da Paolo Talone | Dic 3, 2018
(Teatro Brancaccio – Roma, 22 novembre 2018/6 gennaio 2019)
Il parroco di un paesino di montagna riceve una telefonata inaspettata da Dio in persona, un secondo diluvio universale sarà mandato sulla terra e lui dovrà costruire un’arca per mettere in salvo tutta la gente del paese.
Sono passati 44 anni da quando venne messo in scena la prima volta a Roma Aggiungi un posto a tavola della ormai allora consolidata coppia Garinei e Giovannini e il suo successo, per nostra fortuna, non sembra volersi arrestare: siamo di fronte a un vero e proprio miracolo teatrale.
Sarà perché inizia favolisticamente con “C’era una volta, anzi c’è …” o perché la storia è ambientata in un paesino qualunque, che potrebbe a buon grado chiamarsi Utopia, il paese dove, parafrasando Oscar Wilde, l’umanità continua ad approdare per vedere intorno a sé un paese migliore, ma gli ingredienti per un grande spettacolo ci sono tutti e credo anche raffinati per questa edizione 2018, che si avvale dell’aiuto di una sviluppata tecnica che incanta ancora un pubblico numeroso e eterogeneo come quello del Brancaccio queste sere.
È uno spettacolo che continua a coinvolgere e a piacere, nonostante la società a cui allude, un’Italia anni ’70 sconvolta forse dai poteri ma tutto sommato ancora felice e speranzosa, ormai sia superata. Necessari si fanno allora gli adattamenti al testo e si arricchiscono i personaggi di nuove sfumature e battute, ma senza sconvolgerne la bellezza e la forza originali.
Della storica e costosissima messa in scena si è scelto di riprendere tutto, perché Aggiungi un posto a tavola sono i costumi pastello di Giulio Coltellacci (riadattati da Francesca Grossi), ma soprattutto le sue fantastiche scene in legno montate ingegnosamente su un doppio girevole, arricchite da nuovi effetti speciali, come per esempio il contributo video di Claudio Cianfoni che ci restituisce una impressionante scena del diluvio. E ancora le musiche di Armando Trovajoli, le cui melodie rimangono in testa per giorni, anche queste riarrangiate per l’occasione secondo un gusto contemporaneo da Maurizio Abeni, già allievo di Trovajoli, e eseguite dal vivo, come nei migliori teatri del West End, da un’eccezionale orchestra di sedici professori. Non possiamo poi non menzionare il corpo di ballerini/cantanti che ripete le coreografie originali di un altro grande maestro e talento italiano, Gino Landi, presente alla recita.
Ma sono anche i temi trattati nella storia a rendere questo spettacolo eterno. C’è l’amore prima di tutto, quello innocente e infantile di Clementina per don Silvestro, ma anche quello animalesco e bucolico di Toto per Consolazione. Ci sono l’amicizia e la solidarietà di una società che si muove tutta per uno scopo comune, espresse soprattutto nella canzone della formica. Ma c’è anche l’accoglienza del diverso e dello straniero: Consolazione, inizialmente respinta per la sua poco onorevole professione, viene finalmente accolta da tutti e messa tra coloro che verranno salvati. E ancora il sacrificio del singolo per la comunità, don Silvestro che rinuncia a salire sull’arca per non abbandonare il suo gregge confuso dalle parole del cardinale che lo accusava di pazzia. Tutti temi che risuonano ancora oggi familiari alla nostra esperienza.
A tener viva la tradizione un cast di attori e cantanti eccezionali guidati da un commosso Gianluca Guidi, che ci restituisce un don Silvestro degno del padre, fedele all’originale ma tuttavia spontaneo e naturale, Emy Bergamo, nel ruolo di Consolazione, Marco Simeoli in quello del Sindaco Crispino, il divertentissimo Piero Di Blasio nel personaggio di Toto, l’Ortensia di Francesca Nunzi e la new entry del gruppo, la giovane Camilla Nigro, nel ruolo di Clementina, a cui facciamo i nostri auguri per la sua carriera, chiaro segnale che le nostre scuole sanno lavorare bene nel coltivare buoni talenti. Ovviamente un applauso caloroso è andato anche a la voce di lassù, Enzo Garinei.
