PAST LIVES di Celine Song, 2024

PAST LIVES di Celine Song, 2024

Una romantica storia d’amore. Quasi un Matarazzo rivisto alla coreana per far capire che siamo dalle parti del mèlo senza dramma. Si potrebbe contare il numero infinitesimale di parole pronunciate nel film dagli scarsi dialoghi per carpire il fascino sottile del non detto.

 

Rituale è il dodici (anni). Due amici quasi fidanzati si rivedono a 24 e poi a 36 anni. Inevitabilmente ogni salto ha uno scatto nelle loro vite senza l’altro. Girovagando tra Seul, Toronto, una New York quasi da cartolina. Tra la cultura tradizionale coreana, la velocità del life style americano, un po’ di ebraismo dell’antagonista maschile. Melting pot da cui si estrae la storia di un rapporto che non sboccia in una relazione per l’asimmetria dei sentimenti. Storia tenera, dai risvolti interessanti al botteghino per l’apprezzamento che gode la cinematografia di questa parte d’Asia nel Vecchio continente (non evidentemente in America). Non ha coraggio di dichiararsi compiutamente il coreano mediaman che invano segue l’amore giovanile mentre lei piano piano declina i sogni di una grande carriera come sceneggiatrice. Un cinema che sa di verità e di scenari già percorsi. Negli scarni dialoghi ogni espressione è significativa e non sprecabile. Non c’è né ambiguità né morbosità nel rapporto sentimentale a tre con un angolo falso. Il momento più imbarazzante della visione è quando il trio converge in un bar e i due coreani si lanciano in un’animata quanto rara discussione, ignorando completamente il terzo ospite a digiuno della lingua parlata. Interminabili attimi vissuti con il cuore in gola per una reazione che non scatta, la massima comprensione per una spiegazione che deve avvenire tra i due irrisolti innamorati. Un film in cui il sottotesto e l’interpretazione è tutto, lasciando una traccia abbastanza profonda nello spettatore per la fascinazione che emana e per il tempo che si prende nella narrazione, uno slow cinema.

data di pubblicazione:28/02/2024


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DUNE PARTE DUE di Denis Villeneuve, 2024

DUNE PARTE DUE di Denis Villeneuve, 2024

Fantasmagorica riproposizione di un film di successo e con un cast e un budget senza pari. Quasi tre ore adrenaliniche con efffetti speciali assicurati per un ovvio atteso riscontro al botteghino. Sviluppi distopici di una trama complicata, a volte involuta, con un sicuro gancio al terzo episodio della serie. Sangue, poco sesso, una colonna sonora incalzante e inquietante.

Tutti gli ingredienti per un film di richiamo, soprattutto negli States ma con ingredienti di spettacolarizzazione globalizzata accettabili in tutto il mondo. Nel tempo della realtà deformata e dell’intelligenza artificiale l’umano troppo umano del film si ridimensiona perché nelle scene di maggior pathos si duella ancora con la spada, come nel Medioevo. Chiara distinzione tra buoni e cattivi che sfuma in contorni meno manichei nel finale. Sembra che non si possa fare un film senza la presenza di Chamalet (in Italia di Stefano Fresi) ma il contorno degli antagonisti/protagonisti è imponente, alcuni davvero irriconoscibili come Charlotte Rampling. Villeneuve non si lascia sfuggire l’occasione di girare in grande. Le scene di massa sono portentose e nella creazione artigianale il regista conta su un ensemble di prestigio con le presenze fondamentali del direttore della fotografia, del costumista e del supervisore agli effetti visivi, assemblati per l’ottimizzazione in fase di montaggio. Trama quasi irraccontabile. Il cine Bignami si limita a citare il mitico viaggio di Paul Atreides che si unisce a Chani e ai Fremen per cercare di vendicare chi ha sterminato la propria famiglia. Posto di fronte alla scelta tra l’amore e il destino dell’universo il protagonista intraprende la missione profetica per evitare la distruzione totale della sua gente. Non sfuggirà il senso blasfemo e un po’ onnivoro di questa filosofia che presuppone un superuomo. I raduni guerreschi alludono alle parate naziste.

data di pubblicazione:27/02/2024


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L’ORA NOSTRA di Sergio Pierattini, regia di Piero Maccarinelli

L’ORA NOSTRA di Sergio Pierattini, regia di Piero Maccarinelli

con Sandra Toffolatti, Emanuele Salce, Claudia Coli, Francesco Bonomo, Noli Sta Isabel

(Teatro Il Parioli – Roma, serata unica, 26 febbraio 2024)

Ultimo dei quattro appuntamenti della rassegna sul teatro non rappresentato. E degno epilogo per qualcosa più di un reading visto il livello degli attori in ballo. Una famiglia si riunisce, si confronta e litiga sulle ceneri della madre morta. Il tema del ritorno a casa, rispettivamente da Milano e dalla Cina, è squassante. Emergono contraddizioni, vezzi, deformazioni borghesi, una patina di evidente disinteresse. La convivenza forzata acuisce le tensioni e mostra un’omogeneità mai raggiunta. Trionfante il filippino che da badante si trasforma nel personaggio principale.

 

Noli Sta Isabel, il filippino erede di un terzo della defunta ultraottantenne, a lei fidanzato rompendo antiche abitudini omosessuali, recitando una parte difficile e scomoda, è il personaggio vincente della serata. Verità e finzione si affastellano perché è il sogno di una vita quella di poter recitare su un palcoscenico così importante e per intercessione convinta dell’autore Pierattini. Scorrono lacrime e applausi a scena aperta per un onesto lavoratore con l’hobby del teatro che dal ruolo di caratterista si erge a protagonista diventando imprenditore dell’azienda della defunta in coppia con il suo ritrovato amore, un altrettanto dinamico rumeno. In fondo la commedia è una graffiante metafora sull’inanità degli italiani rispetto a nazioni più giovani e dinamiche, capaci di evolversi e di raggiungere la piena affermazione sociale. Dopo la parentesi dell’escursione al Teatro Argentina, il Parioli si riprende la titolarità della rassegna che riguarda autori affermati a significare quanto sia difficile per i giovani proporre nuovi testi in assenza di produttori coraggiosi che vogliano rischiare per innovare. Ascoltando Salce come sempre si ripensa a Gassmann e a un’impostazione vocale che non deflette, dall’educazione familiare al teatro. Nel prologo presentato un interessante libro di Paolo Petroni che approfondisce la drammaturgia nostrana sul crinale del secolo.

data di pubblicazione:27/02/2024


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LA ROSA NON CI AMA di Roberto Russo

LA ROSA NON CI AMA di Roberto Russo

con Cloris Brosca e Gianni De Feo, regia di Gianni De Feo

(Teatro Lo Spazio – Roma, 22/25 febbraio 2024)

Il coraggio di puntare sulla ricostruzione di una vicenda del 1590, venendo premiati dall’interesse di un pubblico da tutto esaurito per l’ultima replica in virtù della ragione forte dello spettacolo, della sua abile costruzione e di un automatico passaparola ben predisponente.

Una storia di spada, di ammazzamenti e di quelle che nel passato si sarebbero definite corna. Il tradimento di una moglie può essere vendicato per giusta causa assoldando tre malviventi che si prestino all’agguato. È così che l’illustre Principe Carlo Gesualdo da Venosa, insigne musicista, infierì sul corpo della consorte Maria D’Avalos, sorpresa con premeditazione in colloquio intimo con il suo abituale amante, il Duca D’Andria Fabrizio Carafa. Si gravita attorno a Napoli, al suo idioma musicale condito da punte di spagnolo per la rievocazione del dramma. Tragedia a più voci perché i fantasmi della donna rimproverano al marito la spietatezza della decisione, provocata dal pettegolezzo popolare e da un malinteso senso dell’onore. I due protagonisti, empaticamente efficaci, ricoprono vari ruoli, facce e toni entrando nei panni del confessore, innesco della trama gesuitica, della ruffiana di corte che avvia la rivelazione e dunque provoca il delitto, costretta poi dal tribunale a una puntuale denuncia di quanto accaduto. La Brosca non è più teatralmente una rivelazione per chi la conosce negli antichi panni della chiromante televisiva. Il cubo di Rubik è il pretesto per lo sviluppo cromatico di una vicenda a più facce e a più percezioni. De Feo è vibratile e messo alla sbarra per quanto architettato e, nella fedeltà all’attitudine professionale del personaggio, fa sfoggia di bella e ben portata voce. Un’altra sensibile icona sulla scena è la rosa, un fiore che incarna un amore tradito e sbagliato. Toni potenti, mai velleitari per una rievocazione memorialistica di pregio, fuori dalle scelte del mainstream e dunque particolarmente apprezzabile. Con il valore aggiunto di madrigali arricchiti da testi scritti da Torquato Tasso.

data di pubblicazione:26/02/2024


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IL CAPPELLO DI CARTA di Gianni Clementi, regia di Michele La Ginestra

IL CAPPELLO DI CARTA di Gianni Clementi, regia di Michele La Ginestra

con Sergio Zecca, Francesca Baragli, Alessio Chiodini, Michele Enrico Montesano, Ilaria Nestovito, Maria Teresa Psscale, Tiko Rossi Vairo

(Teatro Sette – Roma, 30 gennaio/25 febbraio)

Riproposizione di un evergreen di Gianni Clementi con il focus su un episodio ancora ben vivo nella memoria collettiva. Il bombardamento su San Lorenzo è il flash sulla Roma che sta per uscire dalla guerra ma che vive, di stenti, di promiscuità, di una solidarietà che forse non sarà mai più ritrovata.

Un piccolo miracolo in un epicentro di Roma che compendia tre teatri. 25 giorni di tutto esaurito per il perfetto commovente ensemble di sette attori che documentano i nefasti della guerra, un tragico ammonimento sempre valido. Combatte la fame e la miseria la famiglia di un muratore che si trova ad accollarsi un nonno anziano, una zia zitella, un figlio sfaticato e l’aggregato supplementare di un fidanzato che ripete come un ossessione il refrain “e compagni cantando” Dinamiche familiari problematiche, acuite dall’improvvisa fuga del nonno che al cimitero del Verano va a cercare un dialogo impossibile con la consorte defunta. E si perde, vaga nella città per 40 ore. Quando si ripresenta sembra la liberazione da tutti i crucci. Ma in realtà è il prologo a un altro ritrovamento. Di un bambino ebreo in fasce consegnato quasi al volo da una famiglia deportata dai tedeschi al Portico d’Ottavia. Il grande cuore di Roma accoglie la new entry a cui si sforza di dare un nome. E quando l’ha trovato, come omaggio al nonno, l’anziano familiare si spegne. Dunque un messaggio simbolico di trasmissione generazionale e di accoglienza inclusiva. Ma in mezzo le battute comiche funzionano perché il dialetto romanesco è funzionale alla trama e anche il turpiloquio, come dire, è usato efficacemente a fin di bene senza intenti di facile presa. Testo che non tramonta di un autore prolifico che non ha smesso di stupirci e che è contemporaneamente presente su altre piazze teatrali.

data di pubblicazione:23/02/2024


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