LA DONNA DI PIETRA di Federico Malvaldi

LA DONNA DI PIETRA di Federico Malvaldi

con Veronica Rivolta, regia di Sara Younes e Federico Malvaldi

(Teatro Spazio 18b – Roma, 7/17 marzo 2024)

Nei giorni in cui si ricorda con più attenzione la lotta ai diritti per le donne, è in scena al Teatro Spazio 18B, la sala teatrale nel quartiere di Garbatella gestita dalla Compagnia dei Masnadieri, il nuovo testo del giovane e promettente autore Federico Malvaldi. Camille Claudel, artista allieva e amante di Auguste Rodin, racconta la sua disperata verità nell’interpretazione di Veronica Rivolta, La donna di pietra.

 

La figura della scultrice francese Camille Claudel – di cui si celebrano quest’anno i 160 anni dalla nascita – è colta nel pieno delle sue persecuzioni e dei ricordi che la abitano. Chiama in causa direttamente il pubblico per confessare la propria verità e rendere giustizia di sé e della sua memoria. Resa dura come la pietra dalla sofferenza, è inasprita dall’isolamento. Ha conosciuto la povertà, sommersa dai debiti, e la difficile condizione di amante rifiutata e scacciata. Ha persino avuto un aborto. Come ricompensa ai sacrifici e alle umiliazioni subiti per la sua arte, ora è rinchiusa nel manicomio di Montdevergues in Vaucluse, per volere dei suoi familiari, dove rimarrà fino alla morte. Aspetta invano qualcuno che venga a prenderla per riportarla nell’amata casa di famiglia a Villeneuve, via da quell’inferno. Una consolazione effimera arriva da una compagna di reclusione, Marie. La compassione del suo sorriso senza denti è l’unica espressione di tenerezza che le è rivolta, quella che le hanno negato il fratello Paul, famoso poeta e cattolico fervente, e Rodin, l’inganno e insieme l’amore più grande della sua vita. La madre, una donna dal carattere severo e intransigente, non andrà mai a farle visita. Solo il ricordo del padre – unico a incoraggiarla negli studi artistici – e quello delle amiche della giovinezza scalderà un poco il gelo delle pareti del ricovero.

In teatro Camille Claudel è apparsa già come personaggio nei due atti di Camille (1995) scritti da Dacia Maraini e in tempi più recenti nei lavori di Anna Cuomo, Vera Gargoni e Chiara Pasetti. Adesso è un uomo a scriverne, Federico Malvaldi. Il suo testo La donna di pietra, prodotto da Remuda Teatro e diretto dallo stesso Malvaldi insieme a Sara Younes, è un’opera di poesia che fonda l’azione nell’uso sapiente della metafora. Le immagini minuziose di cui si serve comunicano la straziante umanità del personaggio. L’indagine restituisce i fatti con fedeltà. È una scrittura colta, documentata, capace di far dialogare il dato storico con un sentimento vivo, pulsante.

Camille è colta nel momento in cui è stata derubata di tutto: della libertà e di una materia da plasmare. Ma soprattutto del movimento. Veronica Rivolta, a cui è affidato il personaggio, recita seduta su uno sgabello. Demanda a pochi ma significativi movimenti compiuti con le mani e con lo sguardo la sua ribellione alla clausura e all’isolamento. Modella l’aria non come se fosse un gesto teatrale, evocativo, ma perché è il vuoto la sola cosa che la circonda. L’azione scenica è affidata completamente alla parola. Non c’è traccia di pazzia nella sua interpretazione, ma solo un’ostinata e sfrenata voglia di vivere.

Camille è una donna di pietra perché non ha ceduto ai dettami di una società maschilista. La sua denuncia diventa così universale e raccoglie il grido di tutte le donne soffocate come lei. Chi rimane in silenzio non fa altro che essere complice di questa violenza.

data di pubblicazione:11/03/2024


Il nostro voto:

ANNA CAPPELLI di Annibale Ruccello

ANNA CAPPELLI di Annibale Ruccello

con Giada Prandi, regia di Renato Chiocca

(Teatro Cometa OFF – Roma, 27 febbraio/3 marzo 2024)

Torna anche quest’anno in cartellone al Cometa OFF la celebre tragicommedia firmata dal compianto Annibale Ruccello per la regia di Renato Chiocca. Giada Prandi è Anna Cappelli, l’impiegata comunale ossessionata dal bisogno di possedere le cose, anche l’amore. (foto di Umbi Meschini)

 

Per Anna Cappelli tutto, anche l’amore, ha un valore materiale. È determinata a ottenere ciò che desidera, dovesse anche rinunciare alla reputazione o perfino al matrimonio. Tanto è solo un contratto. Così poco vale se per andare ad abitare con il ragioniere Tonino Scarpa deve rinunciare a sposarsi e accettare la convivenza che lui le propone. Nessuno scandalo oggi, certo. Ma non nell’Italia degli anni ’60, in cui Annibale Ruccello ambienta il monologo scritto nel 1986 (lo stesso anno della morte del drammaturgo stabiese, scomparso a soli trent’anni nel tragico incidente sulla strada che da Roma lo riportava a Napoli).

Se tutto si riduce a cosa da possedere, allora anche lei diventa un oggetto tra gli oggetti. Una bambola, di tutto punto vestita e accessoriata (nel meraviglioso costume dell’epoca realizzato da Anna Coluccia), riposta nella scatola immaginata per lei dal regista Renato Chiocca. Da questo spazio cubico, appena tracciato in un perimetro nel vuoto della scena costruita da Massimo Palumbo, prende forma il dramma.

Per Anna le giornate sono tutte uguali. Scorrono monotone tra le scartoffie impolverate e i timbri dell’ufficio comunale di Latina. Vive ospite a casa della signora Tavernini, di cui odia i gatti e il nauseante odore di pesce bollito che esce dalla cucina. Non sopporta il fatto che i genitori abbiano dato la sua vecchia cameretta alla sorella Giuliana. Dopotutto quella stanza le appartiene, anche se non abita più con loro. Il riscatto sembra arrivare quando il ragionier Scarpa le chiede di andare a convivere, e lei accetta attratta, più che dall’amore, per il fatto che Tonino ha una casa di proprietà con dodici stanze. Ma anche questo le verrà tolto e allora la disperazione si tradurrà in un gesto folle.

Ogni volta che qualcosa le sta per essere portata via, nei sui occhi guizza una scintilla di rabbia e isteria. L’apparente ordine di cui si circonda è presto rovinato dal disordine che la abita. Eccezionale Giada Prandi a sottolineare nella recitazione questo forte contrasto tra armonia esteriore e rancore sopito. Abilissima nell’anticipare le parole del testo con gli occhi, sbarrati e sempre attenti alla lucida follia che la divora. Una recita solo in apparenza leggera, ma profondamente espressiva, piena di vibrante energia, come il personaggio che interpreta. Le luci di Gianluca Cappelletti e le musiche originali di Stefano Switala completano il lavoro di una squadra che si distingue per il perfetto equilibrio dei ruoli. Lo spettacolo non può che guadagnarne in limpidezza e comprensibilità.

data di pubblicazione:02/03/2024


Il nostro voto:

ERODIADE di Giovanni Testori

ERODIADE di Giovanni Testori

con Francesca Benedetti, regia di Marco Carniti, assistente alla regia Francesco Lonano, musiche di David Barittoni

(Teatro Basilica – Roma, 21 febbraio 2024)

Serata unica al teatro Basilica per Erodiade di Giovanni Testori. Nella lunga scia degli eventi di celebrazione per i cento anni dalla nascita dell’autore milanese, Francesca Benedetti porta in scena uno dei personaggi più potenti del teatro testoriano. La regina divorata da un amore impossibile per il profeta Giovanni Battista, di cui arriva a chiedere la testa.

 

Avanza lentamente dal fondo del teatro Francesca Benedetti. Prima ancora di vedere la sua figura di regina si ode la sua voce, vera protagonista di questa nuova messa in scena dell’ Erodiade di Giovanni Testori. È una voce del passato, profonda e scura, piena di graffi e cicatrici, resa ancora più suggestiva dalla straordinaria architettura di mattoni romani del teatro Basilica. Un’antologia di suoni che il tempo non ha dissipato, bensì amplificato. Parla una lingua sconosciuta, inventata, appartenuta a una delle tante Erodiadi venute fuori dalla mente creativa dello scrittore di Novate. È la lingua di quella Erodiàs apparsa nell’ultima trilogia teatrale scritta poco prima della morte del drammaturgo.

Per uno strano errore, che aggiunge particolare significato all’evento, sul biglietto di ingresso è scritto Erodiadi, al plurale. E di molti Erodiadi si deve parlare ascoltando il testo riadattato da Marco Carniti per una delle attrici che sono la storia del teatro italiano. E di quello testoriano in particolare. Memorabile è l’interpretazione della Benedetti nel ruolo de la Ledi nella primissima edizione del Macbetto al Salone Pier Lombardo di Milano – oggi teatro Franco Parenti – nel 1974. L’attrice e lo scrittore erano legati da una profonda amicizia, testimoniata anche negli scatti (rintracciabili nel web) di Carla Cerati.

Il dramma di Erodiade è destinato quindi a essere rimaneggiato nel tempo e nelle epoche che si susseguono. Questa versione non è esente dalla riscrittura. Il testo è un compendio delle edizioni precedenti, riprese e frantumate, arricchite di nuove immagini. Spetasciate, per usare un termine testoriano. Scucito e ricucito con il filo della voce di Francesca Benedetti, che poi un filo non è.

Ritorna il trono della prima versione del 1969, scomparso nella storica messa in scena del 1983, per la regia dello stesso Testori con protagonista Adriana Innocenti. Un trono ammantato di rosso, chiaro richiamo al sangue versato per l’atto della decollazione del Battista. Rosso è anche l’abito dell’eroina tragica, che rivendica con forza il suo potere di donna e di regina, seduta in atteggiamento imperante, ancora vagamente sensuale. Osserva con gli occhi sbarrati, testimoni di un incubo interiore, il bacile che raccoglie i brandelli filamentosi della testa del profeta. Proprio questa è l’altra protagonista del racconto. Alle spalle dell’attrice appaiono proiettati i disegni delle teste del Battista che l’autore, anche pittore, realizzò nel 1969 durante la prima stesura del dramma. Diventano materiale drammaturgico, la cui sequenza scandisce i tempi della narrazione, fungendo da deuteragonista all’eroina sola sulla scena.

Nello svolgersi della tragedia, Erodiade arriva nell’aldilà, carica del peso del suo dramma umano. Il dolore che vive è cosa vera, non recitata. Non ci sono cieli o dèi ad accogliere la sua ombra, ma solo il niente e la bestemmia dell’indifferenza umana. La prigione vuota – come disse Carlo Bo – della nostra orrenda insensibilità.

data di pubblicazione:24/02/2024


Il nostro voto:

OTELLO da William Shakespeare

OTELLO da William Shakespeare

traduzione e drammaturgia di Letizia Russo, regia di Andrea Baracco, con Valentina Acca, Flaminia Cuzzoli, Francesca Farcomeni, Federica Fracassi, Federica Fresco, Ilaria Genatiempo, Viola Marietti, Cristiana Tramparulo

(Teatro Quirino – Roma, 6/11 febbraio 2024)

Arriva finalmente a Roma dopo più di un anno dal debutto l’Otello prodotto dal Teatro stabile dell’Umbria che vede in scena un cast eccezionale di sole donne. Il regista Andrea Baracco e la drammaturga Letizia Russo trasformano il testo scespiriano in una tragedia universale. Iago condurrà Otello a una folle disperazione e per gelosia ucciderà l’amata Desdemona. (ph. Gianluca Pantaleo)

 

Non è l’Otello che ci aspettiamo di vedere, afferma nel prologo fuori dal testo Federica Fracassi, l’attrice che a breve entrerà nel ruolo di Iago. E forse non ne vedremo un altro così. Coinvolgente e vero, come sono vere le emozioni che guidano l’istinto umano. Ambientato in uno spazio e in un luogo indefiniti per vocazione a voler essere un dramma universale. Dramma della gelosia, certamente. Ma dramma soprattutto della parola che sa trasformare la realtà che vediamo. A teatro tutto è finto e Iago dimostrerà come dalla falsità può emergere una strana verità.

Nella gerarchia dei poteri, Iago occupa lo scalino più basso. Ha davanti a sé la perfezione di Otello, stimato generale e felice amante ricambiato. Per invidia – o forse perché è puro male – sente la necessità di distruggere l’armonia dalla quale è escluso. E ci riesce, non solo per obbligo di tragedia. È puro male, è vero. Eppure nel teorema espresso dalla nuova traduzione, che aggiunge poesia a poesia pur nella riduzione del testo con una regia attenta a porre il giusto accento alle scene chiave, Iago è anche colui che porterà Otello a scoprire la realtà della natura di cui è fatto e che lo porterà a uccidere Desdemona. Iago conosce l’animo umano ruga per ruga, ne sa intercettare i movimenti più segreti. È regista, attore, drammaturgo e anche spettatore attento. Le parole di inganno e illusione che pronuncia saranno in grado di incidere e cambiare la realtà che si disvela davanti ai suoi occhi. Nella casualità di ciò che accade sarà bravo a trasformare un temporale in tempesta.

La perfezione è costruzione, artificio che va scoperto e smantellato. Ciò che appare armonico al fondo non lo è. Lo dimostra la scena disegnata da Marta Crisolini Malatesta. Una geometria simmetrica di edifici costantemente invasa da ombre proiettate e da riflessi che ne cambiano le proporzioni (le luci sono di Simone De Angelis). Ma anche il linguaggio dei costumi di Graziella Pepe. Tutte le attrici vestono panni maschili, tranne Emilia, il personaggio a cui è affidato lo svelamento della diabolica trama ordita dal marito Iago. Otello e Desdemona addirittura vestono allo stesso modo, come a dire che Iago va a colpire e a dividere la stessa persona e non due amanti. Insomma, domina la litote del “io non sono quello che sono”, le cose non sono così come appaiono. Un messaggio che mina le nostre certezze.

Menzione a parte merita Ilaria Genatiempo nel ruolo del protagonista. Un’attrice di una forza incredibile, quasi bestiale, dai sentimenti sinceri e dall’energia travolgente. Recitato da una donna (e da lei in particolare) il ruolo di Otello libera emozioni che altrimenti rimarrebbero sopite in un’interpretazione maschile. Non c’è il senso dell’onore da difendere. Non c’è da salvare la faccia davanti a sovrastrutture culturali. C’è il dolore vero, il vero sentimento di un’umanità offesa, tradita (dall’amante e dall’amico). Scorticata la carne della finzione, rimane la visione viva dell’osso della vita che muove le cose.

data di pubblicazione:10/02/2024


Il nostro voto:

PUPA E ORLANDO

PUPA E ORLANDO

tratto da Giuseppe Fava, con Claudio Pomponi e Marco Aiello

(Teatro Lo Spazio – Roma, 1/2 febbraio 2024)

Tratto da uno dei lavori dello scrittore e giornalista siciliano Giuseppe Fava, lo spettacolo della coppia artistica Aiello/Pomponi accende un riflettore sui personaggi di Pupa e Orlando. Guitti emarginati, trascinano per le piazze il loro carrozzone di violenza e sopraffazione, dando spettacolo di un’esistenza ai margini di una società troppo spesso ingiusta e incurante.

  

Sembra che non si faccia mai pienamente giorno nella vita di Pupa e Orlando. La notte li circonda e nasconde la vergogna di una vita vissuta alla periferia di tutto, nella povertà. La scena è scarna e gli elementi scenografici essenziali. Nel buio si consuma la violenza. Nessuno accorre a riscattare chi, per campare, offre il triste spettacolo di sé nell’attesa di ricevere una ricompensa che verrà magra e insufficiente.

È questa la cifra stilistica scelta da Claudio Pomponi e Marco Aiello per il loro Pupa e Orlando, uno spettacolo ritagliato intorno alla loro bravura artistica di interpreti e registi. Il testo è basato su Foemina Ridens (1980) dello scrittore, giornalista e drammaturgo siciliano Giuseppe Fava, assassinato dalla mafia nel 1984 per le sue inchieste di denuncia, davanti al teatro Verga – sede dello stabile catanese – nella via che oggi porta il suo nome.

La storia si compone di quadri che ricostruiscono la vicenda umana di Pupa, una prostituta che si innamora facilmente di ogni uomo che incontra. È Claudio Pomponi a vestirne i panni, ma non c’entra il travestitismo. Pupa è una donna, espressione di tutte le donne come l’ha voluta l’autore. Che sia un uomo a vestirne i panni non fa che spingere ancora più a margine la desolazione della sua esistenza, ad accentuarne la fragile verità. Come del resto fa anche la scelta dell’ampio utilizzo del dialetto. Figlia della terra, ancora giovane rimane incinta di Michele, un malavitoso che ben presto verrà assassinato dalla polizia. Chiamata a testimoniare in tribunale, finisce per essere incarcerata per concorso in omicidio. Il calvario prosegue e il figlio che partorisce tra le sbarre le verrà portato via. L’amore per questa creatura sarà il tormento che accompagnerà le sue notti.

Nel suo peregrinare incontra Orlando (Marco Aiello), un ladro e pappone finto prestigiatore, che illude il pubblico di far tornare vergine la sua compagna tutte le sere. Pupa improvvisa balli sensuali sulle note blues suonate dall’armonica di Orlando, ma spesso le danze si risolvono in una baraonda caotica e violenta di botte e spintoni (una coreografia improvvisata che purtroppo manca di armonia). I due divergono sul racconto della verità. I dialoghi tra loro portano solo al conflitto, mentre i monologhi, impalcatura della narrazione, sono le occasioni per presentare la propria difesa. Spetta al pubblico giudicare. Ma questo, distante e indifferente, rimane come sempre silenzioso davanti allo spettacolo della sofferenza di qualcun altro.

data di pubblicazione:03/02/2024


Il nostro voto: