da Daniele Poto | Feb 17, 2022
(Teatro Parioli – Roma, 16/27 febbraio 2022)
Un vivace ritorno in scena con un augurio che è già insito nel titolo. Ale e Franz osano lo sketch lungo e la prima è un gran successo (tutto esaurito) in una sala a loro cara per gli antichi ricordi del Costanzo show.
Non più solo comici, non più solo attori caratteristi al cinema ma interpreti in senso globale. Entertainer capaci di tenere la scena con disinvoltura per più di due ore. Con un gradito omaggio musicale a Enzo Jannacci (ma anche a Gaber) trapiantando un angolo di Milano a Roma che gradisce anche se in un’occasione si giova di una quasi traduzione simultanea dal meneghino. Non c’è da dubitare della sinergia e dell’affiatamento di una copia presa nel momento di massimo maturità (il tema dei cinquantenni ricorre spesso nello spettacolo) che annunciano una rinnovata voglia di leggerezza, giocando con le idiosincrasie del nostro tempo (l’uso sistematico dello smartphone, la gelosia patologica di un padre). Danno vita a una perfetta oleata macchia scenica assistiti da un contesto rock che è una sorta di ponte levatoio tra una situazione e l’altra. I pezzi unici sono degli assolo prolungati con un’estenuata ricerca del colpo di scena ulteriore. Il cabaret “zelighiano” di una volta si è arricchito di spaziature e coloriture che ci fanno rivedere il duo in una luce nuova, più incisiva e corrosiva. E c’è un finale che non ha fine per la voglia di rimanere sul ritrovato palcoscenico. Per lasciare tutti ancorati al felice passato lo sketch del dialogo tra i due vecchietti è il più agile e spassoso anche se tra le battute si insinua una dilagante malinconia. La durata della permanenza a Roma è foriera di un’efficace passaparola di un pubblico abbondantemente soddisfatto.
data di pubblicazione:17/02/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 2, 2022
(Teatro India – Roma, 1/6 febbraio 2022)
Monologo di una scrittrice dai pensieri devianti, quasi una confessione a cuore aperto con perfetta immedesimazione tra regia, drammaturgia e voce recitante.
La sinergia teatrale tra le due Lucie (Calamaro e Mascino) fa pensare che il monologo sia stato scritto a misura della brava interprete che per un’ora nella prima davanti a una platea giovane e sinceramente entusiasta doma gli astratti fuori di una scrittrice in crisi, orfana di un successo che le arrise e che ora vede sfumare gli incipit in vicende di scarso respiro. La monologante si esprime con ruolo maschile e con l’affabulazione attoriale che le è propria interrogando a volte retoricamente il pubblico. Evocando i fantasmi dei parenti oppure scrittori masticati con difficoltà come Derrida o Deleuze. Una patina di snobismo che la fa partire ma arrivare mai. Lacerti di frasi impressioniste, brandelli di storie ma la narrazione completa le sfugge dal basso di una crisi che la tocca nella sua sfera intima, magicamente rivelata al pubblico. La drammaturgia della Calamaro è ficcante anche se a volte il testo e il senso perde di tensione e coesione (comprensibilmente non facile da mantenere dopo lo scoppiettante inizio). L’abbattimento simbolico e quasi finale della biblioteca è la metafora di un’insuperabile impotenza creativa. E il finale è come sospeso su due parole che rimandano al flusso incomprensibile dell’esistenza, del suo senso e della sua conclusione. “Ma perché? La Mascino è insieme divertente e commovente in questa recitazione rotta, vagamente dissociata e schizoide rappresentandoci onde del disagio contemporaneo. Particolarmente rilevante in una professione creativa non incasellabile in schemi rigidi. Chissà quanti scrittori mainstream possono riconoscersi in questo corrosivo quadretto. La scenografia essenziale va in tinta (bianca omogenea all’abbigliamento della magrissima protagonista. Spettacolo di vuoto più che di pieni, di un’angoscia, se si può dire, allegramente rappresentabile.
data di pubblicazione:02/02/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 1, 2022
Un nitido cronologico omaggio al Maestro delle musiche da film attraversando gloriosamente cinquanta anni di cinema, dal trash alle pellicole d’arte con una cifra stilistica inconfondibile.
Raramente si esce appagati da una sala come dopo questi 150 minuti di emozionante viaggio dentro il mondo di una persona che non riesce difficile definire artista. Film documentario (e non sembri una contraddizione) che è una sorta di intarsio di scatole concentriche. Dentro c’è la storia di mezzo secolo di cinema ma anche altrettanti anni di sviluppo musicale di un’arte artigianale. E, quello che più, conta l’evoluzione di un mito italiano. E che sorpresa trovare l’eco di Morricone (un cognome che gli americani proprio non riescono a pronunciare correttamente) nei concerti dei Clash, nei Metallica, nell’entusiastica considerazione di un Bruce Springsteen. Gruppi e cantanti apparentemente su galassie diverse. Morricone appare in tutte le sue sfaccettature. Nella sua contrastata gavetta, proveniente da famiglia umile, con padre trombettista, alle prime collaborazioni in compartecipazione. Collaborazioni tutt’altro che schifiltose anche con il cinema di serie B, prima di fare il salto di qualità con Sergio Leone. Con il rimpianto, per il divieto di quest’ultimo, di non aver potuto lavorare fianco a fianco di Kubrick per Arancia Meccanica (vincoli contrattuali). È costata sette anni di lavoro in giro per il mondo questa creazione che trasmette energia. Ma c’è anche lo sfaccettato Morricone di Nuova Consonanza, con le scorribande nella musica sperimentale, il Morricone direttore d’orchestra, l’umile ma indipendente discepolo di Petrassi. Sempre alle prese con un cronico e mai vinto complesso d’inferiorità per non aver abbracciato in toto la carriera di compositore, inventando una strada con un metodo personale e, per certi versi, irripetibile. Tornatore ha avuto l’umiltà di dedicarsi a un mito italiano, ricco di nomination, con la conquista assoluta dell’Oscar raggiunta con Tarantino, un tardivo omaggio a quanto aveva seminato con un ricco curriculum.
data di pubblicazione: 01/02/2022
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 26, 2022
(Teatro Sala Umberto – Roma, 25/30 gennaio 2022)
Un classico del teatro della regina del giallo. Con un finale noi da non spoilerare. Regia classica con la massima fedeltà nel testo..
Curiosità per il debutto dell’esperto Rigillo (qui con famiglia) nel teatro di genere per un classico evergreen su cui non si deposita la tentazione dell’attualizzazione. Personaggi tagliati con l’accetta per un plot a eliminazione progressiva. Spettacolo che non teme la durata (finisce poco prima di mezzanotte) e con rarefazione crescente mano a mano che si sfoltisce la congerie degli invitati a un misterioso raduno su un’isola non prima di insidie. Dove si uccide nei modi più disparati: di coltello, di pistola, con misteriosi quanto inspiegabili avvelenamenti. Ognuno dei presenti ha uno scheletro nell’armadio e anche piuttosto pesante: un omicidio. Per tenere insieme la narrazione occorre indulgere nei trucchi di mestiere della Christie dove non tutto è spiegabile e suadente ma se si presta fede al suo incedere la suspense cresce e conduce nei pressi della soluzione. Non c’è dubbio che per la fruizione sia indispensabile l’adesione al mood un po’ datato dell’autrice, ben sposato con le scelte registiche. Ricorderete che oggi il titolo può incappare nel politicamente corretto. Nell’originale i niggers (negri) è stato sostituito dagli indiani ma non c’è dubbio che lo stigma può riguardare oggi anche i nativi d’America. Rigillo ben si incastona nel cast sena sottolineature e sovra-toni. La proposta era già transitata al teatro Ciak e non c’è dubbio che nei tempi attuali di crisi possa trovare adesioni in tutta Italia visto che si racconta una storia immortale a tenuta illimitata.
data di pubblicazione:26/01/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 22, 2022
Un attualissimo pamphlet su un bubbone non completamente espulso dal dibattito contemporaneo anzi, più che mai attuale vista anche la risonanza rivalutata come la questione del Fascismo eterno, evocata dal compianto Umberto Eco. In un’analisi a tutto tondo Renzi indaga sulle varie forme di diffusione della dottrina politica che imbalsamò l’Italia per più di un ventennio, costringendo il Paese a una gravosa seconda guerra mondiale il cui senso, per certi versi, ha riflessi ancora presenti nella psiche di chi l’ha vissuta. Ma l’attenzione è più che altro rivolta ai riflessi odierni, ai vari filoni di diffusione di un’ideologia che si è avvalsa anche del contributo di punti di riferimento epocali come Julius Evola. La panoramica è globalizzata perché allargata all’orizzonte statunitense, con la particolarissima deriva trumpiana. Renzi si diffonde sul tramonto della religione antifascista di Stato dove l’anti spesso risulta un’etichetta vuota sotto la cui bandiera un po’ tutti possono riconoscersi. Sostiene la difficile esistenza nel Paese di una destra moderata, equilibrata e istituzionale. Rintraccia le contraddizioni nei partiti della destra coalizzata che, formalmente mettono al bando, gli estremisti ma poi se ne avvantaggiano come possibile serbatoio di voto. Mette a frutto la propria esperienza nel descrivere la deriva della destra con infiniti distinguo e sottili differenze. Una galassia sfrangiata in cui convivono come brodo di cultura riferimenti storici, ribellismo, movimentismo, la rivalutazione del concetto di patria. Dalla Meloni a Casapound passando per Roberto Fiore. Analisi non cristallizzata vista anche la cartina di tornasole del movimento no vax vistosamente influenzato dalla destra, propenso a momenti eversivi. Con Draghi configurato addirittura come il Diavolo, in sostituzione del deposto Conte. Una piazza in fermento, agitata e tutt’altro che disponibile a una riconciliazione istituzionale constatate anche le spinte razziste che spesso la animano.
data di pubblicazione:22/01/2022
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