da Daniele Poto | Dic 3, 2021
(Teatro Vascello – Roma, 30 novembre/5 dicembre 2021)
Ritratto sulfureo di Eduardo in un anno molto eduardiano. Musella non prova a imitarne la voce ma ad entrarne nello spirito attraverso suoi scritti diretti e puntuti. Che introducono un uomo di teatro con le idee chiare e un uomo difficile ma di inappuntabile serietà.
Con Eduardo non c’è diritto di primogenitura parentale, semmai la napoletanità è una naturale chiave d’accesso per entrare più facilmente nel personaggio, complice il dialetto. Musella seleziona suoi scritti importanti e li valorizza in uno spettacolo in cui non desta fatica e stanchezza l’attore solitario per più di novanta minuti in scena. La tavola e il chiodo del titolo riassumono il carattere globale dell’attore di teatro, fatto anche di scena, di maestranze, di personale tecnico, dunque di chiodi che entrano nella superficie, nell’abituale concretezza del lavoro pratico di tutti i giorni. E quelle sono le parole incise su una lapide del palcoscenico del San Ferdinando, ricordo di Peppino Mercurio, suo macchinista per una vita. Musella anima la scena importante del Vascello con movimenti accurati e mai casuali e con un sottofondo musicale tutt’altro che invasivo conquistando il pubblico. Forse crea leggermente più in ansia nella deriva finale. Leggendo la lettere lunga (forse troppo lunga) rivolta al Ministro Tupini. Parole che avrebbero valore anche oggi se indirizzate al Ministro Franceschini. Il teatro come pecora nera della cultura, l’assoluta valorizzazione degli Stabili a dispetto dei teatri minori e/o di provincia. Eduardo in quella missiva chiede un riscatto impossibile con parole di oggi. C’è la stanchezza dell’uomo che tanto si è speso per una causa che alla fine è persa. Eduardo è spiritoso, paradossale, conseguente. L’intellettuale, l’uomo di teatro, il capocomico, il combattente, l’uomo di teatro, logorato da tante battaglie. Con tanti consigli legati alla professione dell’attore spese in uno spettacolo di riuscita rievocazione che va dritto al cuore e al cervello anche attraverso il lavoro allo specchio di un’intervista con lampi fulminanti d’ilarità.
data di pubblicazione:03/12/2021
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 3, 2021
One man show meglio dal vivo che dal morto, il comico da strada vedendosi vietata quest’ultima, ha fatto di necessità virtù e dall’interno della propria abitazione ha scortato presso presso la pandemia giorno dopo giorno con un diario di viaggio, ruspante e familiare. Appena sveglio, in vestaglia, in condizione di trasmissione telematica di emergenza, da solo o con ospiti, condominiale o solitario Nanna, ha reso più allegra, meno dura e più ricca di speranza la vita di centinaia di persone che hanno seguito i suoi collegamenti. E questo libro è il diario di viaggio nel tunnel della pandemia, ricco della sferzante ironia che lo ha resto celebre nel porta a porta e nella comunicazione verbale delle sue scorribande comiche, magari in coppia con Stefano Vigilante. Una descrizione fedele che registra i lutti, i sussulti della campagna, i profondi attimi di sconcerto, le illusioni, la dura quotidianità dell’esistenza. Così le dirette diventano testimonianza di un periodo che sogniamo ancora di lasciarci alle spalle. Se la letteratura pandemica non è stata gettonata nel biennio per ovvi motivi di rigetto, la traccia comica, auto-ironica e autocritica invece ha spalancato sentieri che il nostro autore ha agevolmente e disinvoltamente percorso con quella sana faccia tosta romana di periferia che lo contraddistingue. Dunque, non vi attendete nel libro concioni ideologiche o sofisticazioni intellettuale ma una sana voglia di comunicazione e il desiderio-mozione di uscire dalla palude, tutti insieme, magari tenendosi per mano e scacciando il maleficio con una battuta, un esorcismo. Dunque un manuale terapeutico e un’indicazione per il futuro oltre che un lieto auspicio. I collegamenti in quarantena sono stati un inno alla creatività e una soluzione per assistere menti turbate per le quali una risata ha avuto un effetto estremamente liberatorio. Leggendolo il cinque lo abbiamo battuto idealmente con lui un sacco di volte. Grazie Paolo, per questo enorme regalo collettivo.
data di pubblicazione:03/12/2021
da Daniele Poto | Dic 2, 2021
(Teatro de’ Servi – Roma, 1 dicembre 2021)
Una donna divisa a metà. La passione per il teatro, le esigenze della famiglia e di un lavoro stabile. Una precarietà che fa da sfondo comico non vittimistico per un personaggio su misura dell’interprete Marina Vitolo. Una stand up comedy condita da molta musica con canzoni vecchie e nuove da riscoprire.
Teatro leggero, lieve, piacevole. Cabaret con musica. Le vicissitudini di una donna divisa a metà (come tante oggi), sospesa tra il desiderio di un inquadramento stabile e professionale nel mondo dell’arte e le tante delusioni riservate dall’apprendistato in un mondo fatto di provini di termini quasi inaccessibili come shooting o flyers. Sulla soglia dei cinquanta anni tutto diventa più difficile per un’attrice che non fa dell’estetica un punto di forza ma ha la giusta pretesa di appoggiarsi alla bravura. Esistenza forzosamente schizofrenica ma protesa verso un ideale realizzativo di problematico compimento. Dunque vita e finzione collidono nel progetto scenico di fronte a un pubblico ben disposto, vellicato da musiche d’occasione, scelte come da un jukebox dai testi di scena. Con le Incoronate comiche, un progetto in itinere, la Vitolo si sente meno sola per uno spettacolo che legittimamente per le sue premesse non può durare più di sessanta minuti. Marina è forte e determinata e fa pesare la sua napoletanità, quella cazzimma che è una sorta di valore aggiunto per tutte le espressioni più vitali della comunicazione. Le note sono un pigmento ferace ed è buona l’armonia per le partner di scena: una capace e ironica cantante, la collaboratrice che sottotitola per i non udenti ma partecipa brillantemente all’azione e il figlio che asseconda felicemente il tappeto sonoro. Replica unica e sola prima di spostamenti in altri teatri romani alla ricerca del perfetto cocktail empatico.
data di pubblicazione:02/12/2021
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Nov 25, 2021
(Teatro Vascello – Roma, 23/28 novembre 2021)
Raggelante ma pur commovente invettiva del furente scrittore e drammaturgo austriaco contro il suo Paese. L’arte è povera e demitizzabile ma è pure uno dei pochi strumenti di salvezza e riscatto..
Tre attori (due parlanti, uno muto) rivolgono per quasi tutta la durata dello spettacolo le spalle al pubblico. Si girano quando parlano tra loro anche se c’è sentore di monologo. Il resto del tempo è dedicato all’osservazione di un quadro nella più prestigiosa Pinacoteca di Vienna, pluricitata. L’ipocondriaco protagonista riflette sulla mediocrità di quello che lo circonda trovando un sia pur momentaneo sollievo nella Sala Bordone dove riflette sull’insopportabilità dell’Austria, sui suoi troppo esaltati artisti. Un elogio della solitudine un po’ paranoica che diventa la metafora dell’esilianda condizione umana. Gli antichi maestri sono consolatori anche se hanno chiari limiti. Dunque Beethoven, Mozart, Durer sono oggetti di feroci stilettate del severo recensore che appare afflitto da depressione (ha perso la moglie) ma conserva lucidità e un perfido spirito critico. Drammaturgia ineffabile e quanto mai attuale. Il rito della visita alla Pinacoteca si ripete immancabilmente da trent’anni, seguito dalla permanenza in un albergo viennese. Abitudini che aiutano a vivere mentre la vita scorre accanto insolente. Nulla sfugge alla banalità dell’esistenza, neanche i divertimenti del Prater. Ma poi c’è da accontentarsi cercando compagnia in un teatro per assistere a uno spettacolo di Kleist. Tempi drammaturgici perfetti per un’opera di rara concisione ed efficacia. Il linguaggio occupa saldamente la scena e lo smontaggio dei quadri è l’anticipo di un finale in qualche modo consolatorio e riparatore. Tiezzi & Lombardi si confermano all’altezza di un eccellente curriculum accompagnati dagli applausi di un pubblico fortemente solidale con l’impeccabile drammaturgia. La riflessione sull’arte è potente e quanto mai attuale.
data di pubblicazione:25/11/2021
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Nov 24, 2021
Pellicola di genere, confezionata nel 2019 e sfornata, con grande anticipo sulle prossime festività, come un cine-panettone, a novembre 2021. Con un’implicita commemorazione: l’ultimo film di Gigi Proietti. Che non gli rende merito, colpa della modesta regia e di una sceneggiatura davvero minimale.
Film di buoni sentimenti ma dai risultati tristanzuoli per una platea di under con gli over tentati dall’uscire dopo il primo tempo che si conclude con un’overdose di effetti speciali. Figurarsi, sulla slitta di Babbo Natale (Proietti) il tardo peccatore Giallini viene trasportato in una sorta di miscellanea dei luoghi comuni a Parigi e Londra per distribuire i regali di Natale. Intristisce constatare come un attore come Proietti si sottoponga a una dolorosa prova d’attore quando il male lo stava già minando. E le scene in cui si accompagna a un bastone sono realistiche e immaginifiche sui suoi ultimi mesi. Se in America per i noti problemi sul mercato del lavoro faticano a reclutare i Babbo natale, qui c’è uno sfornato con una creatività minimale. Capace di accogliere e dare asilo a un ex detenuto senza arte né parte. Ovvio che il buono per eccellenza redima il cattivo e gli faccia persino ritrovare la gioia degli affetti familiari perduti (moglie e figlia). Il plot ha una prevedibilità esagerata e nessun guizzo. Gl attori stano stretti in panni troppo prevedibili con la melassa del buono che digrada in un buonismo d’accatto. Purtroppo, tendenza generale, i bravi attori italiani (anche Favino, anche Germano) troppo spesso accettano proposte che più che valorizzarli li sviliscono. Alla fine di questo film viene voglia di urlare: “A ridatece Rocco Schiavone”. Giallini avrò occasione per riscattarsi, Proietti (mai valorizzato sui set) purtroppo no. Alla fine della proiezione rimane un vago senso di malinconia. Più che per l’occasione perduta, per lo spreco di ambizioni frustrate.
data di pubblicazione:24/11/2021
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