NAVALNY di Daniel Roher, 2024

NAVALNY di Daniel Roher, 2024

Dopo aver visto questo docufilm dentro la storia di Navalny il vostro giudizio su Putin e sulla sua politica non sarà più lo stesso. Quasi un giallo con un chiaro mandante e un sicuro predestinato alla morte. Ben dopo la realizzazione della pellicola.

  

La tragica fine del principale oppositore all’autocrazia russa, davvero molto sovietica, ha un prodromo nella domanda iniziale rivolta al protagonista. Che messaggio darebbe al popolo russo se dovesse venir ucciso? In avvio Navalny si schernisce e avvisa che un tema del genere sarebbe davvero molto noioso se proposto dopo la sua scomparsa. In chiusura di film invece la prende sul serio e dichiara che se ciò succedesse vorrebbe dire ha fatto davvero paura al regime e che l’opposizione può riconoscere in questo atto estremo la propria forza e condurre fino in fondo la propria lotta. Navalny si rivela nel suo privato, nel calore degli affetti, nella banalità della vita quotidiana ma non si sottrae alle domande più polemiche e che riguardano il proprio passato di nazionalista estremo con deviazioni razziste (errori di gioventù?). Ma il filone più appassionante è la ricerca investigativa condotta in combinato disposto con il giornalista bulgaro Christo Grozer grazie alla quale si identificano gli esecutori materiali del suo avvelenamento. In una registrazione-trappola si stabilisce un lungo colloquio con uno dei suoi eversori che il giorno dopo misteriosamente sparirà dalla circolazione. L’opera restituisce un clima soffocante di controllo poliziesco e rivolge un interrogativo che non avrà mai risposte. Per quale motivo Navalny ha fatto ritorno nell’amata patria sapendo quali conseguenze poteva produrre questa sua reimmissione nell’agone politico. Ci sono anche brani delle conferenza stampa di Putin in cui l’aspirante rivale non viene mai nominato (ricordate Veltroni quando evitava di citare Berlusconi?). Il Navalny degli anni all’estero è un perfetto utilizzatore dei social network grazie alla rubrica su youtube e a picchi di visualizzazioni che raggiungono oltre sette milioni di utenti.

data di pubblicazione:06/03/2024


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CARACAS di Marco D’Amore, 2024

CARACAS di Marco D’Amore, 2024

Una bolgia dantesca nell’inferno di Napoli. Chi prende per buono il racconto cinematografico avrebbe paura ad affacciarsi in città. Il film non si fa mancare niente droga (overdose), prostituzione, miseria, naziskin, islam, accentuando sopra le righe il testo base di Ermanno Rea Napoli Ferrovia. Siamo dalle parti di Gomorra, Suburra, un genere mainstream che D’Amore replica ad oltranza ed abuso.

 

Pellicola scura, discontinua con un Servillo a tratti in difficoltà nell’assecondare le trame tortuose della sceneggiatura. Crudeltà violenza, irrazionale dominano la scena. Certo riesce poco convincente la conversione di Caracas, il protagonista che prima picchia gli extra-comunitari e in un amen si converte all’Islam, subito trascinato all’esercizio della preghiera in una lingua di cui nulla sa. Bisogna aver fiducia nella regia di D’Amore che nella recitazione non è de Niro ma neanche Favino, più solido personaggio in un altro film incentrato sul ritorno a Napoli per l’arte di Martone. Uno scrittore in crisi torna a Napoli e dopo essere stato scippato improvvisamente prende fiducia nelle risorse e nel vitalismo terreno degli adolescenti fino a trovare un terreno di amicizia apparentemente solida con Caracas. Che nel non fortunatissimo libro da cui è tratto lo script ha 55 anni, qui venti anni di meno ma qualche chilo in più e si vede quando corre. Si può scegliere tra due finali subliminali, ad abundatiam: il matrimonio tra il delinquente convertito e la sposa tossicodipendente oppure la morte dei due. Rispettivamente per mano dei fascisti e di un eccesso di eroina. Per la mestizia dello scrittore che però da questi drammi ha prodotto secondo la vulgata della critica immanente il suo libro più bello. Film di visione e di effetti forti, più che di dialoghi. Ma quello che più spicca è l’accentuazione di una Napoli maledetta e assolutamente poco solare.

data di pubblicazione:05/03/2024


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4 5 6 scritto e diretto da Mattia Torre

4 5 6 scritto e diretto da Mattia Torre

con Massimo De Lorenzo, Carlo De Ruggieri, Cristina Pellegrino e con Giordano Agrusta, scene Francesco Ghisu, luci Luca Barbati. Produzione Marta Morico

(Teatro Vascello – Roma, 27 febbraio/3 marzo 2024)

Una famiglia tribale, di stampo sudista, allocazione calabrese è un intrico di patriarcato e antichi riti. La moglie non ha diritto di parola, il figlio si macera nella frustrazione. Si parla una lingua arcaica ricca di invenzioni. Frutto della fantasia di Mattia Torre,autore scomparso ma ancora riccamente e giustamente rappresentato.

Personaggi rozzi, minimali complessati, racchiusi in un mondo di rara grettezza. L’ignoranza si mescola con la povertà e il ricorso ai cibi, spesso solo evocati è una possibile ancora di salvezza. Anche perché quel sugo della nonna, annunciato ancora prima della rappresentazione bolle lì da 4 anni se non addirittura da 13, cioè dalla prima assoluto dello spettacolo. Ovviamente De Lorenzo si trova benissimo con le varianti del calabrese e Carlo De Ruggieri fa apparire credibili i 19 anni di un figlio traviato dalla grottesca educazione familiare che gli è stata impartita. Il focus è l’apparizione di un personaggio altrettanto rozzo che però deve dispensare un favore. Che appare enorme al capofamiglia ma che è figlio di una assoluta mancanza di visione. Anzi, la dissipazione del gruzzoletto per ottenere questo benefit scatena l’ultima rissa finale. Dove tutti uccidono tutti.. Un cupio dissolvi che è una sorta di specchio di un sentire molto italiano dove la speranza di futuro è ridotta ai minimi termini. In sala pubblico di generazione miste, contrariamente al solito, per un evergreen che, come sempre, funziona. Bando alla solidarietà, a un’idea qualsiasi di progresso, di apertura al mondo femminile. È iscritto nel DNA dei personaggi un’uscita di scena catastrofica anche quando la presunta bella notizia sembra allietare l’umore del riconosciuto capofamiglia. Ma la brace che cova non tarderà a manifestarsi con inaudita violenza.

data di pubblicazione:03/03/2024


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DIVA – UNA SINFONIA PER WEIMAR, uno spettacolo di Bruno Maccallini

DIVA – UNA SINFONIA PER WEIMAR, uno spettacolo di Bruno Maccallini

drammaturgia di Antonella Ottavi, con Chiara Bonome, Bruno Maccallini e Pino Cangialosi, musiche originali ed elaborazioni suonate dal vivo da Pino Cangialosi, regia di Bruno Maccallini

(Auditorium, Goethe Institut – Roma, serata unica 29 febbraio 2024, poi in tournèe per l’Italia)

Rigorosa ricostruzione di uno dei periodi più emblematici della storia del passato secolo. Salto all’indietro di cento anni per captare umori e prodromi di quello che sarà il nazismo. Musica come complemento essenziale, grande fisicità della Bonome e fiuto e competenza di Maccallini

Goethe Institut come collocazione ideale per documentare la breve parabola di una parentesi del secolo ancora soggetta ad analisi. Spessore culturale avanzato a Weimar prima della repressione e della caduta nell’infausta stagione hitleriana. Conosciamo Bertolt Brecht, Kurt Weill, Marlene Dietrich ma qui si affacciano le sagome di giornalisti, polemisti, autori ingoiati poi dalla repressione se non condannati a morte in qualche lager discriminatorio. Attraverso la vita di un caffè si snoda lo spirito del tempo. Con i nuotatori, punte di una cultura avanzata e celebrata e, in un altro angolo della sala, i non nuotatori che aspirano ad entrare nell’atra categoria e magari non avranno il tempo di riuscirci. Il finto orgasmo nella danza erotica della Bonome è evidentemente uno dei momenti più divertenti sulla scena mala tensione teatrale è alta, sempre. La Diva o le Dive sono personaggi spregiudicati che riflettono lo spirito del tempo come punte avanzate, rivendicazione di una figura femminile al passo con la modernità. I video sullo sfondo di macerie dei bombardamenti riflettono il dopo che sarà ovvero il disastro di un’ideologia mortifera. Eppure la nuova donna di un secolo che non sarà breve era nata a Weimar, invano soffocata dal totalitarismo. L’originale approfondimento di Maccallini è un unicum del teatro contemporaneo. Ammirevole nel suo isolamento ma anche per la sua perspicuità. Pubblico di spessore in sala con molti addetti ai lavori capaci di apprezzare quanto proposto.

data di pubblicazione:01/03/2024


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16 MILLIMETRI ALLA RIVOLUZIONE di Giovanni Piperno, 2024

16 MILLIMETRI ALLA RIVOLUZIONE di Giovanni Piperno, 2024

Sta girando l’Italia e si ripromette di entrare nelle scuola questo documentario di montaggio che si appoggia a un immenso patrimonio archivistico con un focus sul più grande partito comunista dell’Europa Occidentale. Ha ottenuto il contributo economico della Presidenza del Consiglio, pur di opposta tendenza partitica perché c’è un fondo speciale dedicato agli anniversari. Carrellata nostalgica sul Pci che fu, attraverso le immagini di Berlinguer, la svolta della Bolognina di Occhetto, le sezioni, le manifestazioni, il riflusso con la marcia dei 40.000 quadri della Fiat a Torino, volta pagina della sconfitta..

 

Un film che stimola la memoria indipendentemente dalle idee politiche personali. Un grande viaggio all’indietro ricco di cinema militante (Gregoretti, Serra, Scola, Montaldo) quando c’era la speranza di invertire il senso della storia, prima che fallisse il compromesso storico e che 400.000 militanti abbandonassero il partito, una volta dismessa l’etichetta di comunista. Atmosfera dunque alla Nanni Moretti per un reducismo che non vorrebbe essere d’accatto. Le immagini del passato vengono contrappuntate dalla lunga intervista a Luciana Castellina (anni 95), quattro parentesi in prigione, protagonista del distacco dal Pci. Lei è una che non ancora smesso di credere a quella rivoluzione che l’Italia non ha mai avuto, a differenza della Francia e della Russia. Piperno informa ma si diverte anche mostrando i personaggi di quadretti familiari e amicali che appartengono alla sua personalissima storia. Erano i tempi in cui il Pci arrivò a dotarsi di 1,8 milioni di iscritti, toccando percentuali tra il 33 e il 34% tra il 1976 e il 1977. Tanto per dare un’idea dell’attuale disaffezione alla politica nelle ultime primarie del Pd hanno risposto all’appello in 152.000. Alla proiezione a cui abbiamo assistito c’era anche Lucia Mascino, ormai romana d’adozione. Un film che richiede un dibattito che difatti c’è stato. Anche per chiedersi perché la maggioranza degli italiani non va più a votare.

data di pubblicazione:28/02/2024


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