da Daniele Poto | Mar 5, 2022
(Teatro Vascello – Roma, 1/6 marzo 2022)
Uno Ionesco a torto considerato minore, che marca la differenza con Beckett. Assurdo? Fino a un certo punto. Splendida coppia di attori e scenografia agghiacciante e impattante.
Se ci fosse un Oscar per la migliore stagione teatrale nel secondo anno di pandemia avremo pochi dubbi su a chi attribuirlo per densità di spettacoli, qualità e quantità. Non era in partenza seducente la sfida al botteghino nel nome di Ionesco ma è stata una scommessa vinta a giudicare dai minuti di applausi nella rodata replica a cui abbiamo assistito, con la fantastica coppia di interpreti quasi a celiare con il pubblico in nome di un idillio e di un’empatia stabilita fin dalla prime battute. Eppure al primo apparire sembravano due mostri artefatti i coniugi che si presentavano in un orizzonte spettrale con decine di sedie disposte in precario equilibrio. Poi si stabilisce la sintonia con il pubblico e la scena ci arricchisce, grazie alla loro recitazione ma anche grazie all’evocazione di personaggi inesistenti che fanno, se possibile, vivacemente salotto e amplificano la dialettica del duetto. Il salto nel vuoto finale è spettacolare e sancisce la perfetta rispondenza della recitazione con luci e suoni all’interno di uno spettacolo. Crudele meccanismo teatrale rappresentante la solitudine, la minorità sociale anti-convenzionale e, in definitiva, di marchio anti-borghese. Ionesco squassa i luoghi comuni con la forza di un argomentare semplice e pacato. Non è un caso che Federica Fracassi abbia vinto il premio “Le maschere del teatro italiano” per questa interpretazione in combinato disposto per la scenografia con Nicolas Bovery. I protagonisti potrebbero essere nostri anonimi vicina di casa, fuori dalla storia e da ogni possibilità di contare nonostante la costante allusione a un discorso che potrebbe avere la virtù di cambiare il mondo. Metafisica di un grande disperante vuoto da riempire.
data di pubblicazione:05/03/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mar 4, 2022
Teatro Anfitrione – Roma, 19 febbraio/13 marzo 2022)
Deliziosa farsa vintage di quella che non si tentano più con tanti attori, tanti costumi con un profumo irresistibile di vaudeville e di passatismo nel teatro giusto per la rappresentazione. E un abbondante pizzico di nostalgia.
Sergio Ammirata a 85 anni non si è stancato di animare la compagnia La Plautina che per quasi un mese intero (fatto più unico che raro) tiene banco nell’abituale parterre casalingo del teatrino di San Saba. Calore e partecipazione meritata per un testo che viene da lontano, addirittura da due secoli fa. E brava la compagnia a approfondire uno spunto da barzelletta per 80 minuti di rappresentazione. La coloritura e gli eccessi sono all’ordine del giorno in questa pochade in cui ovviamente l’ importante è calcare la mano. Si rappresenta una morte scomoda. Tutti i variegati personaggi si sono abituati alla morte dell’amico, ora non più così amico da morto. Così il ritorno in scena è una parentesi scomoda e imbarazzante. Meglio il ritorno a miglior vita, un ritorno al passato che fa comodo a tutti. Ovviamente l’innesco è propedeutico a una riflessione pessimistica sullo stato dei rapporti tra gli esseri umani, improntati a una finta solidarietà che si scioglie per incanto di fronte alla straordinari emergenza. Ammirata non gigioneggia ma trasmette un solido mestiere alla compagnia in cui, incredibile dictu, ricompare Mirella Banti, apprezzata attrice di cinema alla prese con un’inaspettata riconversione. E poi ad animare la serata la coda di canzoni napoletane chiamando sul palcoscenico a viva forza anche spettatori più o meno intonati per una proposta decisione riuscita. La dedica di fine recita è ovviamente nel segno di Patrizia Parisi, animatrice in loco di tanti spettacoli oltre che fedele partner di Ammirata.
data di pubblicazione:04/02/2022
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mar 2, 2022
Un mockmuntary italiano in piena regola con la descrizione della vita immaginaria di un’attrice che però percorre passi e stralci di una vita reale. Con realtà e finzione continuamente alternatesi su un piano di interessante sintesi per lo spettatore. Il capolinea con un suicidio che avviene in una squallida stanza d’albergo nello stesso giorno in cui muore Enrico Berlinguer. 38 anni fa.
Affascinante nel giorno dell’anteprima constatare la passione con cui la coppia Angeli-Bonifazi ha perseguito il completamento e la definitiva uscita di una pellicola che, tra vari intervalli, ha portato via un bel pezzo dei tredici anni di vita della coppia. Anzi, il plot ha una genesi ancora più antica dato che segue, con un grosso taglio di scrittura, un omologo spettacolo teatrale che debuttò nel 2001 con musiche originali abbondantemente utilizzate nel movie odierno. C’è tanta storia d’Italia nelle immagini di repertorio. Tra terrorismo, complottismo, gavetta e prime esperienze di un’attrice immaginaria che parte dal Mandrione pasoliniano con tante speranze di carriera che si perdono tra particine, provini umilianti e l’ingresso nel cinema porno, mallevadore di tante scene di sesso. Così con continui salti cronologici il presente è un meditato suicidio in una stanza di un albergo equivoco dove vengono sparse sul letto tutti i memorabilia di un’esistenza. Luisa Bonfanti ci ha fatto vivere la propria storia e esce di scena a 36 anni con tante vite vissute e tante storie inespresse non vissute. La vicenda circoscrive la propria forbice temporale tra il 1980 e il 1984 e gioca sulla continua schizofrenia dei piani aristotelici predisponendo a varie letture e a un gioco assortito di fruizioni. Livia Bonifazi asseconda l’ambizioso progetto artistico del marito-regista con assoluta credibilità e un notevole coraggio anche per la scabrosità di molte scene. Grazie anche a un volto e a un corpo oggi senza età.
data di pubblicazione:02/03/2022
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 24, 2022
Una caduta nell’abisso della depravazione in una storia italiana di ordinaria dissipazione. Più che un’immersione sociologica nel mondo deraciné dei barboni borderline l’autrice si sofferma su un personaggio femminile che è l’onnivoro e patologico centro del racconto. Legata al personaggio che racconta da un misto di attrazione e repulsione che si sviluppa per tutta la durata del romanzo o racconto breve. Un’ossessione che nasce dal tentativo frustrato di riscatto, di un possibile aiuto per sottrarla a una condizione a cui sembra inevitabilmente destinata. I legami con la vendita sessuale, con la droga, con la mancanza di cibo, con l’abdicazione a qualunque forma di dignità rimandano al presente in chiaroscuro di tanti abitanti di San Lorenzo e dintorni. Non c’è il tentativo di disegnare una mappa corale della sofferenza perché il focus è esclusivamente puntato su Urbana, in una serie di incontri, sparizioni, abdicazioni che danno all’incerta cronologia degli avvenimenti un carattere vago e sfrangiato. Il rischio è quello del bozzettismo di genere ma crediamo che il più grosso inciampo della prova sia un certo compiacimento nella ripetizione, nel ritorno concentrico alla speranza disillusa. Urbana non è convertibile ad alcuna forma di cambiamento, destinata a inabissarsi in questo inferno che lei stessa ha creato. Storia vera di una donna irrimediabile, storia presa dalla realtà. Il fragile corpo di Urbana non resisterà a un’overdose. Se ne andrà, non rimpianta, se non dal protagonista, a soli 45 anni di età disegnando un percorso di solitudine che è proprio a molti sans papier dell’Urbe. Un linguaggio semplice e accessibile rende il libro di facile comprensione anche se una sottile inquietante linea di angoscia lo percorre per il centinaio di pagine di svolgimento. Non è un caso che l’autrice sia impegnata nel sociale e nel volontariato da tempo e che abbia affrontato vis a vis le tematiche su cui si diffonde.
data di pubblicazione:24/02/2022
da Daniele Poto | Feb 17, 2022
(Teatro Parioli – Roma, 16/27 febbraio 2022)
Un vivace ritorno in scena con un augurio che è già insito nel titolo. Ale e Franz osano lo sketch lungo e la prima è un gran successo (tutto esaurito) in una sala a loro cara per gli antichi ricordi del Costanzo show.
Non più solo comici, non più solo attori caratteristi al cinema ma interpreti in senso globale. Entertainer capaci di tenere la scena con disinvoltura per più di due ore. Con un gradito omaggio musicale a Enzo Jannacci (ma anche a Gaber) trapiantando un angolo di Milano a Roma che gradisce anche se in un’occasione si giova di una quasi traduzione simultanea dal meneghino. Non c’è da dubitare della sinergia e dell’affiatamento di una copia presa nel momento di massimo maturità (il tema dei cinquantenni ricorre spesso nello spettacolo) che annunciano una rinnovata voglia di leggerezza, giocando con le idiosincrasie del nostro tempo (l’uso sistematico dello smartphone, la gelosia patologica di un padre). Danno vita a una perfetta oleata macchia scenica assistiti da un contesto rock che è una sorta di ponte levatoio tra una situazione e l’altra. I pezzi unici sono degli assolo prolungati con un’estenuata ricerca del colpo di scena ulteriore. Il cabaret “zelighiano” di una volta si è arricchito di spaziature e coloriture che ci fanno rivedere il duo in una luce nuova, più incisiva e corrosiva. E c’è un finale che non ha fine per la voglia di rimanere sul ritrovato palcoscenico. Per lasciare tutti ancorati al felice passato lo sketch del dialogo tra i due vecchietti è il più agile e spassoso anche se tra le battute si insinua una dilagante malinconia. La durata della permanenza a Roma è foriera di un’efficace passaparola di un pubblico abbondantemente soddisfatto.
data di pubblicazione:17/02/2022
Il nostro voto:
Gli ultimi commenti…