NEANCHE IL TEMPO DI PIACERSI di Marco Falagusta, Tiziana Foschi e Alessandro Mancini, con Marco Falagusta, regia di Tiziana Foschi

NEANCHE IL TEMPO DI PIACERSI di Marco Falagusta, Tiziana Foschi e Alessandro Mancini, con Marco Falagusta, regia di Tiziana Foschi

(Teatro della Cometa- Roma, 19/29 febbraio 2020)

Comicità romana su temi nazionali espressa con finezza e senza grevità. Dal personale al politico, con levità e acutezza. Battute che vanno a segno grazie a tempi comici azzeccati.

One man show per una comfort zone da cabaret. E il valore aggiunto di funzionali musiche e di uno scenario da stazione del treno. Dove i vagoni e le soste sono altrettanti argomenti. Falaguasta tiene la scena con padronanza ruotando attorno al fil rouge del rapporto con la figlia, cartina di tornasole per interpretare la cosiddetta modernità o, meglio, l’abisso generazionale che separa un cinquantenne come lui da pargoli che pretendono di essere prelevati in discoteca attorno alle 3 di notte o essere scortati in feste misteriose sulla Giustiniana. Il fondale di Roma con la sua burocrazia immobile, il suo cinismo e le sue mollezze, è lo scenario ideale dello storytelling che prende corpo, vigore e concretezza quando accenna al rapporto del cittadino con le banche. Luoghi in cui sei un numero fino al momento in cui minacci di chiudere il conto. Ed è il momento che il direttore si dirige verso di te con fare affettuoso deciso a tutti i costi a recuperarti alla causa. Risate fragorose a scena aperta alla prima per uno spettacolo già rodato, definito nella sua organicità. Che contiene alla fine una nota estremamente malinconica. Per farci capire che non è solo cabaret ma anche teatro. La figlia silente ascolta le tristi considerazioni del padre la cui vita è ruotata tutta attorno alla parola, scritta o recitata e si vede replicare la risposta con messaggi vocali, la fine degli iperconnessi. La crisi dei padri è quella di chi non ha vissuto né il ’68 né il ’77 ed è scesa in piazza al massimo per festeggiare la vittoria dell’Italia nei mondiali di calcio del 1982. Carenze che diventano penuria e mancanza di trasmissione educativa ai figli. Con un palese e amaro senso di vuoto.

data di pubblicazione:20/02/2020


Il nostro voto:

IL RE MUORE di Eugène Ionesco, adattamento e regia di Adriana Trapanese

IL RE MUORE di Eugène Ionesco, adattamento e regia di Adriana Trapanese

(Teatro San Genesio – Roma, 12/16 febbraio 2020)

Una fluente riduzione di un classico poco rappresentato. Con ricche e accurate scenografie e un pregevole lavoro di asciugatura del testo, frutto del lavoro di un anno..

Il Re Muore è il leit motiv di un testo estremamente attuale che, non modificato rispetto all’originale, appare come una veridica metafora della società contemporanea e della condizione umana. Il re muore attimo per attimo, in presa diretta con il countdown dei secondi scanditi in diretta dal maestro rumeno. Opera matura del commediografo che qui stabilisce un perfetto equilibrio tra forma e contenuto, con frequenti divagazioni ironiche e rimandi al pubblico in platea. Ensemble teatrale funzionale con livelli di recitazione omogenei e non dissonanti. Il tragico è in equilibrio con il sublime, con uno spegnimento fisiologico che è anche politico, morale, vortice di dissoluzione in un contrasto di atteggiamenti di tutti quelli che gli stanno vicini: la prima moglie, la seconda moglie, la serva, il medico, la guardia. Caduta progressiva di un sovrano, specchio dell’umanità nel suo lento digradare verso la morte. Una favola gotica e polisemantica di sorprendente attualità, vista l’aria del tempo. Il linguaggio punta all’essenziale. Ionesco appare quasi preveggente nel prefigurare la penuria esistenziale oggi molto rappresentata nell’era del coronavirus e del Grande Dubbio climatico: evidenze che certo non si potevano immaginare e concepire circa sessanta anni fa. Teatro nel teatro, efficace esplorazione nei meandri della nostra psiche, insinuando il dubbio che la realtà sia sogno e/o viceversa. Il Re che tutto ha fatto e tutto poteva è diventato un piccolo fuscello che la storia si appresta a spazzare via. Crolla spesso in scena ma senza forzare la recitazione a grossolane caricatura di un declino. Rimandando a forti dubbi sul significato ultima dell’esistenza e della testimonianza che possiamo lasciare con parole ed opere della nostra vita.

data di pubblicazione:15/02/2020


Il nostro voto:

NOTE SEGRETE ovvero Eroi, spie e banditi della musica italiana di Michele Bovi, prefazione di Maurizio Costanzo – Iacobelli editore 2020

NOTE SEGRETE ovvero Eroi, spie e banditi della musica italiana di Michele Bovi, prefazione di Maurizio Costanzo – Iacobelli editore 2020

Michele Bovi, estrazione Rai, è un meraviglioso cultore dei segreti della musica. E quando presenta un libro si appoggia a interviste mirate, a una documentazione ineccepibile. Dunque non stupisca di trovare sulla copertina di un libro di musica la foto di Joe Adonis, pluri-assassino di chiaro marchio Doc mafioso italico, che, estradato in Italia, trovò il modo di tessere fitte trame manageriali con gran parte del jet set canoro nostrano. I legami tra Italia e Stati Uniti cuciono un filo rosso che va da Frank Sinatra a Tony Renis. Ma Bovi va più in profondità ricordando il ruolo fondamentale esercitato da Lucky Luciano come mallevadore della pacifica penetrazione degli invasori americani in Sicilia, esercitando i buoni uffici di collegamento con Cosa Nostra all’altezza della seconda guerra mondiale. Inoltre i servizi segreti, spesso patteggiando con personaggi criminali o borderline hanno provato a esercitare un controllo sui complessi beat, preoccupati del cattivo esempio nel consumo di spinelli o nell’esercizio di libero sesso. Naturalmente nel corso degli anni questa pretesa si è moto attenuata, sia per la virtuale liberalizzazione delle droghe leggere, sia pur spinte più alte di libertà che hanno attenuato la portata di scandali ormai solo presunti, pure se il recente festival di Sanremo qualche colpo alla morale corrente l’ha pure portato. Adonis era coccolato da alcuni dei maggiori cantanti italiani, era un ospite assiduo di Sanremo. In questo andirivieni Italia-America (con i mafiosi a gestire contratti ed appalti) si è consumato anche un possibile suicidio: Rossano, cantante di precario successo, venne trovato impiccato nella propria camera di albergo negli States. Era diventato una sorta di corriere della droga per conto mafioso dagli Stati Uniti al Canada e chissà se gli sia costata la vita uno sgarbo ai propri datori di lavoro: il mistero rimane. Anche Mina e Celentano vennero contattati per trasferta gestite da questi pericolosi interlocutori. La prima fiutò l’aria e dopo un primo ingaggio rinunciò ad un impegno giudicato compromettente mentre il secondo fu frenato dalla cronica desuetudine ai viaggi aerei.

data di pubblicazione:11/02/2020

SEGNALE D’ALLARME, LA MIA BATTAGLIA VR , diretto e interpretato da Elio Germano con la co-regia di Omar Rashid

SEGNALE D’ALLARME, LA MIA BATTAGLIA VR , diretto e interpretato da Elio Germano con la co-regia di Omar Rashid

(Teatro Argot Studio – Roma, 4/16 febbraio 2020)

Un esperimento che esce fuori dai confini del teatro e entra quelli del cinema. Spettacolo dal vivo? Solo in parte ma estremamente inquietante. Nel resto nel XXI secolo le Muse sono estremamente flessibili…

