da Daniele Poto | Set 6, 2020
Un progetto di emancipazione in Arabia Saudita. Con le ovvie complicazioni del caso. Primi ciak con la protagonista protetta dal velo musulmano, finale progressista-liberatorio. Uno sviluppo un po’ troppo veloce in meno di due ore in una società che cambia lentamente e in cui la resistenza alle pari opportunità è secolare. Si svelano esteticamente ed emotivamente bei profili di donne di fronte a cui i personaggi maschili vistosamente sfigurano.
Con anno di ritardo approda nella sale italiane (non troppe in verità e per chissà quanti giorni!) un film presentato alla 76esima Mostra Internazionale d’arte cinematografica a Venezia nel 2019. Ma un anno cambia poco per l’immutabile scenario della sottovalutazione della donna in un continente che ancora non ha conosciuto il femminismo. Il progetto di candidatura nella comunità locale, maturato casualmente per la mancata partecipazione a un importante congresso, scatena nel medico stimato, un’ansia di rivalsa che è la molla del film. Una sorta di corto circuito che movimenta i rapporti con i pazienti, i familiari, l’ambiente circostante. Ci sono infermi maschi che non vogliono sapere di farsi visitare da una donna e che progressivamente si sciolgono e ne riconoscono l’abilità. E la candidatura è il grimaldello per cambiare e invertire rapporti basati sul pregiudizio e su una malintesa soggezione. La decisione della protagonista riesce a trasformare una sconfitta elettorale di misura in un grandioso successo, stante anche il chiaro riavvicinamento al padre, scettico ma alla fine solidale. Assistiamo all’evoluzione di una famiglia benestante che ha le chiavi per il cambiamento. Filmicamente la pellicola risulta un po’ ferma e priva di guizzi, soprattutto nel finale condividendo una narrazione lineare ma carente come mordente. Lo spettatore assiste a una sorta di didattica dell’emancipazione ma senza un reale salto di qualità estetico. In definitiva una prova di buona volontà, non assistita però da adeguato talento. I 104 minuti della co-produzione arabo-tedesca alla fine risultano persino troppo lunghi per la prevedibile dimostrazione a tesi che il regista si è proposto sin dalle prime inquadrature.
data di pubblicazione:06/09/2020
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da Daniele Poto | Set 4, 2020
Una pellicola distopica e maniacale. Puro cinema adrenalico mantenuto su livelli inestricabili di una trama quasi non riassumibile. Efficacemente un critico nostrano ha osservato che per decifrarla occorrerebbe una specializzazione aggiuntiva al corso di laurea in fisica nucleare. Fotogrammi dell’eccesso per una produzione senza limiti di spesa con le chicche aggiuntive di due presenze di spicco, un Michal Caine più british che mai e un Kenneth Branagh trasformato in intelligente russo cattivo. Omaggio alla co-produzione britannica.
Dieci anni di riflessioni e di rimaneggiamenti, cinque anni per scrivere la sceneggiatura. Ovvio che per Christopher Nolan, il regista di Interstellar, questo sia il film della vita e della carriera. Ma glien’è incolto con il coronavirus anche se l’imponente distribuzione in Italia ha propiziato lusinghieri incassi iniziali. Per entrare nel linguaggio specifico di Tenet bisogna essere un po’ esoterici senza trascurare James Bond perché l’esplosività della violenza è un diversivo per tenere alta la tensione in un film esageratamente lungo (147 minuti) con scene che si ripetono per il tema dell’inversione e del continuo rimpallo simbolico tra presente e passato. Un gioco a tratti raffinato, a tratti troppo scoperto per essere convenientemente fruito dallo spettatore. Il genere con cui viene catalogato il film è ibrido: c’è’ azione (un po’ di James Bond, anche), c’è fantascienza, c’è spionaggio, c’è thriller. C’è un po’ troppo nell’ansia di abbracciare e miscelare il cocktail con un sottofondo fondamentale: salvare l’umanità. Che non sembra perlomeno il principale scopo istituzionale della CIA, del KGB e del Mossad. Il protagonista principale, John David Washington, figlio di Denzell, non sembra dotato di una gamma espressiva troppo vasta e sembra un eroe solitario più che un dipendente di una grande agenzia di intelligence. Tante scene sono di difficile collegabilità e la presenza di nazioni outsider nel grande scacchiere internazionale (l’Ucraina a esempio) sembrano puramente accessorie. Per dire della grandeur che ispira l’operazione basti osservare il piccolo giro del mondo delle riprese: Danimarca, Estonia, India, Italia, Norvegia, Regno Unito e Stati Uniti. Ma nella geografia variopinta e globalizzata inevitabile che ogni tanto la trama ristagni e soffochi, distillata in un succo di cartolina patinata. Il costo finale del film (205 milioni di dollari) vale più o meno quanto il possibile risparmio con il dimagrimento dei due rami del Parlamento Italiano. Riuscirà a ripagarli tutti? Scommessa davvero molto difficile.
