TRADIMENTI di Harold Pinter, con Stefano Braschi, Stefania Medri e Michele Sinisi, regia di Michele Sinisi, scene di Federico Biancalani

TRADIMENTI di Harold Pinter, con Stefano Braschi, Stefania Medri e Michele Sinisi, regia di Michele Sinisi, scene di Federico Biancalani

(Teatro Basilica di Roma, 1/11 dicembre 2022)

I tradimenti di Pinter nel fedele tradimento (ossimoro) di Sinisi. Ardita e felice rivisitazione di un quasi classico del teatro inglese. Perfetta sinergia del trittico attoriale e le sorprese in scena non mancano nel sobrio fondale del teatro. Tipo polli in cottura con la fiamma ossidrica e metaforica polvere a indicare la consunzione di un rapporto.

 

 

Nel teatro di parola e di conflitto la fondamentale presenza del silenzio. Attimi interminabili che fissano il gioco a tre. Abolita ogni pretesa di perfetta cronologia nel’arco di un decennio si sviluppa l’amicizia e il disvelamento di un tradimento. Notizia non così misteriosa sulla cui genesi ballano quattro anni. L’amante è incupito e perplesso, il tradito si macera dentro, non la da a vedere la sofferenza, spara parole con impressionante velocità. E la concupita tra i due, tra un viaggio in Italia con il marito nella mitizzata Torcello (e qualche acidula notazione sul carattere degli italiani) si barcamena con i routiniari pomeriggi di libero amore con l’amante in un appartamento che non riesce a diventare casa. In Inghilterra e nello spettacolo si beve molto, anzi quasi non si riesce a vivere l’emotività se non con un ingrediente alcoolico che in questo caso nella finzione è prosecco. La Medri strabilia da provetta ballerina rock (Madonna, Clash, The Cure, etc) in un siparietto con alcune delle hit di quegli anni a ritmi da discoteca, perfetta danseuse mentre l’amante, che si è dichiarato da ubriaco e proprio il giorno del matrimonio del suo migliore amico (ha fatto il testimone) si compiace a guardarla. Il tradimento come frattura, iato, strappo, Buffo pensare che la data di partenza è ’68 mentre il capolinea è il ’77. Numeri casuali? Nei settanta minuti di svolgimento una scena di grande simulata violenza. Il marito prende a calci la moglie con efferatezza. Spettacolo che scuote con parole e azioni, quasi una frustata scenica.

data di pubblicazione:11/12/2022


Il nostro voto:

IL MALATO IMMAGINARIO di Molière, adattamento e regia di Guglielmo Ferro con Emilio Solfrizzi

IL MALATO IMMAGINARIO di Molière, adattamento e regia di Guglielmo Ferro con Emilio Solfrizzi

(Teatro Quirino di Roma, 6/11 dicembre 2022)

Un evegreen che non tramonta che si riaffaccia a grande richiesta in una sala piena e plaudente. Trascinante Solfrizzi che non prevarica i compagni di una scena ricca e non priva di sorprese.

Argante è il malato molto immaginario che deve sistemare la figlia. La malattia prende il sopravvento all’inizio e alla fine come scioglimento e possibile rimedio filosofico nella scappatoia del cura te ipsum. Ma in mezzo c’è la tradizionale vicenda amorosa. Un impossibile matrimonio combinato per forza salta in aria come tutta la concatenazione degli affetti familiari. Quando Argante si finge morto si vede tutto l’interesse delle moglie matrigna e, come contraltare, il sincero affetto della figlia, destinata al convento per aver rifiutato il giusto marito. Ecco che Argante esce dalla preoccupazione dei propri mali, si ravvede e torna umano, spinto dalla lucidità del fratello. Costumi d’epoca, prendendo in giro lo stesso Molière che si auto-crocifigge ironicamente nel testo recitato. Solfrizzi è bravo nel mutare colorazione in capo a due tempi equilibrati. E il logico happy end è sfumato quando il protagonista rimane solo e può tirare un punto a capo sulla complessa vicenda che lo ha riguardato. La malattia è una via di fuga per non affrontare problemi reali. Ma quando questi ultimi saranno affrontati di petto anche la malattia inventata diventerà un rebus risolvibile. Si ride, si pensa, si medita con un testo che ha solo bisogno di un’adeguata spolveratina ma che non viene mai banalmente virato sull’attualità. L’autore lo ha scritto per se stesso e Solfrizzi si fonde nei panni dell’autore francese. Overdose di clisteri non mostrati per una malattia che è tutto e niente insieme, come i possibili rimedi adottati da medici fanfaroni. C’è lo spirito del tempo ma anche un sentore del tempo nuovo.

