da Daniele Poto | Gen 12, 2022
Un piacevole testamento spirituale. Non sembri accostamento azzardato e ossimoro il giudizio sull’ultimo definitivo libro di Mattia Torre, noto ai più come co-sceneggiatore di Boris, alle prese con un lungo tunnel sanitario che non gli ha impedito un felice sprazzo di letteratura umoristica e drammatica. Conscio dell’ineluttabilità della fine lo scrittore ha scommesso sul proprio futuro con questo manifesto. Che rivela fiducia nella sensibilità dell’arte, della testimonianza concreta di come anche una risata può salvare il mondo. Opera libera che è manifestazione di pensiero nell’affastellarsi di sketch situazioni in cui fiction, saggistica, vita vissuta e teatro si confondono, un po’ come succede nei libri di Piccolo. Piccole e grandi percezioni di vita filtrate dal senso di precarietà. Il libro è pieno di inneschi, di trame accennate che avrebbe meritato ancor più pieno sviluppo. Però, contemporaneamente, è un libro esaustivo oltre che l’ultimo regalo che Torre ci ha fatto. Rimangono di lui i reading degli amici (Aprea, Mastandrea) che continuano a farne vivere ricordo e memoria senza retorica. Siamo vivi finché qualcuno leggerà le nostre cose (parafrasi del pensiero di Baricco). In questo senso Torre è più che mai vivo e attuale nel pensiero riverberato del suo milieu. Il senso di libertà di questo materiale informa è testimoniato da una scrittura attenta ma poco sorvegliata, libera dal dovere della consegna e da obblighi contrattuali. Dunque un’intimità diaristica tanto più apprezzabile quando l’autore senza pudore rivela anche io propri buchi neri e le proprie lacune, in un esercizio quanto mai funzionale di autocoscienza creativa al servizio della letteratura. Se n’è andato a meno di cinquanta anni Torre lasciandoci spunti validi per un’infinita di ripercorribili trame. Radici seminali piantate un po’ ovunque, ironizzando su una società italiana (e sui suoi strani personaggi) ricca di contraddizioni ma non per questo meno interessante.
data di pubblicazione:12/01/2022
da Daniele Poto | Dic 19, 2021
(Teatro Lo Spazio – Roma, 16/19 dicembre 2021)
Tosta drammaturgia contemporanea con un Labute che sa di Mamet. Duetti per due tempi con una gravidanza irrisolta di mezzo. Dialoghi ruvidi e realistici per una piéce godibile e di estremo charme attoriale.
Si può fare anche grande teatro con due soli attori, una scenografia scarna ma con la forte stampella di un testo potente da recitare. Bravo il regista Coutugno a sfruttare la logistica del teatro di San Giovanni ricavandone margini di movimento con l’ariosa scala e con il bar a cui si approvvigionano, bevendo finto gin, i due protagonisti. Scontri di coppia nel segno di una sofferta gravidanza. La prima sfuma per un procurato aborto, la seconda per il suicidio della madre in attesa. Fateci caso due vittime a tempo e un solo sopravvissuto: nel primo tempo la donna, nel secondo l’uomo fedifrago. L’avatiano Botosso predomina in avvio, la Boccoli giganteggia in chiusura con un attacco al coniuge che meriterebbe un prolungato applauso se non ci fosse una continuità teatrale da rispettare. Il disordine del titolo è l’elemento caratterizzante sulla scena. Perfetta interazione tra i protagonisti con scene che sanno di vero e l’attualità che irrompe. Nel primo caso l’attentato alle torri gemelle, più crepuscolare il secondo spunto: un tradimento scoperto a mezzo telefonino, oggetto feticcio dei nostri tempi, documentando drammatiche urgenze delle vite odierne. Comunque la distonia è l’elemento principale dello spettacolo, dunque innesco ideale per il conflitto fertile generatore di teatro. Si ride più che sorridere per il palese tentativo dell’uomo nel tentativo puerile di giustificare il proprio tradimento. Storie riviste e riviste ma credibili per l’acutezza del confronto dialettico tra i coniugi. Ed è anche perfetto l’incastro con le musiche di scena, con ogni probabilità scelte dallo stesso autore. Per la cronaca i titoli originali dei due tempi sono rispettivamente Land of death e Helter Skelter.
data di pubblicazione:19/12/2021
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 16, 2021
(Teatro Argentina – Roma, 10/23 dicembre 2021)
Eduardo forever, immaginando il grande De Filippo con i suoi napoletanismi, le sue pause. Il leggendario Cecchi non è erede ma epigono nella tradizione. Un po’ privo di energia ma ancora profondamente carismatico, perché altrimenti, con diverso interprete, il teatro non sarebbe positivamente semipieno.
Due brevi attivi unici per 80 minuti complessivi di spettacolo. Che sembrano un po’ l’aperitivo e il prologo a un piatto più gustoso. Che non arriva. Ossatura da fragili sketch, seppure gustosi e corroboranti. Impresentabili da soli se non altro per la brevità della durata fanno pendant e valore aggiunto per una serata di gala nel nome di uno dei grandi interpreti del teatro italiano, collante e additivo per il botteghino. Forse una proposta che meritava uno scenario più familiare e angusto perdendosi nella maestosità del primo teatro di Roma. Angelica Ippolito, fedele nei secoli al copione, è presenza autorevole e non dimessa della pièce. Cecchi si muove fisicamente con un po’ di disagio dovendo rappresentare un personaggio considerevolmente più giovane ma si muove perfettamente a suo agio nell’incastro perfetto delle interazioni drammaturgiche. Lo zoccolo duro delle due proposte ruota intorno al tema della morte e del trucco. Nel primo si agita la tragedia inconsapevole, nel secondo l’illusionismo maldestro e chapliniano di un tipico personaggio partenopeo. Sik Sik a suo tempo covò un successo clamoroso a Napoli con oltre 450 repliche, con Eduardo sulfureo e malandrino al centro della scena, affiancato dal figlio Luca e dall’immancabile Ippolito. Proposta che s’incastra magnificamente con il tema natalizio come hanno intuito gli assemblatori della stagione. Non si può perdere l’occasione di ammirare Cecchi in un pezzo forte del suo repertorio replicante.
data di pubblicazione:16/12/2021
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 15, 2021
Giallo drammatico, biopic: giallo che manca gli obiettivi, forse per colpa delle vicissitudini produttive. Snaturato l’antico progetto, assemblato con dovizia di mezzi un imponente cast di grandi attori, vistosamente fuori parte, molto dei quali inquadrabili in un cameo. Comprensibile la dissociazione della famiglia. Verità a parte la restituzione estetica dei personaggi appare forzata e quasi caricaturale.
Un cast senza confini per un piccolo risultato. Curiosamente l’anteprima offre il prodotto internazionale con i sottotitoli italiani. E la globalizzazione dello scandalo sottrae la specificità italiana di uno scandalo interamente vissuto nell’ex Belpaese senza che compaia un solo attore nazionale. Dunque climax hollywoodiano e firma di Scott non all’altezza della sua fama. Troppe scene scontate ed un‘Italia quasi da barzelletta. Lady Gaga sculetta come nessun altra donna nella realtà di tutti i giorni e gli operai galletti la fischiano con grande spregio del politicamente corretto. Se la verità è solo folclore l’obiettivo è mancato. Per non dire della strana caratterizzazione musicale quasi asincrona e provocatoria rispetto all’andamento delle scene. I personaggi sono tagliati con l’accetta assecondando una sceneggiatura un po’ pedestre. E il giallo è relativo perché le carte sono scoperte sin dall’inizio. L’ingenuo Maurizio Gucci viene abbindolato da un’arrampicatrice sociale e facile sua preda. Si sa per chi tifare sin dai primi minuti. Un prodotto che può avere successo sul mercato mondiale ma difficilmente convincerà i critici italiani per la mancanza di spessore e di verosimiglianza. Roma, Firenze e Milano appaiono come fondali da cartolina e lo stile Gucci mai profondamente evocato. Sarà un caso l’inserimento nel cast di Salma Hayek che è l’attuale moglie del capo di Gucci Francois Henri Pinault? Un particolare che evoca scelte compromissorie, come quella di rinunciare in itinere all’apporto di Robert De Niro e Margot Robbie. Tra i produttori c’è Giannina Scott, moglie d’arte, più nota da noi come Giannina Facio.
data di pubblicazione:15/12/2021
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da Daniele Poto | Dic 11, 2021
(Teatro India – Roma, 1/12 dicembre 2021)
Si stenta a riconoscere Labiche e sembra di più di entrare nel mondo caricaturale della telenovela utilizzando il frequente tentativo di interazione (poco riuscito in verità) con la platea. Spettacolo giovane, piccante, veloce, un po’ naif. Un diversivo per Rustioni avvezzo a tentativi più maturi e difficili.
La parola “vaudeville” riassume un mood che non si ritrova in tre virtuali atti unici senza soluzioni di continuità per la scena continuamente rimodellata e cangiante a opera degli stessi interpreti. Bravi tutti gli attori per un compito camaleontico entrando in panni sempre diversi, tra l’altro, con impressionanti variazioni vocali. C’è un intento sottilmente sovversivo nel progetto che è quello di smantellare attraverso un cliché di facile riconoscimento un mondo convenzionale squassandolo con l’obiettivo di un sorriso che a volte è risata. C’è il modello, c’è la forza straniante di rielaborarla con scarsa o alcuna attenzione per la conclusione del giallo e sottolineatura invece sul percorso e sulle sue imprevedibili varianti. Si può scrivere che gli attori si arrampichino su tutti i luoghi comuni possibili. Il resto dell’ottocento volge a un’inevitabile rimodulazione nel contemporaneo con un lavoro piuttosto immane di Rustioni, uno e trino nell’occasione. Commedia catartica e liberatoria il cui fine ultimo è un palazzeschiano “Lasciatemi divertire” senza pretese. Pubblico giovane, incuriosito da uno spettacolo non propriamente da India, ma proprio questo attrattivo e forse accuratamente pre-natalizio. La meccanica dell’azione teatrale può ricordare quella di Rumori fuori scena. All’insegna di un continuo girandolesco dentro e fuori degli attori. Una proposta di apparente semplicità che, al contrario, al proprio interno contiene una serie di scatole cinesi, degne di approfondimento e di metabolizzazione da parte dello spettatore.
data di pubblicazione:11/12/2021
Il nostro voto:
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