AMLETO di William Shakespeare, traduzione di Cesare Garboli, adattamento e regia di Giorgio Barberio Corsetti

AMLETO di William Shakespeare, traduzione di Cesare Garboli, adattamento e regia di Giorgio Barberio Corsetti

(Teatro Argentina – Roma, 17 novembre/9 dicembre 2021)

Lo spettacolo più rappresentato e universale in una versione ariosa e incandescente con alcune punte di eccentricità. Eccezionale omogeneità della compagnia per un classico immortale che è bel biglietto da visita per la stagione del Teatro che si farà Fondazione.

Senza limiti di spese per la scenografia, varia e di facile smontabilità interattiva, e senza limiti di tempo per il dramma scespiriano che fa faticare a tratti nel primo tempo mentre digrada verso l’immaginabile sviluppo liberando lo spettatore dopo tre ore di tensione. Fausto Cabra che declama l’essere o non essere in avvio, svelando la missione programmatica di quanto succederà di lì a poco, è un’autentica rivelazione. Di bravura inversamente proporzionale alla ancora ridotta popolarità. Esibizione anche fisica e muscolare, non tanto per l’accenno mimico nella simulazione dei duelli quanto per l’ardore con cui alimenta un corpo che asseconda il declamare nella forbita traduzione di Garboli. Spettacoli come quasi non se ne fanno più per la pandemia con un numero generoso di attori e con l’uso indiscriminato degli spazi. L’Amleto rappresenta l’inquietudine e una progressiva montante ansia di vendetta. L’adattamento non tradizionale incuriosisce e a tratti strega riscattando la grande conoscenza del plot. Attori in abiti borghesi, con estrema libertà interpretativa. La macchina teatrale va a frugare dentro l’anima interiore, interrogata sulle sue pulsioni non sempre benevole. Danimarca, Inghilterra, Italia, Elsinore. Il mondo è lontano (il secolo di Shakespeare, anche) ma è anche terribilmente vicino. Usurpazione e oltraggio di una storia che ci si ripresenta ogni giorno con altri linguaggi e altre situazioni. Alla prima teatro stipato in ogni ordine di posti, nonostante la difficoltà della prova spettatoriale. Buon segno per il futuro e per il più importante teatro di Roma: quello che dovrebbe indicare la strada agli altri. Anche quelli attualmente chiusi.

data di pubblicazione:18/11/2021


Il nostro voto:

GATTA MORTA di e con Francesca Reggiani, scritto da Valter Lupo e Gianluca Giugliarelli

GATTA MORTA di e con Francesca Reggiani, scritto da Valter Lupo e Gianluca Giugliarelli

(Teatro Olimpico – Roma, 16/21 novembre 2021)

One woman show che parte con le marce basse ma poi passa gradualmente alla quarta e alla quinta in un crescendo autoriale. La gattamorta è la quintessenza di un certo tipo di donna. Molto italiana.

 

Due anni in standby per uno spettacolo che si arricchisce nell’attualità con gli ovvi spunti della pandemia e dell’overdose di virologi. L’avvio lascia perplessi perché i video imitatori di Ilaria Capua e Vittorio Andreoli mostrano protagonisti che non sono proprio al top della popolarità anche se la capacità mimetica della Reggiani è autorevole. Lo spettacolo cresce con colpi di coda e in presenza fino ad approdare al succo polposo evocato dal titolo. La Reggiani ha corpo e volto d’attrice uscendo fuori dai limitati panni del comico in perfetta empatia con il suo ritrovato pubblico, che l’approva di testa quando esprime verità consacrate e mai abbastanza dette (le giravolte sul Covid, la difficoltà di mantenere un rapporto sentimentale in regime di virtuali arresti domiciliari) e ride di pancia in progressione. Lo spettacolo monta quando, riproducendo un format di successo, si sfidano al video Giorgia Meloni e Concita Di Gregorio ovvero la coattona politica di destra e la radical chic di sinistra. E qui la Reggiani è perfetta nell’intonazione, nella forma e nel contenuto. Ma l’hit parade è indubbiamente il monologo finto dialogo telefonico, sulla scia di Franca Valori, Bice Valori, Cinzia Leone. La veterana tiene bene l’immenso spazio teatrale con una resa a cui contribuiscono le musiche (Vivaldi, Buena Vista Social Club), i raggi di luce multicolori, la sua corposa presenza. Quanta verità nella caricatura delle donna italiana messa a confronto con la donna russa! Un match a vantaggio della seconda nella prime riprese ma che a gioco lungo si chiude a favore della prima: i mariti tornano sempre a casa a fronte di pretese sempre più smodate delle donne dell’est.

data di pubblicazione:17/11/2021


Il nostro voto:

DRIVE MY CAR di Hamaguchi Ryusuke, con Hidetoshi Nishijima e Toko Miura, 2021

DRIVE MY CAR di Hamaguchi Ryusuke, con Hidetoshi Nishijima e Toko Miura, 2021

Tre ore per entrare nel mondo giapponese fatto dialoghi elegante in salsa Cechov. Cinema dentro teatro o viceversa con la massima attenzione per la parole, gemme di dialogo. 

 

Entrando in sala per un film che ha avuto citazioni da Oscar bisogna acclimatarsi a un altro ritmo: un ritmo diverso da quello adrenalinico dei film americani, ma anche da quello a volte troppo auto-compiaciuto di tanta cinematografia italiana. Il protagonista vive un dolore trattenuto e non espresso. Una serie di sciagure collassano la sua vita. Un glaucoma gli impedisce di guidare (scorciatoia per introdurre il fondamentale personaggio dell’autista donna) e, in sequenza, perde la figlia e la moglie. Questa serie di circostanze lo indirizza verso il lavoro e la solitudine. Sarà l’incontro con la persona che non appartiene al suo mondo riservato e in fondo privilegiato a fargli riscoprire l’umanità perduta. Riscoprire la sofferenza e la sua metabolizzazione sarà un passaggio obbligato.

A fare da sfondo alla storia c’è sullo sfondo il Giappone così diverso dal clima italico. Tradimenti senza risentimento, sesso che non ha bisogno di paludamenti a parte la sua assoluta necessità e inderogabilità. Cechov sul grande schermo era stato il canovaccio di un film di Louis Malle. Ma questo cinema restituisce l’amore per il teatro, per la memoria dell’attore e la memoria della vita. Film ipnotico da incantamento che, come si può immaginare, non ha avuto una grande distribuzione nazionale se non per la cura e la passione di alcuni esercenti. Chi si è innamorato del fil trova che non ci sia una parola fuori posto e un movimento sbagliato di macchina. Puerile definirlo intimista quando il veicolo della comunicazione mimetica passa anche per il cibo, le bevande e una carezza a un cane, la guida di un’antiquata autovettura Saab.

“Per quanto si può leggere nel cuore di una persona non si può leggere in lei come un libro aperto”. Questa citazione riassume molto dello spirito della pellicola.

data di pubblicazione: 12/11/2021


Scopri con un click il nostro voto:

RAZZA POLTRONA di Fabrizio Roncone – Solferino 2021

RAZZA POLTRONA di Fabrizio Roncone – Solferino 2021

Una fotografia in movimento sull’attuale politica italiana, frugata nei due rami del Parlamento alla ricerca delle personalità più estemporanee, delle uscite fuori del coro, nella variopinta materia prima umana sfornata dalle elezioni. Roncone ha la penna leggera ma pur non soffermandosi sull’analisi, trapela una palese insoddisfazione istituzionale per il livello mediocre dei nostri rappresentanti. Il libro risente dell’attualità perché è una silloge degli articoli pubblicati sul Corriere della Sera, disposti per argomenti e non per cronologia, quindi con imprevedibili salti in avanti e indietro. Per sottrazione si capisce anche quale sia il rassicurante quadro di riferimento dell’autore. Ovviamente non la destra, non il Movimento Cinque Stelle ma il rassicurante Partito Democratico, sempre più partito di centro e della cosiddetta zona ZTL. Libro di folclorismi puri e non di ideologia frequentando ambienti che dovrebbero essere pregiati ma che, all’esplorazione, rivelano tutta la propria pochezza. L’avvento di Draghi forse restituisce dignità e speranza ma la percentuale degli elettori che vanno alle urne è lo specchio della delusione crescente del popolo italiano e una eloquente risposta a quello che gli viene propinato in sede parlamentare. Con la girandola dei continui cambi di partito dove il presunto vincolo di mandato è ormai purissima utopia. Si può dire che predomini il disincanto realista dell’autore. Fatti, fattacci, nefandezze, meschinità, rivalità e duelli: tutto quanto viene espresso per permettere al lettore di farsi un’idea compiuta sull’attuale livello della classe politica italiana. L’ultima illusione è stata quella fornita da Grillo ma una serie di esempi sfornati da Roncone è una doccia fredda su un’utopia che non si è tradotta in fatti concreti. La seconda Repubblica così è una serie di ritratti poco consolatori da sfogliare in cerca di un futuro politicamente più rassicurante. Se mai avremo l’occasione di coglierlo.

data di pubblicazione:09/11/2021

MUSEO PASOLINI di e con Ascanio Celestini

MUSEO PASOLINI di e con Ascanio Celestini

(Teatro Manini – Narni, 23 ottobre 2021, anteprima nazionale assoluta)

L’irrisolta contraddizione dell’affare-Pasolini. Scena scabra ma colma di ingombranti significati alluvionali. L’Italia è il Paese dell’eterno trasmutante fascismo?

Quando il perfetto affabulatore Celestini nel prologo pre-scena dispone un copione pro-memoria sull’impiantito del palcoscenico si ha l’esatta sensazione che non ne avrà mai bisogno per tutti e 105’ i minuti della rappresentazione. Dizione e scansione precisa che sembra prefigurare una cronologia un po’ didattica della vita di Pasolini, nato a Bologna nel 1922, l’anno significativamente della Marcia su Roma. Ma quando sembra che il trend debba seguire questo piano lineare l’autore-attore-regista, divaga e riempie la storia di svolte pertinenti (ossimoro) ricostruendo una vicenda nazionale ricca di intrighi, di servizi deviati, di strategia della tensione. C’è un marcatore sensibile che è quasi un tormentone leit motiv. Anno ics della dittatura fascista. Dal 1922 in poi. Ma anche nel 1975, l’anno dell’assassinio di Pasolini, mostrato, con prove documentali, come opera di più persone e non del solo “Rana” Pelosi, un ragazzotto con cui lo scrittore, ben muscolato, avrebbe fatto fisicamente almeno gioco pari. Pochi oggetti e qualche sottofondo musicale a contrappuntare la lunga sfilata di supposizioni. C’è la paura del comunismo, eterno stigma nostrano, la strage di Piazza Fontana, il tentato golpe di Junio Valerio Borghese. Dunque Pasolini è il pretesto ma anche il centro di un dopoguerra fatto di troppe bugie, di troppe macchinazioni. E Celestini si fa uno, nessuno e centomila immaginando percorsi cittadini di periferia con lo scrittore, ipotesi del suo vissuto negli anni ’50. C’è anche qualche registrazione d’epoca che ci restituisce la vita di protagonisti di questo grande affresco dove un solo grande protagonista riesce a narrarci un’inestricabile vicenda corale. Alla fine successo di pubblico indiscutibile, con la prova generale già alle spalle, in vista di una fortunata tournee civile. Con la minaccia evitabile di qualche contestazione vista la forza dell’assunto ideologico che sottintende la narrazione.

data di pubblicazione:24/10/2021


Il nostro voto: