da Paolo Talone | Ott 13, 2019
(Teatro Brancaccino – Roma, 10/13 ottobre 2019)
La straordinaria abilità recitativa di Ugo Dighero a confronto con due testi tratti dall’opera antologica del premio Nobel alla letteratura Dario Fo.
È diventato ormai da tempo un cavallo di battaglia per Dighero portare in scena i brani di Dario Fo Il primo miracolo di Gesù bambino e La parpàja topola, tratti rispettivamente da Mistero buffo (1969) e da Il fabulazzo osceno (1982), non solo in Italia ma anche all’estero. L’attore si cimenta in una prova non facile, per la quale è necessario tanto studio e allenamento. Il risultato è originale e coinvolgente tanto da far dimenticare nell’interpretazione il suo stesso ideatore. L’accento comico si sposta da una battuta all’altra in un ritmo serrato dalla precisione di un metronomo. Tutto è costruito sulla forza della parola e del gesto. Come nelle rappresentazioni di Fo non c’è utilizzo di altri inutili tecnicismi. Anche le luci sono ferme e non ci sono scene. Il corpo dell’attore – alle prese con un mal di schiena vero che è pretesto all’improvvisazione di ulteriori lazzi – tradisce tutto ciò che c’è da vedere sulla scena, anche i numerosi personaggi di cui è interprete contemporaneamente. Tutto quello che è evocato sulla scena si dipinge nella mente dello spettatore, a cui si chiede solo di immaginare. La lingua è il grammelot – un pastiche di dialetto lombardo e suoni onomatopeici – che ha potenza di muovere la fantasia alla completa comprensione.
Ne Il primo miracolo di Gesù bambino il racconto si concentra sull’infanzia del dio fatto uomo. Si racconta la sua umanità, il rapporto con i genitori, con la madre in particolare, senza però profanare quanto di sacro è nel mistero. Nonostante siano passati cinquant’anni dal primo debutto del testo si ride ancora a crepapelle e ne si ammira l’attualità, perfettamente declinata nei problemi sociali di oggi. Gesù è un bambino bullizzato dai suoi coetanei e allontanato dai giochi perché forestiero, palestinese. Chissà quanti bambini oggi vivono la stessa situazione per colpa di una politica allarmista. Ma la capacità del bambino divino di trasformare un pugno di fango in un uccello che vola davvero lo fa eleggere re dei giochi e castigatore del figlio del padrone, prepotente e guastafeste.
La parpàja topola è invece la storia di Giavan Pietro, un contadino sempliciotto – visto come un possibile antenato di Forrest Gump – che alla morte del padrone eredita una ricchezza immensa. Ambito dalle donne del paese ha però difficoltà ad avvicinarsi a loro per via della paura della misteriosa topola che con un morso potrebbe mozzargli le dita. Sarà la visione di Alessia a fargli cambiare idea. Inutile dire che anche qui comicità e divertimento si raggiungono senza cadere mai nella volgarità e nel troppo spinto.
Uno spettacolo riuscito che va goduto dalla prima all’ultima battuta.
data di pubblicazione:13/10/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 4, 2019
(Teatro Quirino – Roma, 1/13 ottobre 2019)
Commedia dalle tinte scure. Nella penombra di un appartamento una coppia di coniugi gioca a strapparsi dal viso una maschera che il tempo ha incollato al volto. La soluzione al difficile caso è accettare di confessare la verità.
Veste rinnovata per il teatro Quirino Vittorio Gassman di Roma che accoglie il pubblico alla prima di stagione con poltrone restaurate di nuovo velluto, sempre di un rosso acceso, merito dell’iniziativa prenditi cura del teatro Quirino, attraverso cui ogni spettatore può offrire il suo contributo e vedere il proprio nome impresso su una targa apposta sulle poltrone. Per un teatro poco sostenuto dagli enti Istituzionali questa risulta essere un’iniziativa importante.
A debuttare sul palco una commedia a due voci scritta da uno degli autori più prolifici e attivi del nostro tempo, il francese Éric-Emmanuel Schmitt. Piccoli crimini coniugali – di cui esiste una versione cinematografica recensita da noi in un articolo di Antonio Iraci – mette in scena la fatica di una coppia, ormai avanti con l’età e con i problemi, che vacilla a ritrovare un equilibrio stabile ai suoi tormenti.
Anna Bonaiuto restituisce in scena una moglie sì devota, ma non sottomessa, fragile ma non rassegnata, e mai soprattutto tragica. Michele Placido è Marco, uno scrittore di romanzi polizieschi che ha una teoria per tutto, specialmente per non cambiare le cose.
Il racconto si snoda lungo un tortuoso e serrato dialogo tra i due protagonisti, che vivono insieme ormai da 20 anni. Marco torna a casa dopo un ricovero di quindici giorni in ospedale dovuto a una ferita alla testa che si è procurato in un misterioso incidente casalingo. Lisa lo accompagna. L’incidente ha causato in Marco una curiosa amnesia: ricorda perfettamente le cose del passato, ma per niente quelle accadute di recente, tantomeno come abbia potuto picchiare la testa. Il fatto rimane un pretesto per far aprire tra i due un confronto sulla loro vita coniugale, fatta di difetti e colpe che non risparmiano di rinfacciarsi. Il dubbio si insinua nei loro ragionamenti e serve da strumento per smascherare le loro bugie.
Il testo drammaturgico è ricco e complesso, a tratti eccessivamente filosofico che si fa fatica a seguire, ma compatto nel suo svolgersi – unità di tempo e luogo sono rispettate – e condito di imprevisti e colpi di scena che danno movimento alla vicenda. Marito e moglie si scambiano di volta in volta il ruolo di vittima e di carnefice, in un gioco quasi pirandelliano di punti di vista, che fanno cambiare continuamente opinione sulla storia. Chi sarà il primo dei due a voler uccidere l’altro?
data di pubblicazione:04/10/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Set 18, 2019
(Teatro Vascello – Roma, 16 settembre 2019)
Se esiste un modo per raccontare con sublime trasporto un popolo nella sua tragicità, questo non può che essere la poesia. Al via con uno spettacolo di teatro musicale del grande Moni Ovadia la stagione del teatro Vascello.
Il teatro che ci piace partecipare è fatto di memoria, di consapevolezza civile e umana. Trova nell’impegno politico, quello fatto di intramontabili buone ideologie – che mettono avanti l’umanità – la sua giusta collocazione. Si nutre del presente, guardandolo con occhi di speranza e fiducia, ma non dimentica il passato. Anzi lo racconta sotto la nobile forma dell’arte. È il luogo dell’incontro tra persone e personaggi di mondi lontani eppure vicini, della riflessione, del confronto con la diversità che non vuole primeggiare ma soltanto rispecchiarsi e ritrovarsi. In queste parole le intenzioni del programma per la stagione 2019 – 2020 del teatro Vascello.
Sul palco a inaugurare la lunga serie di appuntamenti un Maestro indiscusso della scena, un artista poliedrico e unico, narratore e incantatore, etnologo e musicologo dalle infinite conoscenze, Moni Ovadia, in collaborazione con il Circolo Gianni Bosio, punto di riferimento per la raccolta di materiale musicale della tradizione popolare. Lo spettacolo è una lettura di brani scelti tratti da un poema dello scrittore greco Jannis Ristos, di cui Ovadia è – prima ancora che ammiratore – un instancabile divulgatore. Il componimento si intitola Romeosini e parla della Grecia. Il vento che soffia forte dalla penisola ellenica trasporta con sé l’eco di una terra ferita, troppo spesso dimenticata – sono raccontati nei nostri libri in piccoli paragrafi i conflitti che l’hanno vista vittima lo scorso secolo – con la quale abbiamo un debito immenso di riconoscenza, che ancora oggi soffre dell’umiliazione della crisi economica. Ma trasporta anche i colori e i profumi delle montagne e del mare, del sole che illumina gli esseri viventi e le pietre, della luna che di notte cerca i suoi figli tra i cadaveri dei soldati, e delle stelle che sono gli occhi testimoni del cielo. La natura si antropomorfizza in un’infinità di immagini, pescate nel pozzo del mito e della storia, il tesoro della grecità non solo classica. La poesia diventa un gesto di resistenza, arma di denuncia e di perdono insieme, atto eversivo e di riscatto. La lingua che si ascolta con il vento è quella del greco demotico, parlato dal popolo, espressione della tradizione. È una lingua arricchita da vocaboli provenienti dalla dominazione turca, da barbarismi, da influssi slavi e veneti. La musica è il supporto a cui è affidata, non ci sarebbe altro modo per comprendere per chi come me non la parla. Roberta Carrieri è la straordinaria voce che canta i brani che fanno da cornice tra una lettura e l’altra, accompagnata da lei stessa alla chitarra e da Dimitris Kotsiouros a due strumenti cari alla cultura mediterranea, il bouzouki e l’ud.
Immancabile infine l’ironia, elemento caro a Moni Ovadia, che risolve lo spettacolo nella lettura di barzellette sulla situazione attuale della Grecia.
data di pubblicazione:18/09/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Giu 1, 2019
(Teatro Trastevere – Roma, 28 maggio/2 giugno 2019)
Durante la cena di fine anno i lavoratori di un’azienda vivono la minaccia di un possibile licenziamento. Riuscirà il personale a far fronte alla crisi e a creare nuove idee per risollevare la situazione?
Una commedia spassosa e brillante quella in scena fino a domenica al Teatro Trastevere, che chiude in bellezza il cartellone del teatro regalando al pubblico divertimento e risate.
Nata da un’idea di Alessia De Bortoli (sul palco interprete di Costanza, una merketing manager super perfezionista) e scritta per la scena da Adriano Bennicelli, la commedia ci mostra in due atti quello che potrebbe succedere se durante una cena di fine anno (questo il pretesto per ambientare la storia) il dirigente dell’azienda decidesse di comunicare ai suoi dipendenti la decisione di ridimensionare il personale per sopraggiunta crisi finanziaria. La crescita e le vendite della Grandiflora S.p.A. (impresa che si occupa del commercio di piante tropicali) non incrementano e quindi bisogna mandare a casa qualcuno. Immaginate il panico. Ma una soluzione è possibile e dovranno trovarla i dipendenti tutti insieme e scongiurare così il licenziamento.
Tra lazzi con oggetti e discorsi di corridoio, battute dette in dialetto romanesco e condite con inglesismi, passando per equivoci e segreti trattenuti e poi svelati, la scena si anima in un intreccio esilarante e travolgente. I personaggi sono costruiti sui modelli che si potrebbero trovare in qualsiasi ufficio, ma non per questo sono scontati. Bravissima per questo la squadra di attori impegnata sul palco, tutti giovani e ben affiatati tra di loro. Non è facile tenere il ritmo di questa commedia dove gli equivoci si moltiplicano scena dopo scena.
Il lieto fine è assicurato e anche tanto divertimento.
data di pubblicazione:01/06/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Mag 10, 2019
(Teatro Trastevere – Roma, 7/12 maggio 2019)
La storia del borgataro romano, ladro e pappone per professione, torbido e spavaldo sbeffeggiatore della vita tanto quanto della morte, rivive in una eccellente trasposizione teatrale.
Prima di essere impressa su pellicola, la storia di Accattone era già stata annunciata nella letteratura pasoliniana. Il passo era quasi obbligato vista la portata cinematografica del suo modo di raccontare. La decisione di farne una traduzione teatrale appare come una rischiosa novità, ma non fuori luogo per un personaggio dai caratteri fortemente drammaturgici come Vittorio Cataldi. Ottimo e riuscito nella sua originalità l’esperimento tentato dalla compagnia dell’Associazione Culturale I Nani inani diretta da Enrico Maria Carraro Moda, nei panni del protagonista.
La regia è affrontata secondo il linguaggio del teatro epico. Un display elettronico attivato in scena dagli attori attraverso un telecomando elenca in forma di capitolo i vari episodi di cui la storia è costruita. Lo spettatore è costantemente avvertito e invitato a prendere coscienza dello scandalo di cui i personaggi si fanno veicolo. L’attenzione è mantenuta viva, diventa partecipazione di fronte alle provocazioni insolenti di Accattone, che chiama il pubblico a farsi giudice della vita e della morte. La sala intera diventa lo spazio scenico nel quale si svolge l’azione. Il teatro si trasforma ipoteticamente nella periferia romana, ma delle sue baracche percorse da strade polverose e accecanti non rimane nulla in termini visivi. La borgata è ora una condizione dell’animo, un suggerimento dato dalle luci fortemente espressive. Lo stesso fiume Tevere è poca acqua contenuta in un bidone della spazzatura, nel quale si tuffa e riemerge arrogante e spavaldo Accattone.
Uno spettacolo da non perdere, in scena fino a domenica al Teatro Trastevere.
data di pubblicazione:10/05/2019
Il nostro voto:
Gli ultimi commenti…