da Daniele Poto | Mag 9, 2020
L’illuminante sottotitolo apre una luce sulla silloge critica di un rimpianto protagonista della cultura dei nostri tempi. Saggista, poeta, uomo di cultura che, fornito di un indole pacata, era capace di graffiare nell’esercizio recensivo con un’acutezza e una lucidità che non sembra più appartenere ai nostri tempi. La critica è svilita, ridotta a nicchie di puro ingombro sulle pagine dei quotidiani nazionali. Evaporata la critica che guidava il lettore verso approdi sicuri di lettura. Oggi impera il mainstream di Fazio, un contenitore dove si ricorre a libri di hit parade, in ragione di una logica commerciale di puro intrattenimento. Raboni ha radici culturali ancorate alla realtà. Come per Vittorio Spinazzola è ben presago del contesto in cui si collocano i suoi appunti e i suoi strali ed è anche cosciente di un ruolo orientatore che non si risparmia eventuali stroncature. Cinema, teatro, poesia, letteratura. C’è motivo di interesse vagando in giudizi che abbracciano non alla rinfusa ma con un criterio unificatore nomi come quelli di Woody Allen, Italo Calvino, Giorgio Gaber, Milan Kundera e Umberto Eco. L’attendibilità è il maggior pregio di un consulente di valore che ci accompagna in una accurata ricognizione nei meandri di possibile quanto oculate scelte. Meglio star zitti? Senz’altro no! Esprimersi, prendere posizione nell’alveo di quella che una volta si chiamava critica militante e che ha espresso personaggi come Giacomo Debenedetti, Alberto Asor Rosa, Walter Pedullà, Gianfranco Contini. Raboni avverte la responsabilità di guida di un work in progress non moralistico, fa sentire la pulsione costante verso l’oggetto della recensione. Distinguere il vero dal falso, il valore dal disvalore, l’autenticità dal mascheramento sembra la mission del lombardo che tradusse, tra l’altro, la mitica Recherche proustiana. Personaggio da rimpiangere. Anticonformista ma non per precetto con una massima significativa: una stroncatura serve alla buona salute della letteratura cento volte di più di un elogio infondato. Bene ricordarselo.
data di pubblicazione:09/05/2020
da Daniele Poto | Apr 24, 2020
Come Hitchcock condiva invariabilmente i propri film con il misterioso McGuffin egualmente Patricia Highsmith incrocia triangoli di morte con un trittico di personaggi, una composizione in cui compaiono generalmente due uomini e una donna. Formula di successo che non stanca se ben orchestrata. Il successo del film con Viggo Mortensen, Kirsten Dunst e Oscar Isaac ha invitato l’editore a rilanciare quella che rimane una prova decisamente minore nel robusto curriculum dell’ipocondriaca scrittrice amante dei gatti. C’è suspense e thrilling ma non verosimiglianza in questa storia di delitti e pedinamenti che si svolge tra la Grecia e Parigi con una disinvoltura logistica e una mancanza di credibilità nel plot francamente imbarazzante per chi ha assaggiato le migliori prove dell’autrice texana. Personaggi che si inseguono e che rinviano misteriosamente il proprio inevitabile regolamento di conti quasi che un’improcrastinabile tensione omosessuale li legasse. In un’overdose di passaporti falsi le polizie di buona parte d’Europa sembrano fare una brutta figura assistendo a questa sarabanda di spostamenti, all’apparizione di location (Cnosso ad esempio) che sembrano solo il pretesto per divagazioni archeologiche o modesti stratagemmi per allungare il brodo. Di fronte a tanta superficialità appare inspiegabile il ricorso a un killer (pagato) per eliminare uno dei contendenti e la mancata sorpresa del pagatore quando il possibile giustiziato gli ricompare fuori dalla porta della camera d’albergo e lui, per nulla meravigliato, lo fa entrare nella stessa. Come se il filo narrativo fosse stato perso e il libro dovesse essere portato a termine in qualche modo. Di fronte a tanta palese inverosimiglianza anche la struttura psicologica dei protagonisti smotta e riduce i personaggi a simil-macchiette. Il risvolto di copertina descrive il libro come elegante, seducente e sofisticato. Ci vuole molta buona volontà per aderire a questo sperticato encomio per una trama che si tiene su con forzature e penose spille di sostegno. Eppure la prima pubblicazione dell’opera è del 1964 e quello doveva essere il periodo d’oro dell’autrice.
data di pubblicazione:24/04/2020
da Daniele Poto | Apr 17, 2020
Non ci sono più i maitre à penser di una volta. E quelli del passato sono rimpianti, ancorché non necessariamente profetici. In questa lunga rivisitazione all’indietro (che fa inevitabilmente parte del nostro DNA) la riscoperta di Berselli non è banale. Estratti di libri e di giornali a cui il tempo ha conferito la giusta distanza. Opinionista equilibrato, non estremista, affabulatore convincente, osservatore dei fenomeni italiani, a cavallo tra politica, costume, musica in una continua alternanza di argomenti alti e bassi. Un Umberto Eco senza la nomea di professore, un Beniamino Placido del terzo millennio, un massmediologo e convincente sui temi di attualità. Qui si leggono pezzi editi ma anche cinque novità mai pubblicate in un pastiche coerente, assemblato per argomenti. Berselli è graffiante senza essere caustico, estimatore di un’Italia valoriale non retorica, sfrondata di miti e luoghi comuni. L’assenza di moralismo è la cifra del libro. Con qualche acuminata punta di ferocia perché Berselli non può soffrire Oriana Fallaci e la punzecchia con osservazioni mordaci quanto condivisibili. Ma nel teatrino Italia i personaggi più citati sono anche quelli più commentati e/o sulla cresta dell’onda, diremo nazional-popolari, in senso gramsciano. Si passa con disinvoltura da Pasolini, a Moggi, da Grillo al Festival di Sanremo sempre distillando una scrittura preziosa e originale. Berselli sapeva scrivere bene ma la sua prosa era anche contenuto essenziale. Ne emerge la fotografia complessiva dell’Italia di qualche anno fa, un’immagine sempre valida. E i caratteri distintivi sono egoismo, superficialità, consumismo. Allo specchio una nazione non troppo diversa rispetto a quella descritta puntualmente ogni anno dal Censis. Il Paese delle vacanze lunghe e dei lavori brevi, del familismo e della raccomandazione. Con una burocrazia arcaica e una speranza di futuro sempre delusa. Berselli sembra sempre lì a commentare, con speranze di cauto riformismo più che di rivoluzione.
data di pubblicazione:17/04/2020
da Daniele Poto | Apr 15, 2020
Piovono offerte di contiguità culturale nel mondo della separazione, quella forzosa nell’era del Coronavirus. Alcune consigliabili, altre con un peccato originale: l’inutilità. Ma la IUC (Istituzione Universitaria dei Concerti) ne ha messa a disposizione una che rientra sicuramente nella prima categoria, quella di utilissima disponibilità. Da ieri è disponibile su Spotify la piattaforma online che consente agli utenti lo streaming di musica on demand. L’avvio con due playlist che garantiscono cinquanta ore di musica. Praticamente due giorni e ininterrotti di note. Ma è solo il preludio a un’alluvione on demand ancora più consistente perché l’aggregato sarà sottoposto ad aggiunte in progress, assumendo le dimensioni di un’autentica enciclopedia musicale a disposizione della collettività. Le modalità d’uso sono semplici: si apre Spotify, si digita sulla barra di ricerca il canale “IUC Classica, jazz & more” e si approfitta dell’offerta che propone classica evergreen, grandi successi, musica per il cinema e qualche chicca inattesa. Nella playlist principale si sprecano i grandi nomi in una miscellanea da far girare la testa. Sfilano Bach Beethoven, Davide Bowie, Ennio Morricone, Paolo Conte, Philips Glass. La varietà del gusto è assicurata senza brusche divisioni tra Frank Sinistra, Miles Davis, Lana del Rey e Schubert. Coperto in pratica ogni tipo di predilezione e fascia di età. Seguiranno comparti specializzati per chi studia, per chi svolge attività fisica. Per chi ascolta musica e per chi ne ha necessità come sottofondo, virtuale colonna sonora della propria giornata. Una speciale sezione si chiamerà Love per chi ha una particolare predilezione per una playlist romantica. Spotify offre una versione base Free completamente gratuita ed ha rivoluzionato da tempo il consumo di musica offrendo sulla propria piattaforma applicativa lo streaming on demand su pc, smartphone e tablet un panorama d’attualità di varie case discografiche, major e etichette.
data di pubblicazione:15/04/2020
da Daniele Poto | Apr 11, 2020
Ripeschiamo dagli inferi della memoria un libro che per collocazione, interesse e stile può avere un deciso seguito nelle settimane (mesi?) del coronavirus per il riferimento esplicito all’ozio, al gusto di girovagare attorno alle parole nei momenti di tempo libero. Una pratica che potrebbe avere una sua attualità in tempi attuali. Il testo originale è del 1886 e noi abbiamo preferito leggerlo nell’edizione del 1953, tradotta da Ida Omboni, partner abituale in vita di Paolo Poli e sodale della di lui sorella. Jerome è più che altro noto per Tre uomini in barca. Fine umorista che provoca sorrisi più che un riso aperto. Livre de chevet diviso per argomenti, che sembrano trovati un po’ per caso ma in realtà sono frutto di una precisa scelta di campo. Per divagazioni saggistiche molto libere. La tautologia dell’ozio è ribadita ironicamente anche nel sottotitolo “libro per una vacanza oziosa” di modo che non si possa immaginare di evadere da questa prospettiva. Non è l’ozio di Lafargue ma è comunque un ozio di sani nutrimenti intellettuali, di divagazioni leggere sul gusto della vita e sull’esistenza, paradossi compresi. Un libro da cui è facile pescare citazioni a profusione ma che conserva una sua validità complessiva, una tenuta più che secolare senza scomodare riferimenti a un potenziale capolavoro. La gradevolezza è la sua qualità migliore. Jerome ribadisce una filosofia del buon vivere che potrebbe essere, mutatis mutandis, quella di un De Crescenzo di altra era. Si parla di gatti, cani, dello scorrere del tempo, della pigrizia dell’uomo, del mangiare e del bere, degli abiti e del portamento, della vanità, del riuscire nel mondo con lepidezza e disincanto. E non è un caso che il libro si chiuda nel segno della memoria, il carattere distintivo dell’uomo ed anche quello che gli ha permesso di riemergere dalle nebbie della preistoria per diventare sapiens ma anche ludens.
data di pubblicazione:11/04/2020
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