data di pubblicazione:07/12/2022


Il nostro voto:

BENTIVOGLIO LEGGE FLAIANO, da La solitudine del satiro, in collborazione con Bubba Music, suoni e atmosfere a cura di Ferruccio Spinetti

BENTIVOGLIO LEGGE FLAIANO, da La solitudine del satiro, in collborazione con Bubba Music, suoni e atmosfere a cura di Ferruccio Spinetti

(Teatro Palladium – Roma, 4 dicembre 2022)

Nel cinquantennale della morte un corrosivo omaggio al cittadino di Montesacro, abruzzese inurbato a Roma. Teatro pieno, dieci minuti di applausi a un protagonista decisamente poco espansivo.

Flaiano non è solo il mago degli aforismi. Tieni a stento il paragone umoristico con Campanile. Una solida infrastruttura di pensiero sorregge le divagazioni satiresche che Bentivoglio, utilizzando tutte la capacità di relazionarsi con il microfono, valorizza anche nell’esibizione romana in capo a una fortunata tournèe. Non ricordiamo tanti applausi per un reading. Dieci minuti ininterrotti a prolungare la magia di 75 minuti di intense letture con alcuni punti forti e altri meno intensi (lo si capisce dalla scarsa reattività del pubblico a intuire la fine e, di conseguenza, ad applaudire). Platea radical chic (dalla Comencini in giù) con spruzzi di intellighentzia Ma ne valeva la pena per riscoprire la modernità intatta di valutazioni che hanno almeno sessanta anni. L’uggia per Roma, per l’immutato carattere italiano da parte di uno scrittore di un solo romanzo, di tante sceneggiature, di un enorme mare di scritti. L’arcipelago Flaiano qui viene parzialmente circumnavigato documentando che per i nostri connazionali la linea che collega due punti non è lineare ma è un infinito arabesco. L’anniversario, messo in ombra da quello di Pasolini, conosce un colpo d’ala prima della fine dell’anno. Un po’ in ombra la parte di Ferruccio Spinetti, componente degli Avion travel. Contrappunti e sottofondi senza mai essere nominato dal partner amico. E quando i due escono di scena si attende invano un bis. Inusitato ma certamente possibile anche all’interno di un felice reading. All’uscita clima salottiero da dibattito per contenuti che non lasciano certo indifferenti in una città sempre più cupa, imbruttita e scostante, anche sotto Natale.

data di pubblicazione:05/12/2022


Il nostro voto:

QUE SERA di Roberta Skerl, con Paolo Triestino, Edy Angelillo, Emanuele Barresi, scene Francesco Montanaro, regia di Paolo Triestino

QUE SERA di Roberta Skerl, con Paolo Triestino, Edy Angelillo, Emanuele Barresi, scene Francesco Montanaro, regia di Paolo Triestino

(Teatro Manzoni – Roma, 10/27 novembre 2022, poi in tournèe a Catania)

Un delicato e non malizioso mènage a trois amicale con sullo sfondo il fine vita. Cortocircuito drammaturgico efficace reso con trasparenza e umanità da attori molto affiatati.

