Personalizza le preferenze di consenso

Utilizziamo i cookie per aiutarti a navigare in maniera efficiente e a svolgere determinate funzioni. Troverai informazioni dettagliate su tutti i cookie sotto ogni categoria di consensi sottostanti. I cookie categorizzatati come “Necessari” vengono memorizzati sul tuo browser in quanto essenziali per consentire le funzionalità di base del sito.... 

Sempre attivi

I cookie necessari sono fondamentali per le funzioni di base del sito Web e il sito Web non funzionerà nel modo previsto senza di essi. Questi cookie non memorizzano dati identificativi personali.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie funzionali aiutano a svolgere determinate funzionalità come la condivisione del contenuto del sito Web su piattaforme di social media, la raccolta di feedback e altre funzionalità di terze parti.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie analitici vengono utilizzati per comprendere come i visitatori interagiscono con il sito Web. Questi cookie aiutano a fornire informazioni sulle metriche di numero di visitatori, frequenza di rimbalzo, fonte di traffico, ecc.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie per le prestazioni vengono utilizzati per comprendere e analizzare gli indici di prestazione chiave del sito Web che aiutano a fornire ai visitatori un'esperienza utente migliore.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie pubblicitari vengono utilizzati per fornire ai visitatori annunci pubblicitari personalizzati in base alle pagine visitate in precedenza e per analizzare l'efficacia della campagna pubblicitaria.

Nessun cookie da visualizzare.

PADRE NOSTRO di Claudio Noce, 2020

PADRE NOSTRO di Claudio Noce, 2020

Un dramma vissuto direttamente ma attraverso la coscienza del fratello. Un laborioso e travagliato parto di sceneggiatura per una mayonese finale discretamente impazzita. Il terrorismo latita sullo sfondo come una scheggia ondivaga e senza credibili motivazioni. E lo sguardo dell’adolescente è un po’ troppo soggettivo per restituire un film equilibrato, maturo e coerente

 

Non basta la favorevole esposizione a una Mostra d’arte cinematografica, l’interpretazione del riconosciuto maggiore interprete del cinema italiano (Pier Francesco Favino si divide la leadership con Elio Germano e si cimenta anche come produttore, credendo nel progetto) per elevare il film alla dignità che l’incerta regia non si merita attraverso l’accatastamento di troppi materiali (familiari, generazionali) e con un margine di libertà che rende evanescente un pur minimo rispetto di una storia inevitabilmente dolorosa. Una pellicola con troppi buchi neri per essere giudicata favorevolmente. Che si distingue perché nella scena più drammatica della sparatoria piazza incongruamente la colonna sonora di Buonanotte fiorellino di De Gregori, un segno di rottura che disturba anche se introdotto come provocazione. Nel secondo tempo incongruamente lungo (circa un’ora e mezzo) la location si sposta in Calabria e regala maggiore vivacità tra bei scenari, la recita in dialetto di alcuni comprimari e l’evoluzione della storia. Che peraltro ha il merito di un ricongiungimento finale che sa di parziale riappacificazione con il passato. Noce non prova ad osare nel totale rivolgimento della storia che gli appartiene (il padre fu vittima di un attentato) e dunque rimane a mezza strada tra il film onesto e genuino e quello traviato da manipolazioni necessarie per un buon sviluppo di biglietteria. Molto del successo è caricato sulle spalle di Favino che non può fare il miracolo di salvare un’opera prima che ha tutti i difetti di un debutto. Chi maneggia il terrorismo senza un chiaro obiettivo finale rischia un deja vu, visti gli illustri precedenti, diremo soprattutto i film sul tema di Marco Bellocchio.

data di pubblicazione:19/10/2020


Scopri con un click il nostro voto:

LE ESANGUI SCENEGGIATURE DEL CINEMA ITALIANO

LE ESANGUI SCENEGGIATURE DEL CINEMA ITALIANO

Una grande ricchezza di proposte, un’enorme povertà di idee. La commedia all’italiana, riveduta e corretta nel nuovo millennio sembra una pallidissima e banale imitazione di quella che fu l’epopea dei Monicelli, Comencini, Risi e del sottovalutato Salce. Sembra aver preso la piega del tanto criticato cinema dei fratelli Vanzina. E ora che Carlo Vanzina non c’è più gli epigoni si sprecano. Finirà che i Vanzina si fregeranno dell’epiteto di “maestri”. Del resto non abbiamo grandemente rivalutato Totò e persino Franco Franchi e Ciccio Ingrassia? In questa rivisitazione estetica che considera persino Ultimo tango a Zagarolo non troppo inferiore all’originale, persino geniale di suo. Dobbiamo persino difendere Enrico Vanzina, massacrato per avere fatto uscire un film nel settembre del 2020 (Lockdown all’italiana) incurante dei 36.000 morti italiani. La commedia italiana dei Sordi e dei Gasmmann non ha forse attinto a episodi di cronaca ancora più acri, tipo la seconda guerra mondiale?

Così dovremmo berci la favola della riappacificazione tra Christian De Sica e Massimo Boldi e la quieta accettazione della filosofia di Vacanze di Natale? Il tema stra-gettonato delle “vacanze” sembra qualcosa che si addice perfettamente all’indole italiana. Le vacanze di Pasqua? Durano al massimo due giorni reali: due giorni però combinabili con un week end e dunque si allargano a una settimana. Quelle di Natale? Paralisi assoluta e per un vasto arco di tempo. Scriviamo dal 20 dicembre al 10 gennaio dell’anno successivo stasi completa delle attività produttive. E le vacanze, per tornare al tema di partenza, sono il ricettacolo repertoriale del cinema. Basta inventarsi un Paese molto diverso dal nostro, che so io il Brasile o Cuba per far sfoggio di provincialismo esotico dove l’italianuzzo dovrebbe essere mostrato per quello che è, cioè mostrato nella sua meschinità. Il Paese chiude per ferie ad agosto e si gode le sue feste e il cinema va appresso a questa eterna vacanza, anche del necessario collegamento neuronale. Le sceneggiature vivono su idee che ormai tendono allo stanco stereotipo, a misura di attori che, forse, sono troppo allettati da un guadagno rapido e sicuro. Senza una sceneggiatura sufficientemente strutturata è difficile “aggiustare” un film, anche se puoi contare su nomi e cognomi come quelli di Alessandro Gassmann, Gianmarco Tognazzi e Marco Giallini. Nonostante critiche infauste, però, Non ci resta che il crimine ha avuto anche un sequel e con lo stesso cast, forse spinti dalla forza dei 4,7 milioni riscossi al box office al primo tentativo.

Il cinema americano beninteso ha altri difetti, ma può appagarti per il budget, la spettacolarità, le musiche, gli ingredienti di una grande industria che può spendere e che prescinde da quel ristretto manipoli di sceneggiatori (sempre gli stessi) al servizio del botteghino. Non stiamo parlando di arte, ma già un efficiente artigiano sarebbe gradito.

Prendiamo Tiramisù con Fabio De Luigi uno e trino, nel ruolo di attore protagonista, regista e sceneggiatore. Il plot, come suggerito dal titolo, ruota attorno al tiramisù: un film con questa trama potrebbe bellamente trasmigrare in uno dei tanti programmi gastronomici dell’ex Belpaese. In Dieci giorni senza mamma lo stesso De Luigi è costretto a fare il papà a pieno tempo perché la moglie (bontà sua) ha improvvisamente deciso di concedersi una vacanza a Cuba con la sorella. Due ore di film per un’idea povera. Il Corriere della Sera commenta nella mini recensione: “Un film che gira a vuoto col pilota automatico inseguendo un copioncino smilzo, prevedibile, da sbadiglio”. Il bello è che la sceneggiatura non è neanche originale perché mutuata da un film argentino. Dunque si può essere banali anche copiando. A tre settimane dall’uscita Dieci giorni senza mamma va in testa al box office con un incasso parziale di 6,2 milioni e si prende un pezzo della fetta dei successi del Di Luigi che in 14 anni ha fatto incassare ai produttori 200 milioni di euro.