La forma fa il contenuto. Sembra di salire su un aereo. Istruzioni per l’uso: indossare i visori, al momento giusto munirsi di cuffie e guardare un puntino fino a che non scompare. Poi una scena differita, quella performata da Elio Germano, tradizionalmente più attore di cinema che di teatro, in uno spazio scenico del 2019 a Riccione. Qui riprodotto come fosse un 3 D, con pubblico finto di attori. Il visore ti mette in prima fila, con una visione a 360 gradi e completamente isolato dalla reazioni (dai trasalimenti degli altri spettatori), isolati come te. L’inizio sembra quello di one man show, un po’ cabaret, un po’ chiacchierata di amici e ti chiedi: solo queste banalità? Ma il discorso monta progressivamente. Sulle ingiustizie comminate dalla maggioranza, sul valore delle competenze, disseminando a pioggia profezie di destra sul mondo contemporaneo. E precipiti sempre più in un abisso di pregiudizi, di razzismo, di incompatibilità, in un coacervo di pensieri politicamente scorretti. Alla fine Germano non passeggia più tra il pubblico ma monta sul palcoscenico e si produce in una focosa arringa, sempre più stringente ed oltranzista. Fino a svelarti che la seconda parte dell’apologo è ripresa pari pari dal Mein Kampf di Heil Hitler. Dunque si produce in una sorta di esorcizzazione di coscienze che ritiene in gran parte atrofizzate. La tecnologia dell’evento è una sorta di psicodramma e una metafora dei tempi visto che un italiano su tre sembra positivamente orientato verso queste ideologie. Germano era presente poi alla prima nel piccolo ma efficiente teatrino capitolino per una sorta di confronto con il pubblico a cui sfuggirà nelle altre serate. Del resto la differita è diventata un obbligo perché le recensioni e il passaparola hanno svelato in anticipo il piccolo trucco ideologico dell’operazione (amplificato dagli applausi dei realmente presenti) e dunque vanificato l’effetto sorpresa con una maieutica che perdeva inevitabilmente di valore.

data di pubblicazione.05/02/2020


Il nostro voto:

LE BRACI all’opera di Sandor Marai, drammaturgia e regia di Laura Angiulli, con Renato Carpentieri e Stefano Jotti

LE BRACI all’opera di Sandor Marai, drammaturgia e regia di Laura Angiulli, con Renato Carpentieri e Stefano Jotti

(Teatro Eliseo – Roma, 23 gennaio/9 febbraio 2020)

La riscoperta di un autore ungherese dimenticato, trattata per il teatro in un confronto a duello dialettico, breve ma intenso, con pochi movimenti di scena.

 

Il teatro sempre più spesso saccheggia dal cinema, dalla letteratura, persino dalla televisione. A volte con scelte meditate, a volte per carenze inventive. Marai si presta all’adattamento perché il romanzo che rievoca un fosco e dimenticato periodo è uno stridente confronto tra presente e passato di due uomini che sono stati grandi amici ma anche rivali in amore e che ora sono separati dalla gelida sospensione del giudizio, ritrovandosi a confronto per una sorta di duello percettivo quaranta anni dopo la separazione, interpretata come fuga da uno dei due. Interazione perfetta dei due attori, uso sapiente delle pause in una scenografia minimale che vive il suo momento di maggiore funzionalità nel finale quando il gioco delle luci di scena e l’uscita di scena dei due è il preludio a una sorta di meccanica sibillina risata del rivale. Meno di un’ora di spettacolo con picchi di tensione efficace. Se il teatro è contraddizione qui si approda alla sublime sintesi di pareri discordi. Le domande dell’uno non trovano soddisfazione nelle risposte dell’altro. Si respira un’aria antica e decadente per una mise en scene che richiede concentrazione da parte dello spettatore. Le ferite non si rimarginano, i rapporti non si chiariscono. Ma prima della morte c’è un sentore di mutua quanto inutile pacificazione. Gli attori non eccedono. Toni pacati, mai sopra le righe senza ombre di concitazione. Una sobrietà che è la cifra stilistica di uno spettacolo che richiede pochi movimenti di regia. Teatro di parole per una rivincita che evapora man mano che l’arringa lungamente maturata non trova soddisfazione nell’interlocutore. Mitteleuropa sullo sfondo ma anche gli esotici Tropici di una fuga che ha lasciato molti interrogativi: libera scelta o vigliaccheria?

data di pubblicazione:03/02/2020


Il nostro voto: