da Daniele Poto | Gen 19, 2023
(Teatro Argentina – Roma, 17/29 gennaio 2023)
Il crudo apocalittico sguardo distruttore di Bernhard filtrato dalla sensibilità della più anziana ma non doma coppia teatrale della scena. Pessimismo cosmico, strali sulla realtà. Irrecuperabile un senso logico della vita.
Glauco Mauri a 92 anni ha ancora la tensione di mettersi in gioco sul testo di uno dei drammaturghi più vicini alle sue corde. Con l’umiltà di debuttare ad Acquapendente per poi scendere a Roma. Mestiere ed esperienza non mancano nella scansione a due tempi, personalizzata a misura dei due soci. Sturno interpreta un riformatore che monologa in attesa di ricevere una laurea honoris causa contraddittoria che gli riconosce i meriti di una tesi che lui stesso nel contesto distrugge alla radice. Vistose ipocondrie e stalking nei confronti della moglie ridotta a poco più di una cameriera e inserviente. La cerimonia sarà preparata nei minimi particolari secondo il suo spirito programmatico ma il discorso radicale che accompagnerà la proclamazione sarà la negazione radicale di ogni possibile riconoscimento in un flusso delirante la cui logica invano si appiglia a Voltaire Pascal, Montaigne, i filosi citati. Né meno pessimistica è la scansione del secondo tempo a misura di un Mauri la cui energia scenica è ovviamente in calando. Lo sfogo è di un attore in declino, il mitico Minetti, che si riaffaccia al teatro dopo trenta anni rievocando antichi successi e catastrofiche cadute. Accanto a lui si affastellano fantasmi e solitudini a significare il suo tragico stato di isolamento che è un po’ la metafora del tentativo intellettuale di riuscire a decifrare la realtà. Inguaribili misantropi o spietati e realisti profeti di realtà? Certo, l’opera ha l’effetto di una doccia fredda sullo spettatore, una energica spruzzata di cinismo. Tra l’altro nel testo si discetta su una Roma ripugnante e su un orribile Svizzera, destando qualche sorrisino in platea.
data di pubblicazione:19/01/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 17, 2023
(Teatro Vascello di Roma, serata unica, 16 gennaio 2023)
Si fa presto a dire reading. Qui c’è qualcosa in più oltre alla memoria dei Verdastro: le percussioni creative di Canale, i movimenti di scena, la magica atmosfera di un teatro sempre gremito.
Spettacolo breve, intenso, tagliante ad alta tensione emotiva. La “ninna nanna” conclusiva, cara a Trilussa, che è quasi un anticipato bis, è la negazione del tema della guerra che risuona quanto mai attuale quando ci si avvia verso il triste anniversario del primo anno di conflitto ucraino. La dissacrante voce del Belli trova un microfono duttile in un set non occasionale. I palpiti del teatro non dormono mai, neanche il lunedì, quando c’è una voce forte e ispirata che rianima la memoria di un poeta che è vanto dell’Italia e non solo di Roma nell’universalità del suo messaggio spesso dissacrante, fieramente laico. Verdastro è rapito e rapisce non mancando di inserire una frecciata contro il malcapitato che, per un evidentemente insopprimibile bisogno, accende il telefonino nel climax della performance. Belli sul piano più alto della critica, Trilussa leggermente più in basso, ma comunque uniti e sinergici nel far ascendere il dialetto romanesco verso l’accezione di lingua vera e propria. Verdastro coadiuva le percussioni con leggeri passi di danza mostrando lo spessore della preparazione. C’è un carattere didattico oltre che artistico nell’esibizione che dovrebbe avere un valore anche per le scuole, travalicando il peso del linguaggio franco che qualche benestante definirebbe scurrile. Ma è un eccesso retorico che conferisce forza soprattutto quando vengono rivisitati con acutezza narrazioni bibliche come il sacrificio di Isacco. La poesia, la danza, la musica, la parola al centro del teatro senza che nessuna di queste prenda il sopravvento.
data di pubblicazione:17/01/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 14, 2023
(Teatro Basilica di Roma, 10/15 gennaio 2023)
Una strada è il riflesso del cambiamento. Gli artigiani che diventano supermercati, riferimenti precisi si trasformano in non luoghi. Un outing calabrese con valore universale.
Il giovane La Ruina scende dal Pollino a Castrovillari e con il pretesto di un apparente apologo ci racconta le trasformazioni di una società non solo calabrese. All’inizio sembra l’inurbamento in una metropoli, poi progressivamente tutto prende contorni familiari. I negozianti hanno un soprannome, il bar di famiglia dopo le iniziali difficoltà funziona e si ha un solo lontano sentore della ‘ndrangheta. Il raccontatore è un bravo affabulatore che non cerca facili effetti nella risata ma semmai smuove per tutti i 90’ minuti del racconto un quieto e partecipato sorriso tanto che alla fine quasi ti sembra di far parte della sua di famiglia. Scena spoglia, atta simboleggiare una via dello struscio che può essere percorsa in due o in trenta minuti e in cui pulsa il cuore di una cittadina a cui non manca niente per essere vista dagli occhi del provinciale come una piccola capitale. L’autore si abbandona a un dialetto comprensibilissimo e smuove emotività sopite. E nel racconto passano affetti familiari, bozzetti regionali, un percorso di crescita e di formazione che contiene le basi personali dell’attuale presente ma, fuori dall’individualismo, anche un pezzo di storia d’Italia con la sensibilizzazione politica, le Brigate Rosse, l’affrancamento dalla Calabria. Nostalgia, rimpianto ma anche realismo nel giudicare i limiti di una percezione. Il teatro di La Ruina è pacato, sensibile e l’idea nella sua originalità logistica funziona. Davvero in quei duecento metri di percorso si riflette vita e limiti di quella comunità. Struggente e fotografica la descrizione dei genitori riflessa da quel ragazzo-autore di cinquanta anni fa.
data di pubblicazione:14/01/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 12, 2023
(Teatro Argentina – Roma, 10/15 gennaio 2023)
Un grande affresco corale che non tradisce La Capria ma lo adatta con coraggiose soluzioni sceniche. E chissà che Andò non pensi anche a trarne un film dopo questo fortunata interpretazione, ricambiata da un costante tutto esaurito di un pubblico plaudente.
Un capolavoro epocale del 1961 (Premio Strega) che presentava non trascurabili problemi di messa inscena per un racconto spezzato, asincrono. Si tratta di restituire un mood e un’atmosfera e dunque azzardare una scommessa. Si propone felicemente il clima di amicizia di una generazione di benestanti napoletani, immersi nel liquido amniotico dell’acqua, terreno delle loro scorribande (anche amorose), della vita di circolo, dei debiti di gioco, del chiacchiericcio, di una Napoli fortemente annusata, insieme amata e detestata. Napoli ti ferisce a morte dicono in coro molti dei protagonisti. Il raccordo funzionale avviene nella seconda parte quando tutti interagiscono in un’idea tavola imbandita ma ognuno seduto a debita distanza dall’altro. Il tempo passa. C’è chi si trasferisce a Milano, chi a Roma, i legami si allentano a denotare lo scorrere del tempo. Dal dopoguerra all’atmosfera degli anni ’50, i prodromi del boom. Arco temporale di undici anni. E non è la più stessa cosa. Il fervore declina in malinconia, la nostalgia per qualcosa che si è perso. Uno splendido lavoro corale per 16 attori con grande uso di scenografie mirate e brillanti, a tratti luccicanti. Polifonie di storie, incastri, di una Napoli borghese immersa in un grande affresco collettivo. Un fondale per una Napoli libera ma insieme oppressiva che va verso un progressivo disfacimento e verso una totale perdita di valori. Con il soggetto femminile spesso ridotto a comparsa. Ma un Titanic senza drammi che sbatte contro l’iceberg metaforico mentre l’orchestrina di bordo continua a suonare.
data di pubblicazione:12/01/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Gen 11, 2023
Una storia nera che si fa sempre più torbida con il passare dei minuti. Reticolo di bugie, di mancate rivelazioni, di doppi giochi secondo uno stile di racconto molto francese. Solo che a furia diversivi il film si perde e rivela una sostanziale mancanza di profondità.
Un plot che fa pensare a Patricia Highsmith e a L’Amico Americano ma anche a Chabrol. Un furto d‘identità nel sogno di ascesa sociale di una parvenue impiegata in un’azienda di congelati di pesce. Mette in piedi un piano diabolico nel segno di Chabrol per il quale è necessaria la massima disponibilità alla verosimiglianza dello spettatore. È davvero così facile riprodurre una carta d’identità falsa quando in circolazione ce n’è un’altra, dell’intestataria originale, identica? La pellicola si affida a una serie random di colpi di scena ma calca troppo la mano sul continuo rovesciamento di piani fino a far sorgere una domanda spontanea: ma in quella famiglia chi è davvero il più cinico?. Eppure basterebbe cambiare l’articolo del titolo per ricondurci nel vivo di una pellicola scollacciata all’italiana. Ma quello vero (L’origin du mal) non sarebbe stato troppo invitante per il pubblico italiano. Film di nicchia e in parte di genere che può trovate estimatori senza attendersi risultati sensazionali al box office. Il nido di vipere o il conglomerato di parenti serpenti è vivo solo in ragione dei soldi e dell’eredità. Non cederemo alla tentazione dello spoiler ma ci saremmo volentieri risparmiati le colluttazioni finali per una conclusione più fine, psicologica e aperta. Non sarà happy end, almeno questo possiamo scriverlo. Cast molto omogeneo e sinergico. C’è fantasia, creatività di sceneggiatura, manca l’esprit de finesse di un tocco leggero e d’autore. Scenario molto francese con frequenti andirivieni dall’isola turistica di Porquerolles.
data di pubblicazione:11/01/2023
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