da Daniele Poto | Mar 9, 2020
Libro che nasce motivato da un feroce puntiglio, la dissacrazione di un luogo comune espresso nell’adagio del titolo. Filippi circoscrive le frasi della retorica tipica di un’ideologica restauratrice e la dissacra, svelando nella sinteticità del pamphlet la complessa contraddittoria ideologia del fascismo e del suo massimo interprete, il Duce. Attribuzioni macroscopiche e minime fuse insieme in una demolizione a 360 gradi di una rivisitazione di comodo, specie agitata come esempio positivo rispetto al deludente presente. Se è vero che gli italiani sono stati più generosi in fatto di natalità rispetto alle generazioni odierne è del tutto illusorio pensare che abbiamo goduto di un benessere migliore, anche in relazione ai sacrifici fatti per le cosiddette guerre coloniali. Per dirla in termini sportivi è un’Italia che in trasferta non vinceva mai perché alle facili e crudele conquiste di Libia, Somalia e Libia doveva accostare le deflagranti e perdenti campagne belliche in Russia e persino in Grecia Un’Italia che dava l’oro allo Stato ma non veniva ripagata da stipendi migliori. E se dei treni non era segnalato il ritardo era solo perché Il Minculpop aveva dato ordine di trascurare le pecche. Paese privato di libertà democratiche in nome di un regime dove il disfattismo era la parola da bandire. Fascismo che disvalorizzava la donna mettendola solo al centro del sistema familiare dove non poteva che essere solo una fattrice di figli da destinare alla patria. Non a caso il suffragio universale le verrà riconosciuto solo nel 1946, a guerra finita. Bandito il diritto di sciopero ed esaltato il razzismo, per par condicio con il nazismo, temperato solo dall’esigua rappresentanza di ebrei in Italia.Pura leggenda la creazione dell’INPS dato che esisteva già un’istituzione proto-previdenziale che sarebbe stata messa a punto progressivamente, senza un’influenza decisiva e caratterizzante di Mussolini. Un libro che fa storia e rilegge pericolose derive odierne, in nome dei fatti e di una notevole e documentata vis polemica. Anche la bonifica delle paludi tramite il trasferimento coatto di comunità viene sottoposta a una rilettura critica che lascia poca sostanza ai meriti del regime.
data di pubblicazione:09/03/2020
da Daniele Poto | Mar 5, 2020
(Teatro Quirino- Roma, 3/15 marzo 2020)
Un robusto drammone d’epoca lasciato nella sua cornice naturalistica anni ’50. Un soggetto epocale risolto a misura di un Pizzi uno e trino che brilla soprattutto nella scenografia e nei costumi avvalendosi della traduzione di Masolino D’Amico.
Due ore e mezzo senz’intervallo. Prendere o lasciare. Aderendo ai sovratoni da prima donna di Mariangela D’Abbraccio su cui si reggono sorti e tenuta di un classico oscillante tra cinema e teatro. Se Vivien Leigh era stata la matura interprete del film alla allora non più tenera età di 38 anni (rispetto a una protagonista che fintamente ne dichiara 25 ma che comunque non dovrebbe averne molti di più) qui il salto generazionale è ancora più esteso perché la prim’attrice di anni ne ha 58 e dunque, seppur debitamente truccata e ben vestita, più che una donna perduta sarebbe oggi volgarmente definita una milf. Lo spettacolo rivela a poco a poco, come nel gioco a incastro di tante scatole concentriche, il suo torbido passato di conquistatrice di adolescenti, di moglie infelice di un consorte tanto giovane quanto omosessuale, di frequentatrice di bordelli, di praticante alcoolista. Né le può far la morale in violento cognato di origine polacca che alla fine, nel massimo del climax la violenta. Finale mesto ed allusivo. Quello che bussa alla porta non è l’ultimo spasimante che possa redimerla ma un incaricato del manicomio (allora, prima di Basaglia si chiamavano così) che è venuto ad offrirle se non altro quell’auspicato vitto e alloggio a cui da sempre brama. I deliri della D’Abbraccio riflettono il caleidoscopio di un universo femminile variegato in cui si confondono o comunque giocano un ruolo importante debolezza, vanità, fascino. Crudo realismo nel testo originale e scelte di campo nell’adattamento. In originale erano già spariti i riferimenti all’omosessualità del violento protagonista, alias Marlon Brando. Bravo Daniele Pecci, attorialmente vocato in questo caso alla greve rozzezza ed animalità di un personaggio negativo.
data di pubblicazione.05/03/2020
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mar 4, 2020
(Teatro Eliseo – Roma, 3/22 marzo 2020)
Un’opera minore di Ibsen il cui repertorio è completamente gettonato con una secolaristica riattualizzazione dei temi. Scena in chiaroscuro come le voci a volte poco audibili dei protagonisti per cento minuti di spettacolo.
Interno norvegese, intreccio torbido e pieno di non detti e di inespressi. La reputazione del costruttore Solness, sostenuta dal mestiere attoriale di Umberto Orsini (85 anni), è vistosamente insidiata dai chiacchiericci sui suoi trascorsi. Il contrasto tra vecchi e giovani e conseguente ricambio generazionale è la cartina di tornasole per analizzare il vissuto (e i peccati) del protagonista, tra sogno e realtà. La scena fa quasi lo spettacolo: un parallelepipedo smontabile che a seconda dei movimenti di apertura e chiusura descrive il momento psicologico dei personaggi. Solness sembra sempre di più stretto della morsa dei sospetti e delle insinuazioni femminili (verità o finzioni?) e della mancata promozione professionale del suo giovane assistente. Sfiderà i pregiudizi e gli echi del passato salendo pericolosamente su un’impalcatura delle sua ultima creazione. La fine è nota: cadrà. Soluzione e scioglimento affidata all’ovvia conclusione dello spettatore. Incombe sul suo destino anche la mancanza di prole: ha progettato tre camere per i bambini che risultano vuote. La compagnia assemblata sotto l’egida della Teatro Stabile dell’Umbria è un mix di vecchi e giovani. E la figlia d’arte, Lucia Lavia, scala un altro difficile momento di una carriera che si annuncia fulgida quanto propiziata dalla fortuna di un padre come Gabriele. Vocalità sofferta e intuibile all’inizio con vistosa differenza qualitativa rispetto al sonoro delle voci registrate: particolari migliorabili dopo una prima a platea da tutto esaurito per i generosi inviti di Luca Barbareschi che ha ribadito in apertura l’ultimatum alle attualità silenti. Dopo le ultime repliche di stagione il Teatro Eliseo (ed il Piccolo) chiuderà i battenti. Per dirla con Pirandello Così è se vi pare. Ma chi ci crede?
data di pubblicazione:04/03/2020
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mar 1, 2020
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 13 febbraio/1 marzo 2020)
Capita accidentalmente che nell’era del coronavirus si parli dell’Aids. Malattia contagiose che accendono nevrosi e psicosi. Qui il dramma si riflette in interno familiare. Che poi tanto famiglia accogliente non è …
Vicenda dolorosamente autobiografica portata in teatro da un autore che si è spento a soli 38 anni. E che non è riuscito a comunicare alla propria famiglia quanto gli stava accadendo. Familiari solo al corrente della sua omosessualità (evocata con garbo in un passaggio in cui si sottolinea la volontà e l’impossibilità di avere una discendenza). Una gabbia che alza e si abbassa scenograficamente descrive l’interno e l’esterno. Dentro non si riesce a comunicare. Spezzoni di monologhi senza risposta con l’inespresso a farla da padrone. L’ospite atteso, il malato, dovrebbe rivelare la propria condizione e quella condanna a morte che gli piove sul capo ma è continuamente scoraggiato dalle interruzioni di senso nei vari dialoghi con i parenti. Recitazione fredda e distaccata che vira verso l’incomunicabilità e tende a farci capire quanto la malattia regali isolamento, incomprensione e scarsa solidarietà anche all’interno di un nucleo familiare afflitto da varie problematiche. La personalità della Bonaiuto in un dramma rodato non schiaccia il carattere ben rappresentato degli altri protagonisti, ognuno dei quali ha un piccolo assolo su cui appoggiare il pezzo forte della parte. Dato che non esiste una vera e propria coralità di recitativa ma solo tanti spezzoni che si avvalgono della storica traduzione di Franco Quadri. Il lutto a venire è un doloroso sottotesto. La voce fuori scena del protagonista ne allude in avvio e lo ribadisce alla fine. Un’uscita di scena metonimica. Sobrietà e lucido rigore nello stile e del profilo del dramma che si avvale delle musiche originali di Roberto Angelini. Sinceri applausi in uno spettacolo in cui la parola più che i movimenti scenici ha un ruolo fondamentale attingendo a un testo di profonda emotività.
data di pubblicazione:01/03/2020
[sc.voto3t]
da Daniele Poto | Feb 23, 2020
Quanta sinistra c’è nella destra e viceversa? Mauro Vanetti si tuffa più che nell’ipocrisia del politicamente corretto in una rilettura ortodossa degli schemi di comportamento politico adottati dallo schieramento progressista che, interpretando più o meno strumentalmente, il dettato di Marx & Engels finisce spesso nello schieramento opposto adottando in nome di una sorta di sovranismo illuminato gli stereotipi in auge sull’avversa barricata. Gli stilemi del populismo e del sovranismo hanno influenzato una generazione che non sa più come costruire una propria identità e spesso finisce col tracimare attribuendo sull’argomento dell’immigrazione prerogativa esclusive più che inclusive. Basti ricordare gli apprezzamenti nei riguardi dell’ex ministro Minniti per la decisa politica di contenimento degli sbarchi, ideologicamente in linea con l’operato di Salvini che certo di sinistra non è. Derive di un fronte allo sbando che dopo lo scioglimento del Pci è diviso in mille rivoli e non sa più riunirsi sotto un’insegna coerente, ancor più disorientato su come fronteggiare il cambiamento climatico in atto nel pianeta. L’autore non fa sconti anche alla parte avversa ricordando quanta finta sinistra ci sia nella politica economica degli iniziali fautori del’uscita dall’Euro come Bagnai e Borghi, omogenei al ripiegamento ideologico della Lega ora non più così’ critica nei confronti dell’Unione Europea. Vanetti pesca le contraddizioni e lo smarrimento ma anche la cattiva fede nel virare a senso unico il pensiero dei padri del comunismo, strumentalmente utilizzato per tesi di comodo. Il testo quindi è una sorta di manuale di bordo ideologico per orientarsi nel mare magnum della confusione, del rovesciamento e nel trasformismo, in una sorta di Carnevale dove gli slogan risuonano come parole vuote, spesso ipocrite. Così vecchi scheletri escono dall’armadio e si fanno forti con di posizioni suggestive ma irrealistiche, ancorché di vasto successo perché inclini al marketing della propaganda. Particolarmente efficace si rivela la demolizione del neo-filosofo Fusaro con un’operazione di destrutturazione quasi semiotica del suo linguaggio, spolpato all’osso per decifrarne l’ideologia retriva.
data di pubblicazione:23/02/2020
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