MOLTO RUMORE PER NULLA di William Shakespeare, regia di Loredana Scaramella

MOLTO RUMORE PER NULLA di William Shakespeare, regia di Loredana Scaramella

(Silvano Toti Globe Theatre – Roma, 27 giugno/15 luglio 2018)

Una tragicommedia tra le più rappresentate di Shakespeare che fa riflettere sull’uso e sul potere della parola, sulla facilità con cui questa, detta al momento giusto e alla persona giusta, possa calunniare un’innocente fanciulla, Claudio che accusa Ero, o far cambiare parere a due ostinati nemici, Beatrice e Benedetto, fino a farli innamorare l’uno dell’altra.

Ad inaugurare la nuova stagione teatrale del Silvano Toti Globe Theatre di Villa Borghese torna Molto rumore per nulla, per la regia di Loredana Scaramella, riproposto anche quest’anno dopo il grande successo ottenuto nelle edizioni passate. Una regia divertente che si avvale della bravura di interpreti conosciuti al pubblico del teatro, ma arricchita anche di nuove presenze e di nuove idee che rendono lo spettacolo ancora vivace e ben ritmato nel progressivo ingarbugliarsi della vicenda.

La semplice scenografia del rinascimentale teatro, con il suo palcoscenico aperto sui tre lati alla completa visione del pubblico, le sue tre porte nel fondale e il suo balcone che suggerisce ora l’interno di una stanza da letto ora la sala dei banchetti del palazzo, è il luogo dove si svolge l’intera vicenda, che non ha bisogno di altri mezzi, oltre qualche sgabello su cui muovere l’azione, per evocare la quotidianità di questo paese o città italiana nel quale il bardo ambienta i fatti. Bastano le sole parole e musiche, eseguite dal vivo dal trio William Kemp (chitarra, mandolino e percussioni), per ritrovarci catapultati in un’immaginaria corte di un paese nel Salento (così nella versione della Scaramella), abitata per lo più da donne, che vede invadere il suo cortile da un’orda di soldati in armatura, guidati dall’autorevole principe don Pedro (Federigo Ceci). È qui che iniziano a sentirsi i rumori suggeriti nel titolo della commedia, intesi come pettegolezzi, ammiccamenti, bisticci, promesse di amore, inganni rivolti al bene ma anche al male che scandiscono il ritmo delle varie scene e dei racconti dei numerosi personaggi. Al centro della vicenda due amanti, Claudio e Ero (interpretati da Fausto Cabra e Mimosa Campironi), si promettono amore eterno, ma la gelosia di Don Juan (Matteo Milani), fratello del principe, rovina la reputazione di lei agli occhi di tutti e soprattutto dell’amato, fino a che, per brillante trovata e per merito di una improvvisata ronda notturna di stravaganti soldati (capitanata da un eccellente Carlo Ragone), la ragazza creduta morta da tutti viene riabilitata e le viene restituita la dignità perduta a causa delle perfide dicerie. Ma c’è anche un’altra storia che si racconta parallela a questa, ed è quella di Beatrice, interpretata da una simpaticissima e divertentissima Barbara Moselli, e Benedetto (Mauro Santopietro), che nell’idea registica di Loredana Scaramella diventa fondamentale per veicolare il pensiero alla base di questa messa in scena: il passaggio dal baco alla farfalla ovvero da un mondo inconsapevole e innocente quale quello della gioventù a un mondo più adulto, spesso severo e crudele, ma finalmente responsabile, che impara a cedere ai richiami d’amore. Assistiamo così alla loro lenta e comica trasformazione, al loro mutare di sentimenti, dapprima ostili e ostinati l’uno nei confronti dell’altra, ma nel finale, dopo i “rumori” architettati dai personaggi a loro vicini, uniti e maturi di un affetto che solo l’abbandono delle proprie convinzioni sa regalare.

Questo spettacolo si arricchisce di una cornice musicale eccezionale, che coinvolge pienamente il pubblico e lo rende partecipe della festa che si prepara sul palco. Il ritmo della tarantella salentina trascina tutti e alleggerisce lo scuro della vicenda, donando a tutto unitarietà e divertimento. Bravo di nuovo Carlo Ragone, che mostra di avere una voce stupenda e una bravura di attore poliedrica.

data di pubblicazione: 30/6/2018


Il nostro voto:

 

ARLECCHINO SERVITORE DI DUE PADRONI di Carlo Goldoni, regia di Giorgio Strehler

ARLECCHINO SERVITORE DI DUE PADRONI di Carlo Goldoni, regia di Giorgio Strehler

(Teatro Argentina – Roma, 15/20 maggio 2018)

Il teatro è pronto e la scena è già allestita sulla piazza. L’intreccio di amori, equivoci, maschere, camuffamenti, lazzi e giochi prende forma tra squilli di tromba e battito di tamburi. Si accendono le luci del palco e si dà il via alla commedia. Arlecchino servitore di due padroni torna di nuovo a far ridere il pubblico.

 

 

La scelta della direzione artistica del Teatro Argentina di mettere in cartellone uno spettacolo come Arlecchino servitore di due padroni, ideato dal genio di Strehler e riproposto con la messa in scena di Ferruccio Soleri e Stefano de Luca, non può che essere un grande regalo al suo pubblico e un occasione per godere della visione di una delle regie che hanno segnato la storia del teatro italiano del secondo Novecento. Sono ormai passati più di 70’anni da quando la commedia venne rappresentata la prima volta al Piccolo di Milano e da allora continua ad incantare tutti con il suo meccanismo perfetto di giochi, improvvisazione, battute e personaggi ormai testato su ogni tipo di pubblico. Viene da domandarsi in effetti che cos’è che mantiene in vita sulla scena questo spettacolo così rappresentato e le risposte sono tante. Si può pensare dapprima alle scene di Ezio Frigerio, alle musiche di Fiorenzo Carpi suonate dal vivo sulla scena, ai costumi stupendi e alle maschere di cuoio; e poi ancora alla bravura degli attori, tutti, perfettamente accordati tra di loro, divertiti, esperti nel saper cogliere gli umori di un pubblico ogni sera diverso e nuovo. Ma anche e soprattutto una regia sapiente, rispettosa della tradizione e tuttavia innovativa, quale fu quella di Giorgio Strehler, che si risolve nel focalizzare tutto l’intreccio su un vero palcoscenico della Commedia dell’Arte, con il suo fondale dipinto e le sue candele sul proscenio ad illuminare lo spazio della recitazione e del gioco. Forse è qui allora che tutta questa perfezione trova la sua unità: nel gioco eterno del teatro e nella sua capacità di poter essere strumento di evasione e distrazione, pura contemplazione della bellezza. Ne siamo consapevoli noi, ne sono consapevoli gli attori sulla scena. Ne è consapevole Arlecchino, interpretato da uno straordinario Enrico Bonavera, che tesse le trame di questo intreccio divertentissimo, ma che in più conosce il modo di intrattenere gli spettatori in modo intelligente e attento, trascinandoli continuamente nella sua tempesta di lazzi e scherzi dalla quale non si vorrebbe uscire mai. Va visto questo Arlecchino e poi rivisto ancora, consapevoli che non deluderà mai perché è il teatro che ci si aspetta di vedere, ma che tuttavia è sempre nuovo e unico ogni sera.

data di pubblicazione:20/05/2018


Il nostro voto:

DICHIARO GUERRA AL TEMPO da I Sonetti di William Shakespeare, regia di Daniele Salvo

DICHIARO GUERRA AL TEMPO da I Sonetti di William Shakespeare, regia di Daniele Salvo

(Teatro Vascello – Roma, 15/20 maggio 2018)

Due donne, di due epoche diverse e lontane l’una dall’altra, dichiarano guerra al tempo, sfidandolo a colpi di parole che sono poesia recitata e poesia in musica. Lo spazio è una tela bianca sulla quale lasciare impressi i caratteri di una scrittura destinata a parlare per sempre a tutte le generazioni.

