MINARI di Lee Isaac Chung, 2021

MINARI di Lee Isaac Chung, 2021

Un delicato bozzetto di una famiglia coreana trapianta nell’American Dream ovvero come creare un grande film da un piccolo plot. Il mood del regista avvince per la semplicità della narrazione e la delicatezza con cui viene usata la camera Meritato corredo di premi fino alla pregiata considerazione degli Oscar.

Il minari è un’erba coreana simile al crescione ed è la metafora di un radicamento che conserva il rispetto per le proprie radici. La famiglia orientale protagonista vive infatti un difficile trapianto in quegli Stati Uniti in cui è riposto tutto il capitale di fiducia per il futuro. Il capo-famiglia unisce a un’umile lavoro il progetto del varo di una grande fattoria. Un miraggio che suona come un riscatto per le umili origini di partenza e costituisce un’occasione di collante per un matrimonio che inizia a scricchiolare. Nella dialettica del progresso si innestano la malattia di cuore del piccolo figlio e l’inurbamento della nonna, prima rifiutata e poi largamente accettata nella famiglia. Ci sarà una svolta che risolleverà il menage dal rischio della separazione scacciando la tentazione della consorte di riposizionarsi in California. Il tono medio colloquiale della narrazione, l’umanità dei protagonisti (compresi i più giovani) e il tocco delicato della regia apportano un valore aggiunto a un’opera significativa, ampiamente distribuita nel circuito. La diffusione sulla piattaforma Sky contribuisce in questi giorni alla sua popolarità. Sei le nomination nell’ampio ventaglio degli Oscar con l’attribuzione finale per la migliore attrice non protagonista (la nonna, colta da ictus), un raccolto inferiore ai meriti della pellicola. Ha avuto buon fiuto Brad Pitt nel produrre l’ultimo rigoglioso frutto della sempre più sviluppata cinematografia coreana. Non c’è stato il bis di Parasite ma la qualità è sempre molto alta.

data di pubblicazione:12/05/2021


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RIFKIN’S FESTIVAL di Woody Allen, 2021

RIFKIN’S FESTIVAL di Woody Allen, 2021

Dignitosa trasferta in terra di Spagna per l’errabondo e ormai 86enne Allen. Prossimo al capo dei cinquanta film, puntualmente uno all’anno, inevitabilmente ripiegato su se stesso e sul cinema del passato con un alter ego interpretativo appena otto anni più giovane dell’attore che rimpiangiamo.

Qualche apprezzabile guizzo sulfureo complessivamente non salva un film che sa della stessa anagrafe del regista impegnato nel registrare il tradimento di una coppia ma anche del mondo del cinema dai suoi originari valori, ovviamente ubicati nella vecchia Europa. Trasgredendo all’happy end la narrazione diventa il pretesto per una serie di quadretti immaginifici sul grande cinema che fu: sprazzi reinventati di Godard, Fellini, Bunuel. Occhio a Bergman e a Bresson. Scene che abbiamo già visto con la morte beffardamente reinterpretata. In questa seconda lettura una mano fondamentale arriva dalla fotografia di Vittorio Storaro. Il plot è presto raccontato. Una coppia in disfacimento vive i giorni del Festival cinematografico di San Sebastian come il lento sfilacciarsi del rapporto. Lei si lega al regista presupponente per cui lavora. Lui è risucchiato da un medico spagnolo legato a un rapporto sado-masochistico con un pittore. Cartoline della Spagna in appena 33 giorni di ciak. Non ci sono i dialoghi scoppiettanti di Hollywood, Ending: venti anni circa non sono passati invano. Qualche stilettata sul mondo del cinema ma nessun clamoroso affondo. Il buon, bravo e caro Woody il meglio l’ha già dato, la sua stagione cinematografica volge all’autunno. E di questo sembra esserne conscio. In passato ha offerto capolavori, ora solo piacevolissimi e a volte insignificanti film. Questo si vive come acqua fresca che non lascia tracce. Gli attori sostengono convenientemente il plot. Soprattutto il protagonista alter ego di Woody, alla quarta collaborazione con una sorte di fratello maggiore. Il tocco di Allen diventa sempre più leggero come se respirasse ogni volta di più la congrua fatuità della vita.

data di pubblicazione:10/05/2021


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DANTE di Alessandro Barbero – ED. Laterza, 2020

DANTE di Alessandro Barbero – ED. Laterza, 2020

Ci si dimentichi del Barbero facile divulgatore e magistrale leader nei podcast a fronte di un’affabulazione ineccepibile e dati da hit parade. Quello su Dante, commissionato da Laterza e non scaturito per libera ispirazione, è un libro dotto, nozionistico, difficile perché intasato da dubbi archivistici che l’autore rappresenta ed elenca con chiarezza storicistica. Sul sommo Poeta sappiamo poco. A che età si è sposato? Dov’era esattamente nel 1306? Quanto stimava Cangrande della Scala, quanta nobiltà c’era nella sua famiglia? E, al contrario, quanta ricchezza? Quanto fosse integralmente guelfo e non piuttosto, per convenienza ghibellino e, addirittura, secondo il Foscolo “ghibellin fuggiasco”? Come lettori usciamo sbalorditi da questa lettura arrampicandoci come su un Everest bibliografico su note che assorbono un terzo del volume, esattamente per 88 pagine. Eppure questo è un libro che campeggia in classifica, forse perché gli estimatori di Barbero non sanno quello a cui sono andati incontro con l’acquisto del prezioso volume che si aggiunge a una storiografia già ricca ma con ricerche minuziose e un approccio che non è il solito convincente, lineare e pragmatico ma piuttosto enigmatico e ricco di contraddizioni. C’è il Dante uomo e non il Dante poeta. E noi usciamo dalla lettura con uno sguardo diverso anche sull’artista, figlio del suo tempo ma umorale, combattuto e anche pieno di difetti perché la coerenza politica certo non era il suo forte. La speranza di poter tornare a Firenze domina la sua maturità e gli fa commettere vari errori. Umano troppo umano il Dante che confida nel demiurgo, alternativamente nel Papa o in un Principe straniero, per riapprodare nella sua città, venendo immancabilmente deluso dalle circostanze. Ben altro cosa dal Dante commerciante o dal Dante amoroso. Il vagabondaggio per l’Italia in cerca di mecenati e di un sicuro approdo è un pezzo importante di questa avventura umana. Dal mezzo del cammin di sua vita alla morte in cerca di un approdo, un riparo, di una certezza. Che non arriverà mai, contribuendo, indirettamente, al parto della Divina Commedia.

data di pubblicazione:09/05/2021

STORIA DI UN BOXEUR LATINO di Gianni Minà – Minimum Fax, 2020

STORIA DI UN BOXEUR LATINO di Gianni Minà – Minimum Fax, 2020

C’è un modo di dire corrivo ma esauriente: ne ha viste più di Carlo in Francia! Trovatemi per analogia un giornalista nostrano che in capo a 65 anni di attività abbia un agenda telefonica (ora su smartphone) ricca come quella di Gianni Minà. Che detiene un altro primato aziendale in Rai: 17 lunghi anni di gavetta senza essere assunto. Amico di Pietro Mennea, di Diego Armando Maradona e del Papa in un filo crosso di connessioni ideologiche note solo a lui che riuscì a intrattenere per tutta una notte Fideò Castro pur di montare un’intervista scoop. Coraggio, empatia e sprezzante disistima del pericolo le qualità innate del cronista da battaglia che, partito da Torino, ha girato il mondo riempiendolo con le proprie passioni sudamericane e con il vivo senso della professione. Liquidato dalla Rai in un amen quando il ventennio berlusconiano gli ha scavato la fossa sotto i piedi. Come possono raccontare anche Luttazzi, Travaglio e Santoro. Ma il meglio era giù venuto, sotto la bandiera di Arbore, di illuminati esperimenti dell’azienda di Stato. Minà era capace di riunire in una notte romana nel più noto ristorante di Trastevere Robert De Niro, Muhammad Alì, Gabriel Garcia Marquez e Sergio Leone. In quella compendiosa foto c’era tutto Minà e il suo potete di fascinazione. Cronista d’assalto, incapace di fare il direttore, come dimostra la sua infelice esperienza a Tuttosport (testata mai nominata nel corso del libro). Le foto parlano più del testo. Un libro nato con una genesi lunga e difficile. Minà oggi over 80 si è avvalso della decisiva complicità di Fabio Stassi che ha registrato queste fluviali confidenze di una vita. A ruota libera, con un copione in divenire spezzettato in tanti capitoli, altrettanti flash di una ininterrotta esperienza professionale. Minà era l’anti-Marzullo, nemico della sedentarietà, delle frasi fatte, inevitabile nemico del potere costituito, in primis quello dell’imperialismo americano.

data di pubblicazione:04/05/2021

I RUSSI SONO MATTI di Paolo Nori – Utet, 2020

I RUSSI SONO MATTI di Paolo Nori – Utet, 2020

Non inganni il titolo di un libro che può avere difetti di ripetitività ma certo non annoia. Paolo Nori è illustre e spiritoso traduttore dal russo e il riferimento ai matti sottintende ammirazione per un popolo e una letteratura fuori dalle consuete rotte continentali e che in Italia si sofferma sui classici ma trascura quanto di vitale è stato trasmesso dalle generazioni del dopo Solgenitsin. Il testo si presenta con un sottotitolo da antologia (Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991) ma in realtà è un bizzarro susseguirsi di liberi interventi su autori celeberrimi con Gogol, Tolstoi, Goncarov. Dunque quasi un’opera didattica ma condita dal marchio dell’eccentricità oltre che della competenza. Nori è consapevole di svolgere opera provocatoria ma al fianco dei famosi introduce figure decisamente meno note come Erofeev, la cui psichedelica romanzesca si sviluppava sotto gli effetti della vodka, la droga dei poveri o Slovskyij, uno dei padri dello strutturalismo con la rappresentazione della sua interessante teoria per cui la letteratura è un misto di straniamento della realtà e di complicazione della forma, considerati in combinazione binaria la ricetta perfetta del romanzo. Si può fare divulgazione intelligente e stimolante e questo libro né è un preclaro esempio. Due arricchimenti aggiungono fascino alla proposta. Nella parte centrale con la suggestione del bianco e nero campeggiano fotografie storiche dei grandi della letteratura storica: ampie barbe, maestosità, amicizie intrecciate. E il volume si conclude con una sorta di ricognizione sugli accenti giusti con cui declinare i cognome dei componenti del Gotha, suggerimento a uso e costume dei meno provveduti in fatto di lingue dell’est. Le riflessioni sull’arte e sulla professione di scrittore evadono pretestuosa mente dal confine russo anche se il timbro di personaggi come Oblomov o Raskolnikov strega un lettore disposti a farsi rapire dal mood russo/sovietico. Qui scopriremo cosa sia il samizdat e anche perché molti dei grandi hanno trovato fortuna e riconoscimento all’estero.

data di pubblicazione:03/05/2021