Uno spettacolo da non perdere per chi ama il teatro e che ci auguriamo di rivedere per molte stagioni ancora.
data di pubblicazione:03/12/2018
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 23, 2018
(Piccolo Eliseo, 15 novembre – 2 dicembre 2018)
Scena grigia di una provincia inglese qualunque, quattro amici si ritrovano insieme nei pressi di un molo. Di fronte a loro solo il mare e i pensieri. Sono vestiti a lutto e bevono birra, Frankie è morto e come loro aveva solo 25 anni. Chi era Frankie? Cos’è la vita di provincia?
Un testo brillante, giovane, ironicamente intelligente, attuale, solo in apparenza banale, ma mai scontato, che ha guadagnato a Norris il premio Bruntwood 2013. Siamo davanti a un esperimento di scrittura che strizza l’occhio a un Samuel Beckett per il vuoto che i personaggi si portano dentro, ma anche al teatro epico di Brecht, con le sue didascalie che ci informano su dove siamo e a che ora si sta svolgendo l’azione. Il tempo e il ritmo della narrazione sono serrati e mantengono l’attenzione accesa dalla prima all’ultima battuta di questi dialoghi, solo ad un primo ascolto banali. Il testo in fondo è costruito su conversazioni quotidiane che possono svolgersi dovunque, in un bar come in una camera da letto. La storia rappresentata non ha tanto il sapore di un racconto, quanto l’intensità di un lampo che illumina una situazione, la morte del giovane Frankie, uno come tanti in questo luogo di provincia, dove è difficile mostrarsi per quello che si è realmente e dove gli altri fanno fatica a capire e a capirsi. Non è neanche permesso ai suoi amici chiedersi o darsi risposte sulla morte del loro amico, nei posti di provincia salvare la faccia è più importante di qualsiasi altra cosa. Si deve saper tacere la verità, meglio viverla per sé, meglio scappare altrove. Con uno straordinario meccanismo dialogico, fatto di battute che accennano ma non dicono mai chiaramente, Norris riesce a rendere reali questi personaggi, mostrandoci quanto basta per poterne capire la loro più intima essenza. So here we are (Eccoci qua, dunque!) è il titolo originale della pièce inglese.
La situazione iniziale l’abbiamo descritta: quattro amici aspettano su una banchina in riva al mare che arrivi l’ex fidanzata del loro appena defunto amico per compiere un ultimo gesto laico di commiato per lui. Ci si chiede come sia potuto succedere che abbia avuto quell’incidente che gli ha causato la morte. La seconda parte del testo è un flash back sulla notte dell’incidente. Qui si scopre cosa è accaduto a Frankie le ultime ore prima di morire. La storia si intreccia piano piano in maniera perfetta come i filamenti di una ragnatela. I punti si collegano tra loro attraverso un gioco drammaturgicamente perfetto. La verità viene finalmente fuori.
Un testo affascinante quello messo in scena da Silvio Peroni e bravi tutti gli attori della compagnia che meritano di rimanere in scena a godersi l’applauso prolungato e sentito del poco (ahimè!) pubblico presente. Uno spettacolo azzeccato che è ottimo preludio al festeggiamento del centenario del teatro Eliseo.
data di pubblicazione: 23/11/2018
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 21, 2018
(Teatro Olimpico – Roma, 20 novembre/16 dicembre 2018)
Una madre, un padre, un figlio, una figlia, una famiglia perfetta alle prese con il da farsi di tutti i giorni. Un fatto improvviso però accade e scombina gli equilibri di tutti, creando disorientamento e riflessioni. Ma non disperiamo, il finale da commedia riporta in scena la tranquillità che avevamo all’inizio.
La tournée in giro per l’Italia di Non mi hai più detto ti amo arriva a Roma e riceve una partecipazione di pubblico eccezionale e sorprendente, merito certamente di un’ottima pubblicità, ma anche della coppia, già sperimentata con successo due decenni fa nel musical Grease, Cuccarini-Ingrassia. Il teatro è strapieno per la prima, da notizie rubate in sala si viene a sapere che ben 200 persone in più rispetto alla capienza degli oltre 1400 posti di cui il teatro Olimpico dispone, erano in lista di attesa per una poltrona. Guardando a questi numeri si rimane colpiti e si capisce che il tipo di spettacolo, una commedia leggera che affronta un tema sempre eterno come la famiglia, attira un pubblico vasto e variegato.
Lorella Cuccarini è Serena, una madre e una moglie perfetta, non si poteva scegliere un’attrice migliore per questo ruolo oserei dire, ma che in seguito a qualcosa che le accade, non sveleremo cosa per non andare a togliere il gusto dell’unica sorpresa di cui la trama è fornita, si scopre anche e soprattutto donna. Giulio, interpretato con spontanea naturalezza e maturità da un bravo Giampiero Ingrassia, è suo marito, medico e padre forse un po’ distratto. La coppia ha due figli, maschio e femmina naturalmente, da poco usciti dall’adolescenza che si trovano a dover affrontare la novità che accade e sconvolge la loro innocenza e a maturare inevitabilmente attraverso un percorso di accettazione e di presa di coscienza.
Lo spettacolo è supportato da un apparato scenografico curato al minimo dettaglio, che non ambisce a demandare a fattori simbolici altri significati. Tutto concorre a sottolineare un super realismo nel quale ognuno possa rispecchiarsi: in fondo la storia che si racconta potrebbe capitare a tutti…se almeno tutti avessimo una famiglia “normale”. Sicuramente una scenografia importante, completa di doppio palco girevole, che però mal si sposa a nostro avviso con un testo debole, che fatica a decollare sia nella scelta lessicale che in quella della trama, troppo televisivo anche nell’impianto forse e per questo banalmente semplice.
Bravo Fabrizio Corucci nel ruolo del signor Morosi, paziente di Giulio, al quale sono affidati brevi, ma divertenti siparietti e gag che fanno sorridere. Ci avrebbe fatto piacere che la sua parte fosse stata più lunga.
Ci aspettavamo qualcosa di più, ma uno spettacolo ben organizzato è pur sempre uno spettacolo bello da vedere.
data di pubblicazione:21/11/2018
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 16, 2018
(Teatro Trastevere – Roma, 15/18 novembre 2018)
Chicago anni Venti del secolo scorso, il ricco Shlink, immigrato orientale proprietario di una grossa fabbrica di legname, entra in una biblioteca e trascina in una lotta senza motivo l’impiegato di turno, il giovane George Garga. Il primo pretende di comprare le opinioni del secondo, sfidandolo fino a che questo non cede alla tentazione di accettare tutta l’azienda che il potente imprenditore gli offre. Il ribaltamento della condizione sociale che si determina scatena il dramma, che si estende a tutti coloro che gravitano intorno ai due personaggi fino alla soluzione finale, dove un terzo individuo, finora insignificante, si appropria dell’azienda del primo e della famiglia del secondo.
Quando Bertold Brecht scrisse questa opera il teatro epico era ancora lontano dall’essere teorizzato, ma già dietro questo dramma, composto quando l’autore aveva appena 23 anni, si trova espressa, chiaramente in forma ancora germinale, la domanda che stimolerà tutta la sua produzione a venire: può il teatro rappresentare la società? Questo testo è quindi un esperimento per Brecht, tanto che ci fu bisogno di una riscrittura sei anni dopo la prima pubblicazione del 1922. Fare teatro allora diventa un vero e proprio atto di coraggio: lo fu per l’autore alle prime armi e lo è ancora oggi per questa compagnia in scena fino a domenica nel piccolo teatro di Trastevere e lo è per lo stesso teatro che ha scelto di mettere in cartellone il titolo. Coraggio e passione muovono questa messa in scena, povera e essenziale, perché il teatro si fa anche con i vestiti e gli oggetti che troviamo in cantina o buttati negli armadi, e l’impatto è straordinario e lascia ammirati. Brecht in fondo proponeva un teatro altro che fosse capace di staccarsi dallo sfarzo e dall’ingente impiego di mezzi che le grandi produzioni anche all’epoca richiedevano. La magia sta proprio nello scoprire in questi teatri “minori” e quasi sconosciuti compagnie di attori che sperimentano con dignitoso gusto testi antichi che altrimenti rimarrebbero incastonati nelle pagine polverose di un libro e di questi si deve lodare lo sforzo, genuino e sincero, che si legge nelle membra tese del corpo, nella concentrazione dello sguardo, nel sudore, vero, che cola dalla fronte.
Nella giungla delle città non è testo facile da rappresentare né da seguire, quello che si narra non è altro che una lotta immotivata tra individui che nella stessa società ricoprono differenti e opposti ruoli, ma sicuramente arricchisce di nuovi concetti la nostra esperienza e rende i piccoli teatri come questo luoghi dove vale la pena ogni tanto di andare a trascorrere una piacevole e costruttiva serata.
data di pubblicazione:16/11/2018
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 3, 2018
(Teatro Eliseo – Roma, 30 ottobre/25 novembre 2018)
Parigi 1640. Cavalieri e servi, paggi e cadetti, attori e spettatori, gente del popolo, c’è tutta una società sulla scena a comporre gli ingredienti della pièce di Rostand, rappresentata per la prima volta nel 1897 è destinata ad avere lunga vita sulle scene per il suo grande valore affidato alla forza dell’arte e della parola. Saranno i romantici versi di Cyrano o la bellezza giovanile di Cristiano a conquistare il cuore della bella Rossana?
Al via la stagione numero cento del teatro Eliseo con il Cyrano di Barbareschi. Un numero importante di anni, tanti quanti ci separano dalla morte di Edmond Rostand, autore della commedia, che veniva a mancare esattamente l’anno in cui in teatro si apriva per la prima volta il sipario. Una doppia occasione allora per celebrare questo spazio dedicato all’arte scenica e all’intrattenimento. Ed è proprio un omaggio all’arte la regia di questo spettacolo, cinque quadri divisi in due atti, con cambi di scena a vista. Numerosa la compagnia in scena: 23 attori si dividono le oltre 45 parti che Rostand aveva scritto. C’è un’intera società a essere rappresentata nella storia, in cui è ravvisabile la nostra, fatta di chiacchiere e sfide, spavalderia “guasconesca” e apparenza, che trovano campo fertile tra i social che quotidianamente frequentiamo attraverso lo schermo dei nostri telefonini. Ma siamo nel Seicento e allora al posto degli schermi elettronici abbiamo una quadreria tutta a intorno alla scena, cornici che vanno a coprire tutta la scatola magica dal pavimento del palcoscenico fin sopra la graticcia, lasciando visibile tutta la struttura del teatro stesso, che solitamente è coperta dalle quinte e dal fondale. Una scena avvolgente e di grande impatto visivo quella creata da Matteo Soltanto arricchita dalle cappe, dalle piume, dalle gorgiere e dai merletti nel disegno dei costumi di Silvia Bisconti. Possiamo dire senza ombra di dubbio che l’impegno nella produzione di questo spettacolo ha dato i suoi ottimi frutti. Bravi anche gli allievi e le allieve del corso di recitazione della Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté che accompagnano, con estrema concentrazione e precisa cadenza ritmica, la recita in versi martelliani di Luca Barbareschi nel ruolo principale. In fondo è Cyrano il centro di tutta l’azione, è lui il segreto regista e architetto che sta dietro i movimenti di Cristiano, è lui la parola eccellente che fa innamorare Rossana e che sferza a duello l’arroganza della nobiltà, ancor prima della sua veloce spada. Barbareschi ce lo restituisce in tutta la sua forza, quella che costringe l’attore in scena per tutta la durata della pièce, con una recitazione potente e energica, ben studiata, ma che sa diventare commovente quando deve appoggiare il bacio (il famoso “apostrofo rosa”), che consegna alla sua amata con una leggerezza tale da sembrare una piuma del suo cappello che si poggia delicatamente a terra. Viva l’arte e viva la potenza della parola viene da dire quando la recita è finita: è l’arma con cui Cyrano combatte l’arroganza e la protervia di De Guiche e l’ignoranza di Cristiano, e fa volare alto Rossana che ha orecchie e cuore per ascoltare.
data di pubblicazione:03/11/2018
Il nostro voto:
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