data di pubblicazione:04/09/2020
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da Daniele Poto | Ago 8, 2020
Non tragga in inganno il sottotitolo “Racconti all’ombra del Covid”. Fortunatamente non si parla di pandemia e ci astrae da quella ridda di racconti e/o romanzi a tema d’occasione, peraltro assai poco ispirati, che affollano edicole e librerie. Semmai il lungo periodo di confinamento è stato opportunamente usato dall’autore per stimolare e corroborare la propria fantasia e creatività secondo un piano di letteratura razionale che si è avvalsa degli strumenti del dialetto, dell’antropologia, dell’etnografia e della localizzazione. Non sembri troppo tutto insieme anche se lo sfoggio e la pratica di queste scienze a tratti minaccia di soffocare il primigenio getto ispirativo, la trama piana del racconto. Minuziosamente Castaldo diffonde latitudini, mappe, espressioni gergali do quei tanti dialetti italiani che si palesano come autentiche lingue, a partire dal napoletano. E ogni racconto è preceduto da un illustre riferimento, nomi grossi come Keroauc o Flaiano. Non tutti i confinamenti vengono per nuocere se producono prodotti bizzarri come questo, silloge di racconti “realmente accaduti nella fantasia dell’autore”. Perché Castaldo dialoga, quasi scherza con il lettore e scherza anche con è stesso, cercando di non prendersi troppo sul serio. Ma la letteratura rimane una cosa seria e i continui refrain allusivi che intercalano i vari plot sembrano un vezzo funzionale per la sua poetica che si appoggia a illustri consiglieri regione per regione. Così è un libro che parla molte lingue e abbraccia diversi registri. Una sorta di Giro d’Italia picaresco, a tratti inquietante con un sottofondo di evidente partecipazione giornalistica e cronachistica alle vicende dei vari personaggi. Il racconto che preferiamo è forse il più lungo e argomentativo, quello del professore campano che torna in regole al momento del pensionamento e fa rivivere un amore veneto mai definitivamente appassito. Qui il bozzetto acquista spessore, colore e un’intensità probante. Castaldo ha emendato i numerosi errori di bozze con una ancora più gustosa ripresa in seconda edizione.
data di pubblicazione:8/08/2020
da Daniele Poto | Lug 21, 2020
L’era del coronavirus ha spalancato al nostro tempo scenari impensabili. Il mondo di prima era dominato dalle feroci leggi dell’economia ma la crisi del 2020 rischia di far diventare questa scienza fallibile ancora più spietata e dominatrice della vita delle persone. Ecco che la letteratura riscatta la propria utilità sociale con un pamphlet che riassume la centralità della finanza nella determinazione dei destini. Monica Catalano, consulente finanziaria di lungo corso, offre in un agile volumetto l’abbinamento dell’economia con la storia del cinema. Lo specchio della fiction aiuta e mette a fuoco i fenomeni forse meglio della realtà ed è anche strumento piacevole per la comprensione della trasformazione del pianeta e delle sue leggi. Il sottotitolo è illuminante: dalla bolla dei tulipani al coronavirus. Circoscrive esattamente un andamento, determina la forbice cronologica del materiale trattato. Il denaro sterco del diavolo? Al di là della definizione apodittica si potrebbe scrivere che il denaro non regala felicità ma aiuta a vivere meglio. E la sua gestione è un gradiente fondamentale nel rapporto degli uomini. Le grandi rivoluzioni francesi o russe non sono forse scaturite da un bisogno impellente di cambiamento? E la crisi Lehmann Brothers del 2007-2008 non ha cambiato forse negli europei il modo di valutare la deperibile cultura americana, facendo vistosamente emergere i difetti strutturali delle bolle economiche? Lo strumento di lettura di cui si avvale la Catalano è suadente e stringente. Perché il cinema con l’uso dell’economia ci ha regalato grandi film drammatici come Wall Street o The Wolf, non a caso maturati nella grande industria statunitense. Un connubio forse nascosto e non così evidente è il rapporto tra produzioni cinematografiche e banche. Grandi film nascono da grandi capitali: successi e flop. Alternanze che fanno riflettere in un momento in cui poche sale cinematografiche hanno riaperto, Con l’economia che ancora una volta domina: nell’analisi costi/benefici se non c’è possibilità di guadagno gli esercenti preferiscono perpetuare il black out. Il cinema si adatta e cambia. Con i drive in, con la risorsa delle arene, con il recupero delle seconde visioni e persino con le sole parrocchiali di una volta. In un momento di sosta quasi antropologica questa agile pubblicazione ci aiuta a riscoprire il passato e una grande storia cinematografica fatta di capolavori e di passaggi nodali. Dal mondo incantato di Frank Capra, alla comicità di Totò fino alla crudezza di un titolo che è diventato un apologo: Too big to fail? Non è forse l’attualità rappresentata oggi da Atlantia o dall’Ilva di Taranto? Rebus anche il Governo, tra opposte interpretazioni.
data di pubblicazione:21/07/2020
da Daniele Poto | Lug 8, 2020
Un’autrice di successo ha voglia di inanellare piccole storie dopo il boom del Premio Strega 2018. L’amore che c’è è sussurrato, coccolato, tenue. Non è un’esplosione di passione ma un sentimento rattenuto, dissimulato, difeso ma pur vivo ed esistente. Un autobiografismo discreto ma palpitante si affaccia nei dieci racconti dell’agile silloge in cento pagine, distillati di situazioni, ambienti che corrono parallelamente alla vita del Pigneto. E la Terranova, siciliana adottata da Roma, non manca di sottolineare la differenza antropologica, la mutazione del suo essere in una città sempre più cosmopolita capace di integrarti ma con il manifestarsi di qualche asperità e durezza. La Terranova si fa dunque esploratrice e vigile interprete di pulsioni sottotraccia, leggendo ed interpretando il sottotesto dei suoi personaggi e dei suoi scenari, pervasi di umanità e di esperienze personali, da portare alla luce dalla zona d’ombra in cui si trovano. Un libro inconsueto e non banale in cui la demarcazione dei racconti invita a una lettura meditata e non frenetica, come il ritmo invece a volte caotico della metropoli. Si sosta a Porta Maggiore che è luogo di transito e non di visione con l’ispirazione lasciata da Mariateresa Di Lascia. Dunque anche una pensilina, una lavanderia, un incontro fortuito, accendono stimoli e vibrazioni. La vita negli occhi degli altri, come specchio e occasione di serenità. Come entrare in un mondo privato che la rivelazione della letteratura, proustianamente, rende improvvisamente pubblico. Si ripete il piccolo miracolo della suggestione comunicativa che si rende seducente con la forma più che con il contenuto. Perché non c’è tanto da raccontare se non stati d’animo, percezione, impulsi di un mondo virato da una sensibilità tipicamente femminile. Un testo interlocutorio che completa il curriculum sempre più interessante e stringente di una delle autrici più stimolanti della generazione di mezzo.
data di pubblicazione:08/07/2020
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