 

 

È uno spettacolo insolito quello messo in scena in questi giorni al teatro Vascello, ancora una proposta che obbliga a fermarsi e a riflettere. Insolito perché il testo è tratto dai Sonetti di Shakespeare, del quale conosciamo meglio le tragedie e i drammi. Insolito per il fatto che I Sonetti, che non furono scritti per essere destinati alla rappresentazione, vengono usati nella forma del dialogo tra due donne che provengono e abitano due epoche diverse: la prima, vestita in abiti moderni, è a noi contemporanea; l’altra invece, vestita alla maniera rinascimentale inglese, appartiene a un lontano passato. Insolita la scena: una grande pagina bianca o una tela da pittore se vogliamo, sulla quale via via vengono impresse le parole e le immagini che i versi cantati e recitati suggeriscono. Pochi elementi come sedie ammassate in un angolo, sgabelli e panche sui quali far riposare i pensieri, completano la scena. Questo spazio diventa il luogo dove viene combattuta la guerra che il titolo suggerisce, ma è uno spazio mentale, intimo, una “stanza dell’immaginario”, come la definisce il regista Daniele Salvo. Il campo di battaglia sono allora la memoria e l’esperienza: solo chi ha provato l’amore, con i suoi picchi e le sue delusioni, può comprendere ciò che si rappresenta e affrontare questo viaggio. Una mente immatura e giovane non può cogliere il dramma di questo conflitto contro il tempo, il quale trascorre inesorabile e veloce, trascinando via con sé la bellezza e la novità. L’unica arma per combattere e vincere questo nemico è la procreazione, il generare una creatura e poi altre ancora, alle quali consegnare questa bellezza. Il tempo porta alla morte, ma la morte si contrasta con l’eternità del pensiero che si può imprimere solo nelle parole. Lo spettacolo diventa così un omaggio alla capacità esclusivamente umana di comunicare l’immortalità attraverso la poesia, sia fissata e strutturata in un sonetto sia codificata in uno spartito musicale. Incantevole l’interpretazione di Manuela Kustermann nei panni della poetessa rinascimentale, che con la sua voce e la sua grazia è capace di accompagnare la mente verso le zone più profonde del pensiero; straordinaria e intensa Melania Giglio nei panni della donna contemporanea, capace invece di dare nuova interpretazione e colore a brani famosi di altrettanti famosi cantautori pop-rock della scena internazionale (Peter Gabriel, David Bowie, Cat Stevens per citarne alcuni). Dichiaro guerra al tempo sarà in scena fino a domenica prossima; consigliato a chi vuole concedersi un momento di riflessione e di buon ascolto.

data di pubblicazione:16/05/2018


Il nostro voto:

MI SA CHE FUORI È PRIMAVERA tratto dall’omonimo libro di Concita De Gregorio, regia di Giorgio Barberio Corsetti

MI SA CHE FUORI È PRIMAVERA tratto dall’omonimo libro di Concita De Gregorio, regia di Giorgio Barberio Corsetti

(Teatro India – Roma, 8/13 maggio 2018)

Irina oggi festeggia il suo compleanno. È felice perché noi siamo lì con lei a celebrare questo evento. Non ci vuole molto per capire che il suo desiderio è quello di raccontarci il suo dramma, ce ne vuole fare partecipi. E così ci parla di Matthias, l’uomo che ha sposato, del loro matrimonio, delle due gemelle nate dalla loro unione, e di come la sua vita, apparentemente normale, si sia lentamente e inspiegabilmente trasformata in tragedia. In una parola ci parla di lei.

 

Lo spettacolo prende spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto. Siamo alla fine di gennaio del 2011 e la storia è quella di Irina Lucidi, una donna, avvocata presso una multinazionale del tabacco con sede in Svizzera, ma soprattutto una mamma a cui il marito, dal quale si era separata, rapisce e fa sparire nel nulla le sue due figlie gemelle di sei anni prima di suicidarsi, qualche giorno dopo la sparizione, gettandosi sotto un treno a Cerignola in Puglia. Della sorte di Alessia e Livia, questo il nome delle bambine, a tutt’oggi non si sa nulla. “Non le vedrai più”, queste le parole del padre che le ha rapite, e molto probabilmente uccise.

Da questa dolorosa vicenda Concita De Gregorio ne trae un libro. È la stessa Irina che si rivolge all’editorialista e scrittrice per poterlo scrivere. Irina ha bisogno di rimettere insieme pezzo per pezzo tutto quello che la vita le ha mandato in frantumi e la scrittura è il mezzo attraverso il quale fissare e ordinare i suoi ricordi. Ma il libro, come afferma la scrittrice, non è una ricostruzione giornalistica dei fatti di cronaca, bensì il racconto della vicenda di una donna che riesce a sconfiggere il dolore attraverso l’amore. La colla, l’oro liquido che rimette insieme i pezzi rotti di un oggetto andato in frantumi (immagine tradotta dalla tradizione giapponese), è l’amore stesso. E di questo amore è pervaso tutto lo spettacolo di Giorgio Barberio Corsetti e Gaia Saitta, emozionante ed emozionata nei panni di Irina. Invitati dall’attrice, partecipano al racconto anche alcune persone del pubblico, che via via vengono indicate come gli attori della vicenda. Una trovata geniale, che subito ci coinvolge e ci fa passare da spettatori ad attori di un dramma, che potrebbe essere il nostro. Straordinaria è davvero Gaia Saitta, che dà prova di essere un’attrice di grande maturità, ma soprattutto di grande cuore (non è difficile intravedere una reale commozione nei suoi occhi), che riesce ad avvolgere tutto il pubblico in un solo abbraccio. In scena tante cornici: sono i confini dentro i quali si vogliono mettere a posto le cose man mano che si tentano di ricordare i fatti accaduti, ma poi ci accorgiamo che non servono, che sono stretti e inutili. La vita è vasta più di un oceano e il tempo diventa fluido come l’acqua nel quale siamo immersi.

data di pubblicazione:09/05/2018


Il nostro voto:

LA CUCINA di Arnold Wesker, regia di Valerio Binasco

LA CUCINA di Arnold Wesker, regia di Valerio Binasco

(Teatro Eliseo – Roma, 2/20 maggio 2018)

La cucina non possiede una vera e propria trama. Entriamo in un ristorante non come ospiti, ma dalla porta che dà direttamente in cucina, lì dove entra anche il personale che ci lavora. Siamo così spettatori di quello che accade in un giorno come tanti, in un luogo come tanti, a persone come tante.

 

 

In cartellone al Teatro Eliseo fino al 20 maggio La Cucina di Arnold Wesker, drammaturgo tra i più rappresentativi del teatro inglese della seconda metà dello scorso secolo, scomparso da appena due anni, impegnato a rappresentare costantemente nei suoi lavori le storie di tanta gente normale, ordinaria, con una scrittura che si ispira direttamente ai dialoghi che si possono ascoltare nei luoghi comuni come la strada, i bar, i luoghi di lavoro. E nel raccontare la vita delle persone comuni, dei semplici lavoratori, necessariamente si tocca la sfera sociale e la tematica politica, che tanto caratterizzano il teatro del nostro autore. Una scelta certamente coraggiosa quella di Valerio Binasco di portare in scena un testo come La Cucina, dalla trama semplice ovvero quasi inesistente (si assiste alla routine giornaliera del lavoro in un ristorante), ma con una complessità nei personaggi, numerosi sul palcoscenico (ben 24) per lo più compresenti durante tutta la durata dello spettacolo. Difficile dunque orchestrare una corale di attori così grande, ma il risultato è armonico, ritmato, ben riuscito e soprattutto divertente. Si apprezza una regia quando questa è curata in ogni suo minimo dettaglio (come del resto la realistica scenografia di Guido Fiorato) e quando gli attori, per tutta la durata dello spettacolo, non abbandonano mai il personaggio neanche quando non hanno una battuta da dire e perfino nell’intervallo, quando li troviamo a servire bicchieri di vino a noi spettatori dietro il bancone del bar del teatro. La musica che si suona è quella rumorosa delle pentole che sbattono, dei coltelli che affettano, dei piatti che si rompono, dei mestoli che girano, delle fruste che sbattono, che diventano metafora della vita stessa dei dipendenti di questo ristorante che serve da mangiare duemila coperti al giorno: camerieri, cameriere, cuochi, sguatteri si mostrano in tutta la loro spontanea umanità e capiamo che la vita è una lunga preparazione e che a volte può non riuscire bene. La si affetta, la si dosa, la si mette in cottura, se dimenticata si brucia oppure può risultare acida come una minestra uscita male, ma è pur sempre vita.

data di pubblicazione:03/05/2018


Il nostro voto: