo coraggioso quello dell’editore Giulio Perrone di editare per un suo marchio di affiancamento un poeta dotato ma non giovane, noto più che altro che squisito autore di racconti. Come suggerisce il titolo la silloge nasce dal cammino itinerante dell’autore, personaggio rotto a tutte le esperienze in diversi continenti e ora anche agricoltore biologico. Poeta non professionista ma occasionale, lirico ma anche anti-retorico. Sacco è stato scoperto e lanciato da Elio Pecora, personaggio che ha attraversato oltre mezzo secolo di cultura italiana, dandosi con generosità alla poesia, nella frequentazione dei Penna, dei Pasolini, di Moravia, di una società istituzionale ma anche di quella alternativa e destabilizzante. Pecora invita a godere delle poesie del Sacco con semplicità e naturalezza, magari con lo stesso andamento lento dello scrittore. L’interrogazione sul senso dell’esistere alimenta nel testo un persistente senso di malinconia riscattato dall’ironia e dalla voglia di progredire. Le illustrazioni di Vincenzo Gaudiano sono un utile compendio allo sviluppo poetico. Da notare che molto intelligentemente ogni poesia è caratterizzata dall’anno di scrittura disegnando così il percorso variegato e composito dell’autore anno per anno. Sacco predilige una scrittura visiva dal passo breve e dal profilo basso fissando attentamente luoghi e piani di esistenza (esistenze anche diverse). E rivela, tra le righe, di essere anche un eccellente ballerino di tanto aggiungendo pepe alla sua complessa personalità. La seconda pubblicazione sembra risospingerlo verso la prosa, anche grazie al non dissimulato interesse di un editore come Sellerio. Nella sua summa la poesia diventa strumento di conoscenza e di elaborazione personale, rivolta verso un invisibile e spesso poco decifrabile prossimo. Paesaggi, situazioni e muti dialoghi espressi da una personalità sensibile.
data di pubblicazione:18/01/2020
da Daniele Poto | Gen 14, 2020
Di un grande e prolifico autore non si butta niente. Anche se i brani collazionati appartengono a epoche e prospettive diverse. Il gradimento per il grande autore risolverà in riconversione orizzontale il cocktail di un’operazione comunque destinata a funzionare sotto l’egida di un editore di prestigio. Maugham era in effetti uno spirito errabondo, radical chic e snob ante litteram. Un letterato rotto a tutte le esperienze nella vita. Raffinato omosessuale e frequentatore mondano di ambienti à la page. Ma comunque commentatore non frivolo della vita che mostrava di conoscere bene per esperienze amorose, viaggi, colleghi, fini della letteratura e fruizione commerciale. Così da questo eclettico intellettuale non ci si stupirà della dotta dissertazione su Kant, qui descritto nei minimi particolari della propria vita domestica. Come la ritualità della passeggiata (sempre quella, sempre alla stessa ora), mostrando sul piano teorico pregi e limiti del pensatore di Konigsberg. Maugham è capace di prodursi con disinvoltura tra questi contributi vari e diversi in un saggio sul pittore spagnolo come Zurbaran come in una critica feroce in cui non rintraccia le ragioni del successo di Conan Doyle, giudicato giallista fiacco e poco convincente. L’autore non ha paura di compromettersi in giudizi ficcanti e spregiudicati dall’alto di una provata esperienzialità. Come entrare nel salotto buono frequentato dai letterati e giudicare la goffaggine fisica di Henry James, constatando quasi dal vivo il fiasco di una propria commedia teatrale. Umano troppo umano. Saggio troppo saggio, Maugham è il letterato della porta accanto, prodigo anche di gossip ma di quelli informati partecipati perché vissuti, dunque succosi aneddoti. Non finirà qui perché ci sono sue opere (anche lunghi articoli) mai tradotte in italiano e dunque è lecito attendersi da Adelphi nuove puntate su questo autore riscoperto che nella storia delle letteratura ha vissuto di vistosi alti e bassi nel gradimento della critica e del pubblico.
data di pubblicazione:14/01/2020
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