da Daniele Poto | Apr 10, 2021
Un piccolo grande libro magistrale come una lezione sui danni che un troppo rigoroso ordine pubblico negli anni di piombo ha provocato all’interno della società civile. Quanti ricordano la tragica fine di Franco Serantini, dolce e sprovveduto anarchico toscano di origine sarda? Un episodio di cinquanta anni fa con la polizia tesa a difendere il regolare svolgimento di un comizio del Movimento sociale in piena campagna elettorale. Dura reazione di piazza con violenza immotivate. L’autore ripercorre con documenti ma non con fredda emotività il difficile cammino esistenziale del giovane e le circostanze che lo hanno portato a essere presente nel posto sbagliato nel momento sbagliato. L’unico suo torto, come appare dalla complicata vicenda processuale, quello di aver rivolto parole ingiuriose ai presunti tutori dell’ordine pubblico. Una vicenda sempre attuale ripensando alle parabole di Cucchi e di Uva. In più gli anni ’70 erano anni particolari, a volte fuori da ogni giurisdizione costituzionale e giurisprudenziale. Sulla sua morte si spandono veli si scarsa trasparenza con l’accurata protezione istituzionale e con la chiara impossibilità di accertare i nomi dei responsabili della morte. Trascinato in prigione in condizione di chiara difficoltà lo si manda incontro a una morte inevitabile per traumi assortiti senza che alcun responsabile proceda per tempo al ricovero in ospedale. La comunità toscana reagirà con fermezza e durezza verso tanta consapevole insensibilità. Ricorderete come non fosse un periodo troppo favorevole (eufemismo) per gli anarchici, con il disarcionamento assassino di Pinelli, con il comodo ricorso al capro espiatorio Valpreda per l’attentato di Piazza fontana. Serantini è una rotellina piccola piccola che rientra in questo ingranaggio e vene stritolata. a strage. Democrazia, trasparenza, verità? Solo vuote parole in questo caso. E quanto c’è di progresso rispetto alla data della drammatica morte di Serantini, il fatidico maggio 1972? Reimmergersi nel caso è vivificare l’immagine sbiadita dell’Italia in quei confusi anni ’70. Operazione di verità e di memoria.
data di pubblicazione:10/04/2021
da Daniele Poto | Apr 5, 2021
Il sottotitolo in questo caso è illuminante: “Storia della criminalità a Roma, da Porta Pia a Mafia Capitale”. Un excursus lungo e documentato, come dimostra la puntualissima e circostanziata bibliografia finale, che abbraccia più di un secolo e mezzo di vita metropolitana. Da quando Roma aveva la metà degli abitanti di Napoli fino allo sbocciare del Mondo di Mezzo e di Mafia Capitale. Con alcune ripetizioni che sembrano quasi una condanna. Fino a che punto le associazioni criminali possono costituirsi in mafia? La cronica diffidenza per questo riconoscimento a Roma risale dal tempo del “porto delle nebbie” di precedenti gestioni della giustizia. Ma anche in tempi recenti, nella gestione Pignatone-Prestipino il balletto delle interpretazioni si è ripetuto dovendo giudicare i Carminati, i Casamonica, gli Spada. Ma l’orizzonte del libro è decisamente più ampio perché contempla alcuni clamorosi casi di cronaca. Come la responsabilità di una pedofilia ante-litteram attribuita a Girolimoni, un comodo capro espiatorio sotto il fascismo. Oppure, per citare un caso di uno spettro decisamente più vasto e istituzionale, il tentativo di esautoramento della copia Baffi-Sarcinelli, magna pars della Banca d’Italia, per iniziativa del ben etichettabile giudice Alibrandi, con Andreotti testimone muto del tentato golpe. Non a caso da quell’evento si è sviluppato un filone economicistico della politica che non si è mai esaurito. Con le progressive ascese al vertice di personaggi come Ciampi, Monti e ora Draghi. Eppure in un contesto urbano difficile e mutevole fino a qualche anno c’era chi si sforzava di evidenziare la presenza delle mafie nonostante che dai tempi di Frank “tre dita” Coppola (anni ’50) molti interessi sospetti si fossero trasferiti nella città. Oggi, quartiere per quartiere, possiamo riconoscere la presenza di clan autoctoni, camorristi o ‘ndranghetisti nel tessuto vivo imprenditoriale di Roma. Nomi e cognomi riconoscibili. Con la saga di un Piscitelli Diabolik fatto fuori proprio nel momento in cui si sforzava di coagulare la possibile pax mafiosa. Perché meno si uccide più gli affari prosperano.
data di pubblicazione:05/04/2021
da Daniele Poto | Mar 24, 2021
Maxi serial tratto da un soggetto originale israeliano trapiantato in una crudelissima America e impastato con troppi ingredienti. Problema razziale, criminalità mafiosa, conflitti familiari, bande gangsteristiche metropolitane. Mayonese ansiogena discretamente impazzita.
Una serie tv che per taglio avrebbe guadagnato dalla concentrazione in un film di due ore di buon incasso. Perché il cinema americano non annoia mai. Semmai esagera e stipa troppi motivi in una confezione che ha il precipuo scopo di tenere lo spettatore inchiodato alla poltrona. Ma a volte lo stesso spegne il televisore perché sopraffatto da una miscela ansiogena troppo invadente per non essere respinta. La sceneggiatura è piena di additivi che sembrano far entrare i protagonisti in una sorta di tunnel legato alla Legge di Murphy. Se una cosa andrà male, nella scena successiva andrà peggio. Succede che il rampollo di un giudice integerrimo metta sotto con la propria autovettura e uccida il figlio di un boss criminale, mancando di soccorrerlo, anche a causa di una crisi asmatica. Il padre viene meno ai propri principi e trova un capro espiatorio di colore per rimediare alla possibile accusa. Da quel momento si procura una sorta di boomerang che rendono ingestibile la situazione. Il calo maggiore di verosimiglianza in questa sequela di incidenti/accidenti quando il giovane minorenne di colore che è finito in prigione come vittima sacrificale viene ucciso, mettendo ancora di più in crisi la coppia padre-figlio. La dilatazione seriale così si prolunga fino all’inverosimile come se gli sceneggiatori si ponessero continuamente il problema: “E ora che gli facciamo succedere”. Moltiplicando i personaggi gli errori di percorso, le deviazioni del plot. Così il ritmo non è uniforme. Colpi di scena imprevedibili e dialoghi rarefatti si alternano in un mix poco omogeneo anche se la suspense è assicurata fino all’ultimo. Ruskin sosteneva che l’arte apprezzabile è quella onesta. Qui invece si gioca sporco con additivi artificiali, pari a quelli che ci costringono a bere grandi quantità di Coca Cola. E c’è sempre l’America di mezzo.
data di pubblicazione:24/03/2021
da Daniele Poto | Mar 22, 2021
Un libro che ha avuto bisogno di quaranta anni di gestazione è di per sé un libro che merita interesse. Magma caldo, diremmo incandescente. Culicchia, l’autore, è solo un adolescente quando il terrorismo gli porta via l’adorato cugino Walter Alasia, appena ventenne, convinto alla pratica sovversiva dal contatto con Renato Curcio. Alasia è un giovane adepto alla causa delle Brigate Rosse ed è al centro di un clamoroso fatto di sangue. Perché il blitz notturno della polizia nell’appartamento dove vive non in clandestinità ma con la famiglia, si traduce in un bagno di sangue. Non vuole farsi catturare, spara, uccide due militi, si butta dalla finestra. Quello che succede dopo rimane nel mistero, forse svelato da Culicchia che allude, pesantemente ma veridicamente a una sorta di regolamento di conti, di omicidio a freddo del ragazzo. La versione ufficiale invece deporrà su tutt’altri toni. Alasia, ferito, avrebbe cercato improbabilmente, di continuare a sparare ai barellieri che lo soccorrono. Ma l’arma e le prove di ciò non sono mai state trovate. Dunque Culicchia è dentro un dramma emotivo e famigliare di difficile decifrabilità anche letteraria. E non ha paura di attingere alla retorica che si affaccia prepotente sin dal titolo, mutuato da Lucio Battisti. Lo scrittore prende una posizione coraggiosa e si può permettere di farlo a distanza di quasi mezzo secolo da quei luttuosi eventi che, se commentati, a caldo, avrebbero provocato ben altro compromesso come riflessione politica. Ora invece la fissione a freddo è più meditata, distante, logica nella valutazione del regolamenti di conti improprio tra lo Stato e le Brigate Rosse. Un libro dunque duro, sofferto, problematico ma anche dialettico, ben inserito nell’attuale svolta di una letteratura italiana che attinge carnalmente alla cronaca e a fatti veri (v. La Gioia, Baiani, Scurati e altri). Il testo significativamente si conclude con l’elenco delle vittime delle Brigate Rosse mentre l’elenco dei brigatisti uccisi dalle forze dell’ordine è una pagina bianca. Almeno secondo il dizionario enciclopedico di Wikipedia.
data di pubblicazione:22/03/2021
da Daniele Poto | Mar 19, 2021
La dissoluzione dell’impero sovietico e la costituzione di stati indipendenti attraverso la transizione della sigla CSI è una rimeditazione storica che gli articoli del corrispondente da Mosca di Repubblica ci aiutano a rivisitare con un senso dell’attualità ancora vivo considerando gli scombussolamenti anche recenti della geopolitica mondiale. Il focus qui è concentrato tra il 1990 e il 1991, dopo la caduta del Muro di Berlino. Quando la Perestrojka era la parola più gettonata e Gorbaciov era il rinnovatore in auge. Ma è altrettanto brusca la sua caduta, dopo il goffo tentativo di golpe, il salvataggio non casuale di Eltsin, la deposizione e la caduta. Così l’Urss torna a essere semplicemente Russia con il primo distacco dei Paesi Baltici e poi quello progressivo degli altri appartenenti alla confederazione delle Repubbliche mentre Gorbaciov viene pensionato e, dopo aver incassato il Nobel per la Pace, gira il mondo per illustrare una profonda riforma che non ha avuto definitivo compimento. L’eclisse del comunismo ortodosso porta inevitabilmente sconvolgimenti che da Occidente è difficile immaginare. Ma ora che lo scenario con l’interminabile dominio di Putin è cambiato con un senso del distacco e della misura diversa ci si può immergere in quella calda temperie. La fine di ogni impero porta con se traumi e scossoni. Ma dopo la caduta degli zar e la rivoluzione d’ottobre le vicende degli anni ’90 sono le più tempestose del secolo passato. Piene di contraddizioni, di scelte non portate a termine. La valutazionee storica su Gorbaciov rimane ambigua e controversa. Il libro presenta anche risvolti umoristici. Gorbaciov nella vecchia Urss era soprannominato il segretario minerale perché era l’unico politico al potere che non beveva vodka ma si limitava all’acqua. Anche attraverso gli aneddoti si può comprendere lo spirito di un Paese. La brillante scrittura di Franceschini ci aiuta ad addentrarci in questa non inutile rivisitazione.
data di pubblicazione:19/03/2021
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