NON E’ VERO MA CI CREDO di Peppino De Filippo, regia di Leo Muscato, con Enzo De Caro, scene Luigi Ferrigno, costumi Chicca Ruocco

NON E’ VERO MA CI CREDO di Peppino De Filippo, regia di Leo Muscato, con Enzo De Caro, scene Luigi Ferrigno, costumi Chicca Ruocco

(Teatro Il Parioli – Roma, 31 marzo/10 aprile 2022)

Omaggio a Peppino ma anche a Luigi a quattro anni dalla scomparsa. Un classico del repertorio del più farsesco dei De Filippo. Con un De Caro all’altezza della parte e della commemorazione. I suoi partner sono la compagnia del compianto Luigi.

Prima fastosa per un classico tutto esaurito da debutto con tanti significati. Pittoresca confusione da generone romano all’ingresso (citazioni per Giovanni Ralli, festeggiatissima e Gianni Letta, di meno). Ma la ricompensa è ghiotta sul palcoscenico per uno spettacolo da 90 minuti senza interruzioni ma con tre suture. L’evocazione della superstizione partenopea è caricata all’eccesso in avvio ma poi si diluisce nella concentrazione sulla gobba portafortuna. Peppino sulla particolarità è più leggero di Eduardo. Poi senza spoilerare il ricorso a quello che viene definito “il regolamento” evapora nella sorpresa finale. Ovviamente l’happy end è in vista con una scena corale che è la fotografia istantanea che riassume tutto l’impegno della compagnia. L’ambientazione è spostata negli anni ’80, senza dimenticare ovviamente Maradona e Pino Daniele. Il poliedrico Muscato ha una storia antica, un sodalizio ventennale con parte della famiglia e non si nega dedizione all’opera di ravvivamento del testo. Concede persino una coreografia di balli moderni nel finale quando l’inevitabile matrimonio salda tutte le contraddizioni, le paure del protagonista. De Caro culmina un bel percorso attoriale, lontano ormai decenni dagli antichi compagni di viaggio. Mostrando di sapersi evolvere da solo, assolvendo un compito non banale. Piero Maccarinelli con questa tappa salda un altro pezzettino di stagione come tanti altri teatri romani. Alti e bassi, non sempre omogenei ma all’insegna della poliedricità per accontentare vaste fasce di pubblico. Senza dimenticare che siamo a Roma nord, in quello che una volta era il tempo del Maurizio Costanzo show.

data di pubblicazione:01/04/2022


Il nostro voto:

ESOTICI, EROTICI, PSICOTICI, il peggio degli anni ‘70 in 120 film di Renato Palazzi – Cue Press, 2021

ESOTICI, EROTICI, PSICOTICI, il peggio degli anni ‘70 in 120 film di Renato Palazzi – Cue Press, 2021

Quando c’erano le seconde e le terze visioni, una catena vasta di cinema porno, anche il cinema di serie B o C era preso in alta considerazione e si meritava delle recensioni che non erano semplici trafiletti sui principali quotidiani nazionali. Renato Palazzi si prestava a questo umile compito di filtraggio filmico sulla più diffusa testata nazionale e lo faceva senza sciatteria ma con un preciso senso del dovere, applicando le categorie estetiche che avrebbe utilizzato per una pellicola di Fellini o di Bunuel. Dunque questa è un’antologia vintage di un mondo che non c’è più, circoscritto alla commedia pecoreccia all’italiana, al filone del kung fu caro a Bruce Lee, alla moda dei poliziotteschi tutti eguali con registi e attori che ci hanno costruito sopra una discreta carriera. Carrellata sul film di genere e degenere con notazioni vintage che possono essere care a una generazione over. Libro di nicchia ma prezioso perché documenta un felice momento al botteghino perché c’erano film capostipite e modello che aprivano una lunga scia di imitazioni, con l’occhio mirato agli incassi. Sulla qualità si può discutere ma la quantità è indiscutibile. La sorpresa è trovare uno scrittore di vaglia come Daniele Del Giudice come autore di uno di queste non memorabili sceneggiature (si doveva pure campare, il film in questione è L’assassino è costretto a uccidere ancora, 1975). È anche vero che dall’horror ruspante dei Bava e dei Fulci è scaturito un maestro come Dario Argento. Così questo cinema marginale e residuale, nella rievocazione, acquista dignità e consistenza. E forse i nomi di Femi Benussi, Ria De Simone o Orchidea De Santis diranno qualcosa a un vasto pubblico di estimatori, direi soprattutto maschili. Corpi di attrice ma anche voci ed espressioni. Il sottotitolo ironico veicola il profilo basso dell’intenzione ma la scrittura di Palazzi è sempre controllata e inappuntabile. Onore al merito.

data di pubblicazione:29/03/2022

SE DEVI DIRE UNA BUGIA DILLA GROSSA di Ray Cooney, versione italiana di Iaia Fiastri in ricordo di Pietro Garinei, con Antonio Catania, Gianluca Ramazzotti, Paola Quattrini e Paola Barale e Nini Salerno

SE DEVI DIRE UNA BUGIA DILLA GROSSA di Ray Cooney, versione italiana di Iaia Fiastri in ricordo di Pietro Garinei, con Antonio Catania, Gianluca Ramazzotti, Paola Quattrini e Paola Barale e Nini Salerno

(Teatro Quirino Gassmann – Roma, 16/28 marzo 2022)

Farsa evergreen con efficace adattamento italiano. La Quattrini vicina agli 80 anni è il trait d’union con la gloriosa storia di uno degli spettacoli di punta della Premiata Ditta Garinei & Giovannini.

Immaginate una commedia di Feydeau riattualizzata per un pubblico borghese dei nostri tempi. Munitevi di una bacchetta magica e riesumate la pochade trenta o quaranta anni dopo i fasti della prima al Sistina. Funziona lo stesso e con vivacità scoppiettante. Tra giochi di porte, scambi di coppie, equivoci, l’ammiccamento al politicamente scorretto sui gay. E con palesi luoghi comuni (il politico con aspirazione all’adulterio, la bonona che non si fa troppi scrupoli, la moglie ancora vogliosa, il portaborse a tutto pronto) rivitalizzati dalla verve degli affiatatissimi attori tra cui non sfigura, nonostante chiari limiti, la stessa Barale. Catania si conosce: un gattone pronto a giocare di rimessa. Ramazzotti è un guastatore comico capace anche di notevoli contorsioni fisiche, vera anima dello spettacolo, oltre che abile manipolatore del progetto originale. E la Quattrini con la sua aria disincantata da oca giuliva (ma fino a un certo punto) che mette a segno zampate esulceranti. Così la mayonese non impazzisce ma si posa su un tessuto di spettacolo divertente e arioso con le brave caratterizzazioni di Marco Cavallaro e Alessandro D’Ambrosi. Contribuisce alla riuscita l’indefettibile scenografia. Un parallepipedo girevole che ci porta all’interno dell’intimità delle stanze da letto fino alla reception, nodo di snodo dei complessi intrighi della piece. La saga di questa commedia porta a raffronti generazionali. Il ruolo della Barale è stato sostenuto in passato da Gloria Guida e Anna Falchi e le motivazioni estetiche sono di facile decifrazione. Era dal 2000 che il progetto originario non veniva ripreso e il riprovarci più di venti anni dopo è segno di calcolato coraggio.

data di pubblicazione:20/03/2022


Il nostro voto:

VARIAZIONI ENIGMATICHE di Eric-Emmanuel Schmitt, con Glauco Mauri e Roberto Sturno, regia di Mattaeo Tarasco

VARIAZIONI ENIGMATICHE di Eric-Emmanuel Schmitt, con Glauco Mauri e Roberto Sturno, regia di Mattaeo Tarasco

(Teatro Il Parioli – Roma, 4/13 marzo 2022)

Pièce piena di colpi di scena da non rivelare in un continuo accendersi di spoiler e di rivolgimenti di realtà. Dato che il teatro è anche artificio tutto è concesso all’autore!

 

A 92 anni Glauco Mauri, il più anziano attore italiano sulla scena (ma potrebbe anche essere un record mondiale di longevità attoriale, chi può dirlo?) non ha paura di cimentarsi con la nuova drammaturgia contemporanea, ben in linea con la nuova linea impressa al teatro di Roma Nord da Piero Maccarinelli. Meno De Filippo, meno Pirandello, più spazio all’eterogeneità. Non c’è da tuffarsi sulla trama che è un continuo florilegio di sorprese rispetto alla quieta apparenza del primo tempo. In avvio lo sviluppo sembra lineare. Un cronista non di primo pelo ha avuto l’onore di vedersi concessa un’intervista da un Premio Nobel nell’eremo della propria isola. Conversazione continuamente interrotta tra i dissapori dei due affabulatori. Persino inframmezzata da qualche colpo di pistola. Il dialogo non procede se non tra sussulti, equivoci e incomprensioni. Ma le parole con cui si chiude la prima scansione sono propedeutiche alla forte accensione e ripartenza della seconda. L’affiatato connubio Mauri-Sturno mette in campo tutta la propria sinergia empatico-mimetica e il dramma deflagra. Ci basti dire che sullo sfondo c’è l’ologramma di una donna misteriosa, sospesa tra i due, a vario titolo. Una seducente esplosione di virtualità campeggia accanto al reale e all’esistente vibrante della discussione. Sprazzi di volgarità, di solidarietà, con qualche intemperanza verbale. I due alla fine non saranno mai stati così unito e, contemporaneamente divisi. Chi vedrà lo spettacolo potrà capirci. E il titolo, che corrisponde al plot, è un riff musicale che ogni tanto viene acceso e riprodotto in scena. I giochi a due sono i preferiti di Schmitt anche se questa volta i protagonisti sono uomini e la comparsa sullo sfondo la donna che è il tramite della coppia, peraltro non sospetta di pulsioni omosessuali.

data di pubblicazione:12/03/2022


Il nostro voto:

M, IL FIGLIO DEL SECOLO – uno spettacolo di Massimo Popolizio tratto dal romanzo di Antonio Scurati, collaborazione alla drammaturgia di Lorenzo Pavolini

M, IL FIGLIO DEL SECOLO – uno spettacolo di Massimo Popolizio tratto dal romanzo di Antonio Scurati, collaborazione alla drammaturgia di Lorenzo Pavolini

(Teatro Argentina – Roma, 4 marzo/3 aprile 2022)

Ambiziosissimo tentativo di riassunto di un romanzo fluviale in trenta tableaux d’epoca. Scenografia senza risparmio con generosa prestazione di un irripetibile cast di 18 attori più una ventina di figuranti.

 

Un plauso al coraggio per il tentativo di un’opera difficilmente traducibile. Chi si tuffa nell’impresa va lodato, compresi gli spettatori per tre ore di messinscena con un secondo tempo decisamente più adrenalinico rispetto al primo di sostanziale preparazione. Gavetta, preparazione e presa del potere di Mussolini fino all’altezza del conflittuale assassinio di Matteotti che getta un’ombra pesante sulla sua legittimità. Quadri garbati e significativi di un’epoca con risorse a filmati, immagini, acute caratterizzazioni di D’Annunzio, Sarfatti, Balbo, Bombacci. Spettacolo che non può dire tutto ma fa scelte decise e riassunti con una capacità di captatio visiva notevole. Chiarito il contesto, inevitabile che predominino i sovratoni più che i dialoghi, l’assertività più che la dialettica tra i personaggi anche se il botta e risposta con Nenni è notevole. Però se il teatro è sviluppo di contraddizioni Popolizio non manca il bersaglio. Il suo Mussolini è più invasivo diretto, spietato rispetto alla relativa pacatezza del Duce di Ragno, più riflessivo, introiettato, incline alla malinconia. Popolizio restituisce la durezza e la crudeltà di un regime che, impostosi inizialmente per via elettorale, non tarda a confermarsi con violenze mortali e con scorciatoie umilianti, come l’utilizzo schernente dell’olio di ricino. Fuor di retorica la descrizione di un’Italia che fu, a tratti Italietta ma con un consenso inquietante. Quando c’è l’occasione per disarcionare Mussolini il Parlamento eloquentemente tace spalanco gli argini alle scelte al disastro che seguirà. Con le leggi razziali e l’adesione al diktat invasivo di Hitler.

data di pubblicazione:09/03/2022


Il nostro voto: