I PREDATORI di Pietro Castellitto, 2020

I PREDATORI di Pietro Castellitto, 2020

Famiglia ricca snob contro famiglia cheap e malavitosa. Materia già vista con Virzì e ben più efficacemente trattata dal regista livornese. Opera prima supervalutata proveniente da Venezia. Castellitto jr. osa, esagera, strafà. Regista e anche interprete. Ma non è Woody Allen e l’eccentricità non deflagra in una trama coerente in una pellicola sfilacciata e davvero un po’ presuntuosa.

 

Opera prima che denota l’acerba immaturità del regista. Nella sua freschezza dovrebbe risultare un film con guizzi incoerenti ma la noia è in agguato nell’andamento circolare di un film in cui il personaggio di partenza (Marchioni) deve chiudere un finale tutt’altro che happy. Nel secondo tempo (difetto di montaggio?) il regista non sembra sapere dove collocare la macchina da ripresa e la pellicola gira a vuoto con dialoghi di rara banalità. Spiace trovare impegnati (e sprecati) nell’impresa Massimo Popolizio, il miglior attore di teatro nostrano al momento, e Dario Cassini comico reinventato in un improbabile ruolo grottesco. Molto meglio se la cava Manuela Mandracchia nella parte della regista virago assillata da mille turbe e da violenti scatti d’ira. Il film rimane un ibrido tra la commedia all’italiana e la ricerca di originalità a tutti i costi nella trama e nelle situazioni. Troppa carne al fuoco non governata con materia centrifuga. Il giovane regista-attore si ritaglia una parte distopica che però non emoziona né tanto meno strega. Un’altra occasione perduta dal cinema italiano in un’annata davvero grama, soprattutto se a confronto con la cinematografia d’oltre oceano. Anche in questo caso il trailer illude e rimane una delle cose migliori come condensato di un film con troppe vie di fuga da uno sviluppo coerentemente lineare. Naturalmente la critica embedded (controllare sul web) mostrerà di aver visto un altro film, complice l’effetto-Venezia, a volte miracoloso.

data di pubblicazione:26/10/2020


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UOMO SENZA META di Giacomo Bisordi /Arne Lygre, regia di Giacomo Bisordi

UOMO SENZA META di Giacomo Bisordi /Arne Lygre, regia di Giacomo Bisordi

(Teatro Argentina – Roma, 17/25 ottobre 2020)

Scrittura norvegese fedelmente riportata su un palcoscenico italiano. Sentore di Ibsen in dialoghi sempre spezzati, allusivi e metaforici. Largo uso degli spazi e degli oggetti. Un esperimento che attizza la curiosità anche se non centra un risultato pieno e indiscutibile.

Nella strana stagione dei teatri quello di Roma si cimenta con un assemblaggio che potremo definire sperimentale. Forse in altri tempi, di maggiori certezze, una proposta come quella di Lygre, mediata da Bisordi, non sarebbe arrivata in cartellone. Novanta minuti per un tentativo tutt’altro che facile e di difficile metabolizzazione. La roba, i soldi, la materialità sembrano circoscrivere un mondo abbandonato dal protagonista che ha varato una città modello e dopo trent’anni di creazione e gestione, muore lasciando conflitti insanabili tra il fratello. La misteriosa sorella (solo di lui), l’ex moglie e una figlia venuta dal nulla. I personaggi si agitano, si spogliano e si rivestono e sono disposti a qualunque compromesso pur di non rinnegarsi. Non a caso l’ex consorte è disponibile a una allusiva fellatio finale pur di conquistare buste di denaro. C’è un gioco di inscatolamento del teatro dentro il teatro. Perché tutti potrebbero essere delle figurine messe in mostra dall’architetto solo apparentemente deceduto. Non a caso la battuta che ricorre più frequentemente in scena e: “Non sto recitando!”. Come si intuisce non è facile la metabolizzazione di una possibile storia lineare perché qui domina l’ambiguità e la ferinità dei comportamenti. Il pubblico, tutt’altro che numeroso, sembra sommamente gradire. C’è il disegno dell’’utopia e c’è anche il misterioso destino di esseri umani che sembrano aver delegato il proprio senso nel mondo a qualche altro. Lygre fa uso di una scrittura minimalista e graffiante. Un’occasione per scoprire al suo meglio un autore molto rappresentato nei teatri europei.

data di pubblicazione:21/10/2020


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PADRE NOSTRO di Claudio Noce, 2020

PADRE NOSTRO di Claudio Noce, 2020

Un dramma vissuto direttamente ma attraverso la coscienza del fratello. Un laborioso e travagliato parto di sceneggiatura per una mayonese finale discretamente impazzita. Il terrorismo latita sullo sfondo come una scheggia ondivaga e senza credibili motivazioni. E lo sguardo dell’adolescente è un po’ troppo soggettivo per restituire un film equilibrato, maturo e coerente

 

Non basta la favorevole esposizione a una Mostra d’arte cinematografica, l’interpretazione del riconosciuto maggiore interprete del cinema italiano (Pier Francesco Favino si divide la leadership con Elio Germano e si cimenta anche come produttore, credendo nel progetto) per elevare il film alla dignità che l’incerta regia non si merita attraverso l’accatastamento di troppi materiali (familiari, generazionali) e con un margine di libertà che rende evanescente un pur minimo rispetto di una storia inevitabilmente dolorosa. Una pellicola con troppi buchi neri per essere giudicata favorevolmente. Che si distingue perché nella scena più drammatica della sparatoria piazza incongruamente la colonna sonora di Buonanotte fiorellino di De Gregori, un segno di rottura che disturba anche se introdotto come provocazione. Nel secondo tempo incongruamente lungo (circa un’ora e mezzo) la location si sposta in Calabria e regala maggiore vivacità tra bei scenari, la recita in dialetto di alcuni comprimari e l’evoluzione della storia. Che peraltro ha il merito di un ricongiungimento finale che sa di parziale riappacificazione con il passato. Noce non prova ad osare nel totale rivolgimento della storia che gli appartiene (il padre fu vittima di un attentato) e dunque rimane a mezza strada tra il film onesto e genuino e quello traviato da manipolazioni necessarie per un buon sviluppo di biglietteria. Molto del successo è caricato sulle spalle di Favino che non può fare il miracolo di salvare un’opera prima che ha tutti i difetti di un debutto. Chi maneggia il terrorismo senza un chiaro obiettivo finale rischia un deja vu, visti gli illustri precedenti, diremo soprattutto i film sul tema di Marco Bellocchio.

data di pubblicazione:19/10/2020


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LE ESANGUI SCENEGGIATURE DEL CINEMA ITALIANO

LE ESANGUI SCENEGGIATURE DEL CINEMA ITALIANO

Una grande ricchezza di proposte, un’enorme povertà di idee. La commedia all’italiana, riveduta e corretta nel nuovo millennio sembra una pallidissima e banale imitazione di quella che fu l’epopea dei Monicelli, Comencini, Risi e del sottovalutato Salce. Sembra aver preso la piega del tanto criticato cinema dei fratelli Vanzina. E ora che Carlo Vanzina non c’è più gli epigoni si sprecano. Finirà che i Vanzina si fregeranno dell’epiteto di “maestri”. Del resto non abbiamo grandemente rivalutato Totò e persino Franco Franchi e Ciccio Ingrassia? In questa rivisitazione estetica che considera persino Ultimo tango a Zagarolo non troppo inferiore all’originale, persino geniale di suo. Dobbiamo persino difendere Enrico Vanzina, massacrato per avere fatto uscire un film nel settembre del 2020 (Lockdown all’italiana) incurante dei 36.000 morti italiani. La commedia italiana dei Sordi e dei Gasmmann non ha forse attinto a episodi di cronaca ancora più acri, tipo la seconda guerra mondiale?

Così dovremmo berci la favola della riappacificazione tra Christian De Sica e Massimo Boldi e la quieta accettazione della filosofia di Vacanze di Natale? Il tema stra-gettonato delle “vacanze” sembra qualcosa che si addice perfettamente all’indole italiana. Le vacanze di Pasqua? Durano al massimo due giorni reali: due giorni però combinabili con un week end e dunque si allargano a una settimana. Quelle di Natale? Paralisi assoluta e per un vasto arco di tempo. Scriviamo dal 20 dicembre al 10 gennaio dell’anno successivo stasi completa delle attività produttive. E le vacanze, per tornare al tema di partenza, sono il ricettacolo repertoriale del cinema. Basta inventarsi un Paese molto diverso dal nostro, che so io il Brasile o Cuba per far sfoggio di provincialismo esotico dove l’italianuzzo dovrebbe essere mostrato per quello che è, cioè mostrato nella sua meschinità. Il Paese chiude per ferie ad agosto e si gode le sue feste e il cinema va appresso a questa eterna vacanza, anche del necessario collegamento neuronale. Le sceneggiature vivono su idee che ormai tendono allo stanco stereotipo, a misura di attori che, forse, sono troppo allettati da un guadagno rapido e sicuro. Senza una sceneggiatura sufficientemente strutturata è difficile “aggiustare” un film, anche se puoi contare su nomi e cognomi come quelli di Alessandro Gassmann, Gianmarco Tognazzi e Marco Giallini. Nonostante critiche infauste, però, Non ci resta che il crimine ha avuto anche un sequel e con lo stesso cast, forse spinti dalla forza dei 4,7 milioni riscossi al box office al primo tentativo.

Il cinema americano beninteso ha altri difetti, ma può appagarti per il budget, la spettacolarità, le musiche, gli ingredienti di una grande industria che può spendere e che prescinde da quel ristretto manipoli di sceneggiatori (sempre gli stessi) al servizio del botteghino. Non stiamo parlando di arte, ma già un efficiente artigiano sarebbe gradito.

Prendiamo Tiramisù con Fabio De Luigi uno e trino, nel ruolo di attore protagonista, regista e sceneggiatore. Il plot, come suggerito dal titolo, ruota attorno al tiramisù: un film con questa trama potrebbe bellamente trasmigrare in uno dei tanti programmi gastronomici dell’ex Belpaese. In Dieci giorni senza mamma lo stesso De Luigi è costretto a fare il papà a pieno tempo perché la moglie (bontà sua) ha improvvisamente deciso di concedersi una vacanza a Cuba con la sorella. Due ore di film per un’idea povera. Il Corriere della Sera commenta nella mini recensione: “Un film che gira a vuoto col pilota automatico inseguendo un copioncino smilzo, prevedibile, da sbadiglio”. Il bello è che la sceneggiatura non è neanche originale perché mutuata da un film argentino. Dunque si può essere banali anche copiando. A tre settimane dall’uscita Dieci giorni senza mamma va in testa al box office con un incasso parziale di 6,2 milioni e si prende un pezzo della fetta dei successi del Di Luigi che in 14 anni ha fatto incassare ai produttori 200 milioni di euro.

Claudio Bisio in due pellicole successive viene costretto a indossare i panni del Presidente della Repubblica prima e del Presidente del Consiglio dopo, mutuando una realtà che è molto più farsesca della pellicola stessa visto che le scialbe imitazioni di Mattarella, Salvini e Di Maio non valgono certo gli originali. In Benvenuto presidente è vano lo sforzo di vivacizzare l’assurdo sviluppo della story con un montaggio demenziale e con musiche esasperate. Peccato che si prestino all’accozzaglia Massimo Popolizio e Antonio Petrocelli, stimati attori di teatro che probabilmente per una piccola parte guadagnano come in sei mesi in giro per i palcoscenici italiani. Pensavamo comunque che i vertici di banalità delle sceneggiature a misura di De Luigi fossero inarrivabili, ed invece ci colpisce ancora di più la sinossi narrativa de La scuola più bella del mondo con Christian De Sica e Rocco Papaleo (il regista non vale neanche la pena di citarlo). “Il preside di una scuola media toscana pensa di invitare una classe del Ghana per uno scambio culturale; ma il bidello confonde la città di Accra con Acerra e così invita gli alunni di una disastrata scuola media campana con il loro bizzarro insegnante”: questo banale spunto diventa il pretesto per un film di 90 minuti. Una replica del “fatale errore” si ritrova in Sotto mentite spoglie dove già il titolo è un elogio del trash rispetto a una sinossi del plot che suona così: “Tommaso (Vincenzo Salemme) è un quarantenne napoletano felicemente sposato con Chicca (Lucrezia Lante della Rovere). Un giorno decide di mandarle un focoso sms che, per errore, arriva a Chiara (Luisa Ranieri), la moglie del suo migliore amico (Giorgio Panariello) che gli si butta tra le braccia”. Così una gag di cinque minuti da giocarsi in televisione tramuta in pellicola.

Il cinema italiano in quanto a mancanza di fantasia con uso e abuso dei format fa pari con la televisione. Il programma di Maurizio Crozza fa certamente ridere. Però quando leggi nei titoli di coda che le sue battute sono frutto del lavoro di sette autori (vale lo stesso per Fazio) l’ammirazione si auto-ridimensiona in un giudizio più sfumato e critico. Una battuta per uno degli autori per costruire una gag? Purtroppo anche attori di gran peso cadono nella tagliola di sceneggiature insipide. Leggete la sinossi di Moglie e marito, film in cui Pierfrancesco Favino: “Un neurochirurgo e una conduttrice televisiva sono sposati da dieci anni ma il loro matrimonio è in piena crisi e i due pensano di divorziare. Un giorno, in seguito a un esperimento scientifico, si ritrovano improvvisamente l’uno nel corpo dell’altro”. Sceneggiatura? Plot per una barzelletta piuttosto, al di là di ogni credibilità scientifica, estetica e narrativa. Persino la stimata Paola Cortellesi si erge a protagonista principale di Ma cosa ci dice il cervello firmato dal marito Riccardo Milani (“Matrimonio, ah quanti peccati cinematografici nel tuo nome”), che certo non è all’altezza della sue prove più riuscite. “L’attrice ha il ruolo di una grigia impiegata ministeriale che nasconde una doppia vita: è una superspia che attiva i propri poteri per vendicare le vittime di bulli, cafoni, prepotenti, interpretati da Stefano Fresi, Claudia Pandolfi, Paola Minaccioni, Remo Girone, Lucia Mascino, Vinicio Marchioni”. Un argomento banale, con la Cortellesi nelle vesti di angelo vendicatore senza essere L’Angelo vendicatore di Bunuel. Anche qui siamo lontani da una sceneggiatura degna di questo nome, attivando un cinema di serie B senza dignità, non scrivo di arte ma neanche di sufficiente artigianato. Povero quel cinema in cui il regista cerca di valorizzare la moglie (la compagna) dandole un ruolo a metà da 007 a metà tra Sean Connery e Lando Buzzanca. Qui la Cortellesi in effetti non è né carne né pesce. Non fa ridere e non emoziona, a metà strada tra trama e farsa in un crescendo di azioni improbabili. Come un gatto in tangenziale appare un gigante da Oscar rispetto a quest’ultima prova.

Un altro esempio di questa degenerata e residuale commedia all’italiana è I compromessi sposi, sequela di luoghi comuni e di stereotipate antinomie (nord-sud, destra-sinistra, proletariato-borghesia) scritta da Miccichè e contando sull’appeal dei due interpreti Salemme e Abatantuono. Tra cui, attorialmente, non c’è alcuna empatia. Eravamo già ben cosci del “buttarsi via” commercialmente di Salemme, speravamo invano in un guizzo d’orgoglio di Abatantuono, addirittura più vero quando interpretava il “terrunciello”.

Quanto a copiature di gag e batture, uno degli esempi più evidenti è offerto, ancora una volta, dalla televisione. Selvaggia Lucarelli ha mostrato con riferimenti e puntute pezze d’appoggio che praticamente tutti gli sketch imbastiti da Bisio-Raffaele-Baglioni in Sanremo 2019 sono stati ripresi da gag preesistenti, saccheggiando persino mister Bean e la satira americana. Qui- credo- che la Siae sia impotente. Eppure si tratta di Sanremo. Parliamo del più importante investimento della Rai nel corso di un anno. Parliamo di una Rai che ha sul groppone 24.000 dipendenti per una spesa via aziendale che sfiora il miliardo. No, non è la BBC, in quanto a qualità. I De Luigi e i Volo sono fenomeni di moda perché con i tanti (troppi) comici in circolazione l’arte del riciclo, aggiustando una battuta o i suoi tempi è un ricalco abituale, tanto che alla fine non sai più se la battuta originale sia di Brignano, Battista, Perroni, Giusti, Giuliani. Alla fine per saturazione non vedremo più neanche i film con Giallini e Gassmann. Se il primo per la regia del semisconosciuto Simone Spada si cimenta in Domani è un altro giorno, remake senza idee e guizzi di un fortunato film argentino. E se il secondo viene invalvolato in una relazione omosessuale con Fabrizio Bentivoglio nel solito scipito contrasto acculturato-ignorante. Derive che fanno persino rimpiangere i film delle Archibugi e delle Comencini o Ferie D’Agosto di Virzì. C’è però il lieto fine. Come tutte le coppie borghesi gli omosessuali impersonati da Gassmann e Bentivoglio si sposano e si baciano persino in bocca. Questo è l’edificante ed il politicamente corretto dei nostri tempi.

data di pubblicazione:14/10/2020

UN DIVANO A TUNISI di  Manele Labidi Labbè, 2020

UN DIVANO A TUNISI di Manele Labidi Labbè, 2020

Psicanalisi da altro continente. Un film che si riassume in un trailer come un libro non può tradursi in una barzelletta. Plot un po’ avaro. Le gag sopraffanno l’impianto complessivo del film la cui sceneggiatura risulta striminzita e un po’ monca. Sciupato un atout che avrebbe meritato più salda mano registica.

 

Opera prima che denota tutta l’inesperienza della regista in una pellicola di chiara impronta femminile. La restrittiva società tunisina fa fatica ad accettare il ritorno dalla Francia della trentenne psicanalista che apre un improvvisato studio nella capitale cercando di sbarcare il lunario. Trovando l’ostilità della famiglia e della burocrazia ma un gran numero di clienti. Interessante l’idea di trapiantare la scienza di Jung e Freud in un contesto chiaramente poco adatto ad accettarla ma è la resa che è carente. Il plot si sviluppa un po’ a tentoni con alcuni punti morti e troppi personaggi non perfettamente caratterizzati. Insomma manca un unificante punto di vista complessivo. E la psicanalisi, nonostante l’intreccio, è la parente povera del film perché solo accennata e mai illustrata coerentemente. Per dirla in romanesco si ha l’impressione che a volte la regista, non sapendo come andare avanti, “la butta in caciara” e giri un po’ a vuoto. Con questa debolezza strutturale l’attrice principale, Golshifteh Farahani, non è in grado di restituire credito all’opera con un proprio significativo valore aggiunto. La gamma delle sue espressioni, anche facendo credito al doppiaggio di un significativo handicap, è limitata. La conclusione che non spoileremo oltre che sorprendente è anche ingiustificata se non per la necessità di un consolatorio happy end. In definitiva un’occasione sprecata. Ci viene però restituita l’idea del lassismo un po’ pigro della socialità tunisina se non un brillante affresco della città che compare sullo sfondo e mai pienamente illustrata. I climi tesi della Primavera araba sono lontani dalle intenzioni brillanti di un film che va visto senza grandi aspettative. Billy Wilder ancora non ha degni epigoni in Tunisia.

data di pubblicazione:13/10/2020


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