da Daniele Poto | Ott 18, 2024
regia di Massimo Navone
(Teatro De’ Servi – Roma, 15/18 ottobre 2024)
Auto-ironica esposizione impudica della comica cinquantenne che cerca collocazione con umiltà sul palcoscenico di un teatro che di questo repertorio fa il suo punto di forza. Lei dissimula l’atteggiamento mostrandosi Dio. Un Dio al femminile, trasformazione che già fa scalpore. Divinità che si lamenta degli uomini e del triste andazzo del pianeta, fatto di guerre e di sordi rancori oltre a patire gli sconvolgimenti del cambiamento climatico..
Sintonizzata su un trend che a tratti ricorda Franca Valeri, a tratti Francesca Reggiani, Grimalda si auto-gestisce supportata da una regia discreta ma efficiente (pochi effetti e non speciali) per un pubblico di netta maggioranza femminile. Il suo impegno e la sua recitazione sono mediamente superiori alla qualità del testo che fa spendere più spesso sorrisi che franche risate. Ma l’attrice tiene con disinvoltura la scena abbandonando nella parte centrale l’impegnativo ruolo di Dio per una serie di sketch di varia natura dove è essa stessa ma diversa con una piccola trasformazione nella mise e nella gestione del corpo. Non una stand up comedy ma quasi tutto il meglio di Emanuela Grimalda, comica outsider e underdog che raramente delude e che, per la difficoltà di trovare un inserimento coerente con la sua comicità in una compagnia stabile, ha deciso di fare tutto da sola. I personaggi evocati sono cinque e, tutti matti e disperatissimi, cercano una improbabile via d’uscita per svoltare nella vita. E il Dio è originale, in grado di cambiare galassie e di preparare ottimi tiramisù. Domanda non retorica d’obbligo: ma se il Diavolo veste Prada, Dio cosa si deve mettere addosso? Risate che mirano alla testa più che alla pancia del pubblico. Difatti qualcuna giunge a segno con ritardo.
data di pubblicazione:18/10/2024
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 16, 2024
Le scaturigini dell’imprevedibile candidato alla Casa Bianca. Così fedele da apparire quasi un docufilm. La contropartita è la mancanza di profondità estetica del regista iraniano convertito a un prodotto di largo consumo e di probabile successo. Girato con ritmo adrenalinico di stampo americano. All’inizio della parabola Trump è una via di mezzo tra Robert Redford e Van Morrison. Molti trapianti fa.
Il film punta sul rapporto funzionale e ambiguo tra il tycoon e l’avvocato Roy Marcus Kohn, artefice delle più spregiudicate e borderline operazioni di accreditamento del magnate nella high society americana. L’ingenuo imprenditore si fa progressivamente più furbo e, sulla base dell’enorme impero del padre, comincia a costruire tasselli dell’impero attuale. Il maxi-albergo restaurato da 1.600 camere e poi la diversione sull’industria del gioco ad Atlantic City. Il legame con Ivana-Ivanka che progressivamente diventa solo un viso e un corpo da esibire nelle grandi occasioni. Delle successive e numerosi mogli non si parla. Ma il focus sta nel tattico e strategico distacco da Kohn, l’uomo che fece condannare i Rosenberg alla sedia elettrica e che prestò il fianco in tribunale alla crociata anticomunista del senatore McCarthy. Trump fa i conti con i debiti, evita come la peste le tasse. Impone quella che definisce la legge del killer (mors tua vita mea), fa della bugia la cifra dialettica della propria esistenza e non ammette mai la sconfitta anche quando questa si presenta clamorosa nella propria evidenza. E mette all’angolo Kohn quando questi non gli servirà più. Perché Kohn è radiato dall’albo degli avvocati, è omosessuale e morirà di Aids che in quegli anni falcidia una generazione senza protezione. L’opera è uno specchio sull’America e sulle sue contraddizioni e degenerazioni. Senza moralismi e puerili giustificazioni.
data di pubblicazione:16/10/2024
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 14, 2024
Non suoni auto-ironico il titolo. L’inganno non è portato al cuore e alle emozioni degli utenti per una delle rarissima produzioni Netflix in versione italiana. Classificata al rango n. 2 tra le serie più viste, esportata massicciamente all’estero per il probabile raccapriccio di Nanni Moretti, incentra il focus sulla figura di Guerritore nei panni di una sessantenne.
Le telenovele sono fatte di ingredienti. Quelli che su cui il Trio esercitava le sue riletture. L’input di partenza appare stimolante: l’amore (interessato, pare) tra un trentenne e una sessantenne. Guerritore non esita a esporre impudicamente il suo corpo che appare in condizioni migliori del viso tormentato. Si spoglia a profusione senza nascondere nulla e senza ricorrere alla controfigura. Il valore della recitazione corale si appoggia tutto su di lei perché il resto del cast, regia compresa, assolve un compitino striminzito. Ma a lungo andare l’esuberanza dei personaggi, il ricorso alle cartoline campane (Cilento e Amalfi) è il troppo che stroppia e che fa prendere alla serie l’andamento già adombrato di una telenovela. Non manca nulla: le storie gay, la donna incinta con un padre riluttante, i tradimenti assortiti (non drammatizziamo, è solo questione di corna, banalizzando Truffaut). Allungando il brodo alla fine si perviene all’happy end e alla completa riconciliazione familiare. Personaggi che si odiavano si abbracciano ed è tutto risolto con buona pace dei Tribunali e della Polizia nel virtuale omaggio ai valori della famiglia. Nel montaggio particolari inspiegabili. Quando il trentenne amante dal fisico culturista parte in missione con la barca nessuno spiega il motivo del suo inopinato ritorno. Non bisogna farsi troppe domande per un prodotto seriale che piace. Del resto se Temptation’s Island è in testa agli indici di ascolto un motivo esiziale nel gusto degli italiani sarà pure possibile trovarlo. La location di un lussuoso albergo ammortizza i costi.
data di pubblicazione:14/10/2024
da Daniele Poto | Ott 11, 2024
tratto dal romanzo Immer Noch Sturm di Peter Handke, regia di Claudio Puglisi
(Teatro Ateneo presso Università di Roma, 10/11 ottobre 2024)
Echi di seconda guerra mondiale in quella che fu la Jugoslavia. Rimbalzando tra Germania, Austria e Slovenia, riti pastorali, partigiani, lutti, conflitti di famiglia, i rifugi e menù balcanici. Un ensemble navigato e gioioso per tradurre un testo non facile, ricco di asperità, di accelerazioni e improvvisi compiacimenti. Nel segno della rinnovata stagione del Teatro Ateneo, colmo fino all’inverosimile.
Nel luogo caro a Ferruccio Marotti, dove Eduardo De Filippo mise disposizione la sua pazienza per i seminari con gli studenti, dove Carmelo Bene e Vittorio Gassman battibeccarono sulla mission del teatro (e il secondo, piccato, abbandonò proditoriamente il tavolo degli oratori), dove vivemmo un seminario brechtiano diretto da Benno Besson e gestito molti esami, un avvio di stagione promettente. Scelta non facile pescando un testo di Handke supportato con perizia da un eccellente sinergia di compagnia. Prima parte andante mossa, seconda più meditativa Questo teatro è stato definito dall’autore onirodramma ovvero “scrittura drammatica fondata sulla condizione dell’anima”. Sperimentazione nel sogno con frequenti sbalzi emotivi: grida, risa e pianto. Al centro un’identità che si va perdendo nei marosi della guerra, Il sottofondo della necessaria pace è alla base dell’attualità della proposta. Il titolo originale è “Ancora tempesta” ma si tratta di un libro mai tradotto in italiano. Assortiti sottofondi musicali dal vivo accompagnano la narrazione. Un legame dello spettacolo con le teoria di Steiner. Infatti poco ore dopo un intenso seminario steineriano ha animato lo stesso luogo per la cura di Elena Bellavia, Marina Censori e Marialucia Carones Nella promettente stagione sperimentale, un assoluto titolo gratuito (novità per Roma) seguiranno le proposte di Gabriele Vacis, Emio Greco, Pieter Scholten, Andrea Cosentino e Claudia Castellucci.
data di pubblicazione:11/10/2024
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 9, 2024
Federico Vitella ha scritto un libro che approfondisce un aspetto del divismo italiano a cavallo tra gli anni ’50 e ’60. Quando la presunta rivalità tra Sofia Loren e Gina Lollobrigida stuzzicò la fantasia dei produttori creando delle star sul modello americano ma con una specificità tutta nostrana. Si scopre che la parola “maggiorate” nasce da un equivoco perché le primattrici non erano tutte signorine grandi forme. A esempio Gina Lollobrigida era piuttosto minuta e valorizzata semmai da reggiseni imponenti. Sulla scia di questo binomio anche Silvana Pampanini, Silvana Mangano e Marisa Allasio, coltivarono una propria robusta popolarità lasciandosi dietro incompiute come Cosetta Greco e Gianna Maria Canale. Era un’epopea di un cinema fiorente e tutt’altro che in stato di crisi. Basti pensare che nel 1955 vennero staccati più di ottocento milioni di biglietti nelle sale mentre il rendiconto del’attualissimo 2023 si ferma ad appena 50. Era un’Italia del dopoguerra che andava spesso e volentieri al cinema quando la televisione (prime immagini nel 1954) non si era ancora compiutamente affermata con un’ampia diffusione nelle case degli italiani. E le maggiorate coltivavano una fama che superava anche i confini di Chiasso, complici gli Oscar e film non disprezzabili girati all’estero. Poi negli anni ’70 gli uomini si sarebbero presi la rivincita. Perché dopo le ultime fiammate del neorealismo irrompono gli assi della commedia all’italiana: Gassmann, Manfredi, Tognazzi, Sordi e, sul versante drammatico, Mastroianni. Ma alcuni di loro sposano artisticamente le maggiorate. È il caso di Mastroianni che in un certo modo, generazionalmente, succede a Vittorio De Sica, girando ben 13 film accanto a Sofia Loren. Vitella meritoriamente ci restituisce un trend con una pubblicazione che è insieme un saggio accademico ma anche una facile lettura per appassionati del genere. Una bella silloge di illustrazioni completa l’opera.
data di pubblicazione:09/10/2024
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