Due volte risuonano in scena le note della popolare canzone che offre il titolo alla piece. La canta Paolo Triestino e poi va in loop l’originale con adeguato arrangiamento. Nel titolo sta un’ipotesi sul futuro, quanto mai inquietante per tutte l’umanità, negli anni del Covid e della guerra ucraina. Ma in questo caso particolare per un trio di amici che passano di botto dei pensieri ordinari delle normali preoccupazioni familiari e/o lavorative, alla rivelazione del padrone di casa di una malattia incurabile. Un disvelamento improvviso, traumatico, torrenziale di fronte al quale i due reagiscono differentemente con i mezzi emotivi a loro disposizione. Ovvio che ci sia in ballo l’amicizia, la solidarietà, la richiesta di aiuto che va a toccare le corde più riposte della loro interconnessione pluriennale. Gli attori campeggiano alla grande con invidiabile sinergia. Paolo Triestino, dopo l’avvio in sordina, richiesto dal copione, porta la contraddizione e il conflitto in scena con sfumature d’umore pregevoli. Edy Angelilo regge magnificamente la parte dell’amica piacente, agè, ma disponibile mentre Emanuele Barresi con i suoi toscanismi, i suoi lazzi, è quello che, soprattutto nella prima parte, regala allegri e battute. Sala piena in capo a ben 17 giorni di esibizioni nell’affollato teatro romano caro alla terza età, spesso con doppio turno per uno spettacolo collaudato nel piccolo teatro di Carbognano e che ora gira l’Italia. Triestino dopo il divorzio con Pistoia è più pimpante che mai e dimostra con grande maestria anche nel padroneggiare la regia oltre che la propria parte, alle prese con un tema scomodo ma di estrema attualità.

data di pubblicazione:28/11/2022


Il nostro voto:

DI PIETRE E DI ROSE, uno spettacolo dedicato a Pier Paolo Pasolini, da un’idea di Luciana Lusso Roveto e Paola Maffioletti, creografia e regia di Paola Maffioletti

DI PIETRE E DI ROSE, uno spettacolo dedicato a Pier Paolo Pasolini, da un’idea di Luciana Lusso Roveto e Paola Maffioletti, creografia e regia di Paola Maffioletti

(Teatro di Villa Lazzaroni – Roma, 4/6 novembre 2022)

Un ennesimo intenso omaggio a Pasolini metabolizzato attraverso le tre icone femminili della sua vita, la madre Susanna, la cantora Laura Betti e la divina Callas.

Uno spettacolo coraggioso nel tentativo sincretico di unire il teatro danza alla parola. Diremo che in un confronto vince nettamente la prima espressione anche se la seconda conduce una sfida serrata con alcuni squarci lirici che sono parole (e sangue) del poeta o della sua affezionatissima genitrice. Le tre attrici si spremono senza risparmio davanti a un pubblico che sembra intuire l’arduo compito espressionista. Scenografia e abiti indicano un continuo mettere e levare. L’irrequietezza della Betti, la classicità della cantante conosciuta sul set di Medea e l’amore materno della madre sono tre immagini ben caratterizzate, unite da un difficile tentativo di dialogo. Evidentemente la narrazione è per bozzetti e non può addentrarsi in un linguaggio compiuto. Originale lo straniamento pasoliniano incarnato da una cantante ben mascherata i cui panni di genere in avvio non sono di facile interpretazione. Un teatro di immagine più che di parola, che suggestiona, a tratti strega. L’invasione degli spazi delle tre donne è la metafora dialettica del tentativo di riannodarsi a Pasolini. Un’utopia forse visto che il poeta aveva contemporaneamente vicinanza e distanza dal trittico. Lo spettacolo enuclea il femminile che era contenuto nello scrittore scomparso, ne denuncia la disperata vitalità. Un amore per la vita che alla fine è vizio, dannazione e che evoca la sua tragica fine. In fondo ostinatamente cercata. Uno spettacolo che è un tentativo originale e sofferto di produrre la consistenza della parola scritta attraverso il movimento, il conflitto e la diversità dei caratteri. All’ultima replica ha assistito plaudente Giuliana De Sio.

data di pubblicazione:07/11/2022


Il nostro voto: