da Daniele Poto | Feb 23, 2023
Dieci anni di preparazione, sedici anni di distanza dall’ultimo film. Due date che fanno intuire l’ambizione di un progetto a completa misura di Kate Blanchett e con orizzonte Oscar. Script troppo vasto per Todd Field che non riesce a dominare la materia del racconto lungo 158 minuti di sviluppo.
Un film seducente che avrà una coda giudiziaria perché c’è chi si è riconosciuto (secondo noi a torto) nel personaggio della direttrice d’orchestra omosessuale che progressivamente s’impantana in una serie di viluppi poco professionali. Un me too alla rovescia secondo le regole del politicamente corretto? Non solo perché i fili che tengono uniti la pellicola per la mirabile interpretazione della protagonista sono molteplici e vanno al di là delle varie attrazioni che sminano l’unità dell’orchestra. C’è il valore della musica con citazioni quasi da specialisti nel mondo di Bach, Beethoven, Mozart ma con un raggio di pensiero assolutamente lontano dalle Prove d’Orchestra felliniana. C’è l’ambizione professionale di una donna dura e caparbia che non s’arresta di fronte a nulla. C’è l’ondivago atteggiamento a cui è portato lo spettatore che alla fine quasi tifa per la sua rinascita, dopo un gorgo inestricabili di contraddizioni che la costringono a lasciare l’importante incarico berlinese. La ricostruzione dell’ambiente di lavoro è impeccabile a suon di citazioni puntuali ma la programmaticità dell’assunto nuoce alla snellezza del racconto. E a un inizio didascalico (un quarto d’ora di brillante intervista, ma da set televisivo) subentra progressivamente la fretta di far precipitare gli eventi con un accumulo di azione probabilmente gratuita. La comunicazione è fredda anche quando vorrebbe essere estremamente emotiva. Il classico film che sarebbe stato migliorato al montaggio da congrui tagli. Ma vale il prezzo del biglietto per le musiche e per la classe della Blanchett in una parte da cinquantenne a pennello per la Meryl Streep di venti anni fa. Field non avrebbe potuto immaginare un film del genere senza il suo eccezionale contributo.
data di pubblicazione:23/02/2023
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da Daniele Poto | Feb 16, 2023
(Teatro Vascello – Roma,8/19 febbraio 2023)
Il teatro tenta l’impresa di misurarsi con l’epocale libro del 1974 e la vince con una solida ricostruzione ellittica. Scenografia di grande suggestione e richiesta drammaturgica anche fisica che conta sull’eccezionale disponibilità degli attori.
Drammaturgia d’autore che si presta anche alla didattica se è vero che il teatro era affollato di liceali, assolutamente pronti alla ricezione del messaggio attraverso due ore di spettacolo teso con almeno cinque punti di suggestivo ed emotivo climax. Partendo da lontano, non tentando neanche lontanamente un approccio omogeneo con il film di Comencini, il plot si snoda precipuamente nella forbice pregna di eventi 1941/19457. In mezzo c’è il fascismo, l’improvvisa conversione del figlio della protagonista (metafora del cambiamento di milioni di italiani): dall’adorazione per il fascismo alla ribellione partigiana. In ordine sparso: il dramma degli ebrei, l’immersione negli stenti della guerra, le sconfitte, l’armistizio, una saga familiare, letta attraverso gli occhi di una donna che cerca di assembleare e gestire la piccola famiglia creata, allargata dopo uno stupro. La scelta evocativa scavalla l’esigenza realistica. Sono simboli cane e gatto, un attore capace e adulto si cala nelle vesti del bambino. Le luci e veloci cambi di scena permettono di sdoppiare le interpretazioni. Dunque uno spettacolo che ha richiesto una lunga gestazione, una Storia lunga e che viene da lontano. L’allocuzione dell’attore che si avvicina al pubblico sembra una riflessione d’attualità sull’eterno fascismo (tesi di Umberto Eco), mai scacciato definitivamente dal popolo italiano. Una Storia nuda e cruda che non sembra offrire vie di fuga e anticipate salvezze e dunque non contiene alcun palpito moralistico e sembra proporre allo spettatore la richiesta di risposte possibili e plausibili. Spettacolo di contenuti forti e di forma scenica ineccepibile. Coraggioso anche nella lunghezza (due ore) senza la pretesa di restituire tutti i particolari del complesso poliforme mosaico creato dalla Morante.
data di pubblicazione:16/02/2023
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da Daniele Poto | Feb 11, 2023
(Teatro India – Roma, 7/12 febbraio 2023)
Teatro nel teatro con un titolo che rimanda al topos scespiriano ma anche edoardiano. Sperando di non farsi suggestionare dai luoghi comuni di Marzullo.
Un attore dedito a una facile commercializzazione del proprio lavoro si confronta con due interlocutori irrisolti: la figlia che rimprovera al padre l’abbandono, l’allievo che si specchia con ammirazione nel maestro e cerca di ripercorrerne le orme, provando a instaurare un rapporto dialettico, a tratti paritario. In scena non tutte le ciambelle riescono con il buco. La scenografia minimale a disposizione dell’indubbia bravura di Carpentieri non raccoglie palpiti perché i due partner non reggono il gioco con adeguata maestria. L’attrice sfoggia una voce metallicamente monocorde che ci impedisce di entrare nella sua sfera emotiva. Così è un’occasione sprecata per tanto talento, Perché quando il protagonista distilla perle del teatro classico quasi spereresti che si abbandonasse a un lunghissimo monologo. Certo, non erano queste le intenzioni di autore e regista che volevano dare vita a una storia compiuta. Il finale tronco e inaspettato è un altro imprevedibile strappo incoerente. Così i dialoghi a volte si animano ma poi ricadono nella piattezza banale non riuscendo a dare continuità allo sviluppo. Stoffa cucita male, un po’ rattoppata all’ombra del mattatore La magia del teatro si annusa a tratti ma non ammalia come ambirebbe nella sua dichiarazione programmatica di scena. Di diverso avviso evidentemente il pubblico stregato dall’indubbio carisma di Carpentieri. Il Teatro India dal giorno dell’apertura si dibatte nella consueta provvisorietà: parcheggio impossibile, bar ai limiti della presentabilità, spazi teatrali non utilizzati, peraltro ben in linea con la fatiscenza di chi lo gestisce (vedi anche stallo del Teatro Valle, molto più funzionale e vivo quando era occupato).
data di pubblicazione:11/02/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 9, 2023
(Teatro Il Parioli Roma, 8/12 febbraio 2023)
Un Cechov scrupolosamente rispettato nella trama ma con la volontà di movimentare la scena con andamento mosso e persino qualche acrobazia. Bizzarrie di scena che non stonano rispetto alla tradizione. Cederna, l’attore di punta è inserito in un ensemble affiatato e di sicura affidabilità.
Il politicamente corretto in chiave bellica non ha tarpato le ali alla proposta cechoviana dell’innovativo teatro di Roma nord. Lo spettacolo restituisce il mood del cambiamento: dalla società agricola che vive sulla rendita a un qualcosa di profondamente diverso che si intuisce ma che non si riesce definire. Al centro delle contraddizioni Zio Vanja (a cui pesa l’incipiente vecchiaia) e una serie di amori frustrati e non corrisposti, sommersi dalla cappa dei matrimoni borghesi naturalmente insoddisfacenti. S’intuisce che molti dei sette personaggi in questione hanno voglia di trasgressione ma la mancata corresponsione decreta uno stato di perenne disagio, Particolarmente vistoso in zio Vanja che prorompe in un tentativo di omicidio dell’odiato professore e poi nell’aspirazione al suicidio tramite una fiala di morfina. Due tempi lunghi il giusto per sfiorare la mezzanotte, avvicinandosi all’abdicazione del pulsare delle passioni che restituisce, con la partenza degli ospiti, un clima di pace e di rassegnazione. Bisogna passare il tempo, trascorrerlo lavorando anche se se Sonja affida su un altalena agli astanti un messaggio profondo di speranza nella religione. Vanja intanto compone i testi di alcune fatture tornando nei ranghi di un’apparente normalità. In fondo lo spettacolo è la metafora di come una passione si ridimensioni nella normalità, spenta dal lento digradare dell’esistenza. Felicità e un migliore futuro sono indefinitamente lontani. E chissà mai se torneranno, come gli anni della gioventù.
data di pubblicazione:09/02/2023
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 8, 2023
La definizione di thriller sentimentale è la più adatta per l’ennesimo prodotto bizzarro ma interessante della nuova cinematografia coreana, già premiata con Parasite. Ci si deve orizzontare in coordinare spazio temporali insolite per lo spettatore europeo ma con gradevolezza e senza eccessiva fatica.
Un irreprensibile detective cade nella ragnatela di una dark lady, adusa a perdere troppi mariti per non essere sospettata. Dunque la trama poliziesca segue parallelamente la via dei loro intrecci amorosi, anche se ci sono altri uomini e altre donne di mezzo. Il poliziotto ha molti tic ipocondriaci. E’ insonne, ha bisogno continuamente di istillarsi collirio. Lei lo strega con induzioni tipicamente femminili. Naturalmente siamo in Corea del sud e dunque il format è insolito e particolare, non ha lo sviluppo di un plot hollywoodiano. A volte indugia, a volte si perde in un ritmo tutto orientale. Però il regista, sia pure con qualche impaccio, non smarrisce mai la continuità della trama. Che propone risvolti insospettati e disvelamenti imprevedibili. Film fascinoso, con un suo mood particolare. Adatto a essere visto in un primo spettacolo visto che non ha paludamenti spettacolari, effetti speciali o attrattive di facile botteghino. Ma al Festival di Cannes ha incassato il premio della regia, riconoscimento ai suoi indubbi meriti. Di mezzo c’è il mondo degli affari, intrighi transazionali che riguardano anche Cina e Manciuria, un mondo complesso basato su interazioni sentimentali ma anche colossali transazioni economiche. Bravi gli interpreti a disegnare traiettorie di vite opposte: il detective irretito che esce dai binari; la Circe che inizia ad amarlo quando lui ha già smesso. Metafora di una vita che a volte gira perfettamente al contrario. Inizialmente il titolo per la distribuzione italiana era La donna del mistero. Poi si è preferito mantenere il titolo per il mercato in lingua inglese, di meno facile presa.
data di pubblicazione:08/02/2023
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