Claudio Bisio in due pellicole successive viene costretto a indossare i panni del Presidente della Repubblica prima e del Presidente del Consiglio dopo, mutuando una realtà che è molto più farsesca della pellicola stessa visto che le scialbe imitazioni di Mattarella, Salvini e Di Maio non valgono certo gli originali. In Benvenuto presidente è vano lo sforzo di vivacizzare l’assurdo sviluppo della story con un montaggio demenziale e con musiche esasperate. Peccato che si prestino all’accozzaglia Massimo Popolizio e Antonio Petrocelli, stimati attori di teatro che probabilmente per una piccola parte guadagnano come in sei mesi in giro per i palcoscenici italiani. Pensavamo comunque che i vertici di banalità delle sceneggiature a misura di De Luigi fossero inarrivabili, ed invece ci colpisce ancora di più la sinossi narrativa de La scuola più bella del mondo con Christian De Sica e Rocco Papaleo (il regista non vale neanche la pena di citarlo). “Il preside di una scuola media toscana pensa di invitare una classe del Ghana per uno scambio culturale; ma il bidello confonde la città di Accra con Acerra e così invita gli alunni di una disastrata scuola media campana con il loro bizzarro insegnante”: questo banale spunto diventa il pretesto per un film di 90 minuti. Una replica del “fatale errore” si ritrova in Sotto mentite spoglie dove già il titolo è un elogio del trash rispetto a una sinossi del plot che suona così: “Tommaso (Vincenzo Salemme) è un quarantenne napoletano felicemente sposato con Chicca (Lucrezia Lante della Rovere). Un giorno decide di mandarle un focoso sms che, per errore, arriva a Chiara (Luisa Ranieri), la moglie del suo migliore amico (Giorgio Panariello) che gli si butta tra le braccia”. Così una gag di cinque minuti da giocarsi in televisione tramuta in pellicola.

Il cinema italiano in quanto a mancanza di fantasia con uso e abuso dei format fa pari con la televisione. Il programma di Maurizio Crozza fa certamente ridere. Però quando leggi nei titoli di coda che le sue battute sono frutto del lavoro di sette autori (vale lo stesso per Fazio) l’ammirazione si auto-ridimensiona in un giudizio più sfumato e critico. Una battuta per uno degli autori per costruire una gag? Purtroppo anche attori di gran peso cadono nella tagliola di sceneggiature insipide. Leggete la sinossi di Moglie e marito, film in cui Pierfrancesco Favino: “Un neurochirurgo e una conduttrice televisiva sono sposati da dieci anni ma il loro matrimonio è in piena crisi e i due pensano di divorziare. Un giorno, in seguito a un esperimento scientifico, si ritrovano improvvisamente l’uno nel corpo dell’altro”. Sceneggiatura? Plot per una barzelletta piuttosto, al di là di ogni credibilità scientifica, estetica e narrativa. Persino la stimata Paola Cortellesi si erge a protagonista principale di Ma cosa ci dice il cervello firmato dal marito Riccardo Milani (“Matrimonio, ah quanti peccati cinematografici nel tuo nome”), che certo non è all’altezza della sue prove più riuscite. “L’attrice ha il ruolo di una grigia impiegata ministeriale che nasconde una doppia vita: è una superspia che attiva i propri poteri per vendicare le vittime di bulli, cafoni, prepotenti, interpretati da Stefano Fresi, Claudia Pandolfi, Paola Minaccioni, Remo Girone, Lucia Mascino, Vinicio Marchioni”. Un argomento banale, con la Cortellesi nelle vesti di angelo vendicatore senza essere L’Angelo vendicatore di Bunuel. Anche qui siamo lontani da una sceneggiatura degna di questo nome, attivando un cinema di serie B senza dignità, non scrivo di arte ma neanche di sufficiente artigianato. Povero quel cinema in cui il regista cerca di valorizzare la moglie (la compagna) dandole un ruolo a metà da 007 a metà tra Sean Connery e Lando Buzzanca. Qui la Cortellesi in effetti non è né carne né pesce. Non fa ridere e non emoziona, a metà strada tra trama e farsa in un crescendo di azioni improbabili. Come un gatto in tangenziale appare un gigante da Oscar rispetto a quest’ultima prova.

Un altro esempio di questa degenerata e residuale commedia all’italiana è I compromessi sposi, sequela di luoghi comuni e di stereotipate antinomie (nord-sud, destra-sinistra, proletariato-borghesia) scritta da Miccichè e contando sull’appeal dei due interpreti Salemme e Abatantuono. Tra cui, attorialmente, non c’è alcuna empatia. Eravamo già ben cosci del “buttarsi via” commercialmente di Salemme, speravamo invano in un guizzo d’orgoglio di Abatantuono, addirittura più vero quando interpretava il “terrunciello”.

Quanto a copiature di gag e batture, uno degli esempi più evidenti è offerto, ancora una volta, dalla televisione. Selvaggia Lucarelli ha mostrato con riferimenti e puntute pezze d’appoggio che praticamente tutti gli sketch imbastiti da Bisio-Raffaele-Baglioni in Sanremo 2019 sono stati ripresi da gag preesistenti, saccheggiando persino mister Bean e la satira americana. Qui- credo- che la Siae sia impotente. Eppure si tratta di Sanremo. Parliamo del più importante investimento della Rai nel corso di un anno. Parliamo di una Rai che ha sul groppone 24.000 dipendenti per una spesa via aziendale che sfiora il miliardo. No, non è la BBC, in quanto a qualità. I De Luigi e i Volo sono fenomeni di moda perché con i tanti (troppi) comici in circolazione l’arte del riciclo, aggiustando una battuta o i suoi tempi è un ricalco abituale, tanto che alla fine non sai più se la battuta originale sia di Brignano, Battista, Perroni, Giusti, Giuliani. Alla fine per saturazione non vedremo più neanche i film con Giallini e Gassmann. Se il primo per la regia del semisconosciuto Simone Spada si cimenta in Domani è un altro giorno, remake senza idee e guizzi di un fortunato film argentino. E se il secondo viene invalvolato in una relazione omosessuale con Fabrizio Bentivoglio nel solito scipito contrasto acculturato-ignorante. Derive che fanno persino rimpiangere i film delle Archibugi e delle Comencini o Ferie D’Agosto di Virzì. C’è però il lieto fine. Come tutte le coppie borghesi gli omosessuali impersonati da Gassmann e Bentivoglio si sposano e si baciano persino in bocca. Questo è l’edificante ed il politicamente corretto dei nostri tempi.

data di pubblicazione:14/10/2020

UN DIVANO A TUNISI di  Manele Labidi Labbè, 2020

UN DIVANO A TUNISI di Manele Labidi Labbè, 2020

Psicanalisi da altro continente. Un film che si riassume in un trailer come un libro non può tradursi in una barzelletta. Plot un po’ avaro. Le gag sopraffanno l’impianto complessivo del film la cui sceneggiatura risulta striminzita e un po’ monca. Sciupato un atout che avrebbe meritato più salda mano registica.

 

Opera prima che denota tutta l’inesperienza della regista in una pellicola di chiara impronta femminile. La restrittiva società tunisina fa fatica ad accettare il ritorno dalla Francia della trentenne psicanalista che apre un improvvisato studio nella capitale cercando di sbarcare il lunario. Trovando l’ostilità della famiglia e della burocrazia ma un gran numero di clienti. Interessante l’idea di trapiantare la scienza di Jung e Freud in un contesto chiaramente poco adatto ad accettarla ma è la resa che è carente. Il plot si sviluppa un po’ a tentoni con alcuni punti morti e troppi personaggi non perfettamente caratterizzati. Insomma manca un unificante punto di vista complessivo. E la psicanalisi, nonostante l’intreccio, è la parente povera del film perché solo accennata e mai illustrata coerentemente. Per dirla in romanesco si ha l’impressione che a volte la regista, non sapendo come andare avanti, “la butta in caciara” e giri un po’ a vuoto. Con questa debolezza strutturale l’attrice principale, Golshifteh Farahani, non è in grado di restituire credito all’opera con un proprio significativo valore aggiunto. La gamma delle sue espressioni, anche facendo credito al doppiaggio di un significativo handicap, è limitata. La conclusione che non spoileremo oltre che sorprendente è anche ingiustificata se non per la necessità di un consolatorio happy end. In definitiva un’occasione sprecata. Ci viene però restituita l’idea del lassismo un po’ pigro della socialità tunisina se non un brillante affresco della città che compare sullo sfondo e mai pienamente illustrata. I climi tesi della Primavera araba sono lontani dalle intenzioni brillanti di un film che va visto senza grandi aspettative. Billy Wilder ancora non ha degni epigoni in Tunisia.

data di pubblicazione:13/10/2020


Scopri con un click il nostro voto:

ROUBAIX, una luce di Arnaud Desplechin, 2020

ROUBAIX, una luce di Arnaud Desplechin, 2020

Un film dall’atmosfera simenoniana con una fotografia sporca, scura. Con la maggiore parte delle scene che si svolgono di notte, mostrando il vero volto di una banlieu. Una pellicola che non è un giallo né un noir ma filtra un pezzo di antropologia delle tecniche investigative transalpine. Tenuto in frigo per il coronavirus ed ora coraggiosamente riproposto nelle sale italiane.

L’aplomb magnetico del principale interprete Roschdy Zem è un bel collante per un film che vive di atmosfere e che consolida un crescendo emotivo e drammatico scena dopo scena per accumulo. Merito di un regista che ha mietuto segnalazioni per il Premio Lumiére. Nella prima parte si delineano casi (un incendio doloso, uno stupro, una ragazza fugggita di casa poi un assassinio) che vengono risolti nella seconda. Non si prescinde dalla location, la squallida Roubaix, ai tifosi italiani più che altro nota come capolinea d’arrivo per una classica del ciclismo che parte da Parigi e che nel 2020 è stata annullata per il coronavirus. Il commissario di origine maghrebina tira i fili di varie indagini con la collaborazione dei uomini rodati e di un pivello a cui insegna il mestiere, in primis la tecnica di un interrogatorio. Condendo decisionismo e psicologia appare evidente la sua abilità nello sciogliere gli enigmi ricorrendo al martellamento dei possibili colpevoli, in particolare di un paio di donne che si rimpallano la responsabilità del delitto più grave. Un commissario che è un uomo vistosamente solo, che passa le sue serate nei bar e si appassiona solo alla crescita di un cavallo. Racconto in progress sigillato dalla chiusura, il fermo immagine di una corsa ippica a cui prende parte il suo preferito. Il giudizio è sospeso, senza moralismi, di una storia aperta in cui viene mostrato il duro lavoro di poliziotti duri ma tutt’altro che sprovvisti di umanità. Curatissimi i dialoghi e i particolari di un film che mantiene più di quello che prometta in partenza, rifuggendo da una qualunque seduzione commerciale.

data di pubblicazione:12/10/2020


Scopri con un click il nostro voto:

LACCI di Daniele Luchetti, 2020

LACCI di Daniele Luchetti, 2020

Di Starnone non si butta via niente. Paragone irriguardoso, come per il maiale. Un romanzo, uno spettacolo teatrale, un film, mancherebbe solo una serie a puntate su Netflix, un prequel o un sequel. Ma il prodotto cinematografico seppure non originale è di prima qualità con un regista che non ha mai banalizzato un testo

 

Un plot quasi bergmaniano. Storia di un tradimento che spacca una vita e una famiglia. Fantasmi che ritornano nel continuo avvicendamento tra presente e passato. Il gioco a quattro degli attori richiede un po’ di comprensione e di sensibilità. Per immaginare che la Rohrwacher diventi la Morante e Lo Cascio mutui nei panni di Orlando. Concessa questa licenza cinematografica comunque ci si emoziona per vicende in cui tutti sono passati e che il regista manovra con mano necessariamente drammaticamente pesante stante la delicatezza dei sentimenti e i traumi dell’addio. Più facile il riconoscimento dei figli quaranta anni dopo. Si fa però fatica a riconoscere Giovanna Mezzogiorno, vistosamente ingrassata anche in viso, sorella di Adriano Giannini, autrice di uno strappo violento con i genitori. A distanza di troppo tempo? La base di Starnone è un confortevole punto di partenza per una sceneggiatura che ha buon gioco ad appoggiarsi a duetti di stampo teatrale grazie anche alla felice vena sinergica degli interpreti. Si rimane un po’ con l’amaro in bocca ma l’happy end non è più di moda. E si riconferma l’adagio che tutte le famiglie sono infelici ma ciascuna a suo originale modo. Felice la ricostruzione dell’ambiente intellettualino che ruota attorno a Rai Tre e al suo particolare mood. Le donne sono fisionomie azzeccate forse più degli uomini anche se gli autori sono tutti al maschile. Tra Roma e Napoli viaggiano umori ma soprattutto dissapori che a tratti si manifestano con violenza. Ma più sottile è ancora la violenza psicologica alla fine di un matrimonio che si riversa nella difficile gestione dei figli.

data di pubblicazione:11/10/2020


Scopri con un click il nostro voto: