da Paolo Talone | Ott 31, 2019
(Teatro Belli – Roma, 29/31 ottobre 2019)
Due assistenti sociali trovano morto in casa il loro assistito, di cui non sanno nulla oltre il nome e l’indirizzo di casa. La ristrettezza economica in cui si trovano le fa escogitare un piano per arrotondare lo stipendio.
Per volare fin sopra la luna, come recita il brano di Frank Sinatra, occorrono un paio d’ali, mettiamo anche quelle della fantasia, di certo non le gambe. Lo sa bene l’attrice Alice Arcuri costretta per una brutta bruttissima distorsione al piede a recitare da seduta, come ci avverte carinamente la sua compagna di lavoro Eva Cambiale a inizio spettacolo. La scelta di andare comunque in scena con una regia riveduta non ha tolto nulla a questo testo dell’irlandese Marie Jones, una commedia insieme divertente e amara sulla condizione della working classinglese del nuovo millennio. Una partitura per sole voci femminili.
Loretta e Francis sono due amiche e colleghe di lavoro, delle moderne Laverne e Shirley(nota e divertente sitcomamericana degli anni ’80) con le quali condividono complicità e ironia come coppia comica, che vivono in un tempo storico difficile, quello della regressione dopo la crisi economica che ha colpito il mondo occidentale nel 2008. Il misero stipendio che gli dà il governo – 7 sterline e mezzo l’ora ovvero il corrispettivo di una paga base – serve a stento a mandare avanti le loro rispettive famiglie, con figli e compagni, entrambi disoccupati, a carico. Trovato morto il vecchio – appassionato fan di Frank Sinatra – viene loro la tentazione di incassare la sua pensione e la sua vincita alle corse di cavalli, arrivata finalmente per ironia della sorte dopo il suo decesso. I pochi soldi darebbero un po’ di respiro alle due donne e la possibilità di fare insieme quel viaggio a Barcellona per l’addio al nubilato dell’amica, ovviamente con un volo low cost, quello che si può permettere la gente che guadagna poco.
Un testo fortemente attuale prima di tutto nel linguaggio, diretto e sboccato, che riflette sulla condizione sociale nella quale siamo costretti, ben ritmato per merito anche delle due bravissime attrici. Una commedia ironica che prende spunto dal vero di tante complicate e tristi situazioni.
data di pubblicazione: 31/10/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 25, 2019
(Teatro Trastevere – Roma, 24/27 ottobre 2019)
L’ultima notte di una coppia di sposi con la passione per il sadomasochismo. Una sala giochi per il loro divertimento. La visionaria interpretazione di Carraro Moda della tragedia pasoliniana.
Fresco vincitore del #Festivalindivenire2019 con lo spettacolo Il Vampa – miglior testo, migliore regia e miglior progetto sezione Lazio per il teatro – Enrico Maria Carraro Moda si confronta di nuovo con Pier Paolo Pasolini. Suo è l’adattamento di Accattone andato in scena la scorsa stagione sempre al teatro Trastevere.
Questa volta il confronto – per nulla semplice – è con una delle tragedie scritte in versi dal poeta di Casarsa, Orgia. L’architettura del testo si compone di un prologo seguito da sei quadri in cui i protagonisti, un uomo e una donna e più tardi – dopo la morte della donna – di una prostituta, si intrattengono in un gioco sadico, in cui il potere e il dominio dei corpi e della volontà ne sono scopo e motore dell’azione.
L’adattamento di Carraro Moda sfida ogni convenzione morale, è provocatorio senza motivo, onirico e allucinato per il puro gusto di esserlo. Nell’assenza di giudizio dell’immoralità trova posto appunto “Nessuno mi può giudicare” della Caselli, a cui fa riferimento il titolo. È un semplice gioco, quello di cui si maschera anche la messa in scena: dalla casa di plastica per bambini alla palla di gomma gigante, dal flipper fino alla recitazione degli attori. La cameretta dei giochi dei bambini/adulti, illuminati dal basso per far sembrare più grande la loro perversione. Tragedia dei ruoli: il padrone e la serva, il dominatore e la dominata, il castigatore e l’innocente. Il potere esercitato per il potere stesso, perché il possedere determina l’esistenza sia del carnefice che della vittima nell’essere posseduta.
Benché è senza dubbio abile e capace come regista e attore Enrico Maria Carraro Moda a riplasmare in maniera originale l’opera pasoliniana, questa volta dobbiamo esprimere una certa perplessità. Il testo si stalla in inutili pause e non gode di una contestualizzazione che ne giustifichi la scelta. Il gioco bambinesco è reiterato all’eccesso. Rimane comunque un’impresa degna di nota quella di aver lavorato su un testo teatrale ostico e difficile come Orgia.
data di pubblicazione:25/10/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 24, 2019
(Sala Umberto – Roma, 22 ottobre 2019)
Uno spettacolo che celebra la drammaticità della condizione della donna. Una visione ironica e intelligente come solo Dario Fo e Franca Rame potevano restituirci. Un’attrice eccezionale sul palco a raccontarcelo.
Si chiude in bellezza la rassegna romana di eventi dedicati a Dario Fo e al suo teatro alla Sala Umberto di via della Mercede. Bella in particolare Valentina Lodovini e così brava da trasmettere al pubblico grande emozione e partecipazione. Un’attrice matura, ricca di esperienza e carisma, che possiede pienamente un caleidoscopio completo di registri comici. Si ride tantissimo e si riflette: la condizione di sottomissione sessuale della donna all’uomo, con ciò che ne deriva, è il tema portante e – ahimè! – ancora tremendamente attuale, in Italia e in tante parti del mondo.
Il testo si suddivide in tre parti, come le tipologie di donna presentate o, per meglio dire, le condizioni in cui una donna può venire a trovarsi: la casalinga, l’amante e l’operaia.
Se è facile intuire come si possa svolgere la vita di una casalinga, segregata in casa dal marito geloso, alle prese con i figli, la casa, il cognato invalido che allunga l’unica mano funzionante e le chiacchiere con la dirimpettaia, non si può dire altrettanto del finale. Accade infatti qualcosa di assurdo e inaspettato, che ribalta lo stato di vittimismo della donna. Ci piacerebbe vedere questo riscatto anche nella vita vera di tante donne, ma la soluzione è appunto questa: assurda, come assurda appare una possibile rivalsa femminile in genere.
Le altre due storie terminano con altrettanti finali impossibili ed è amaro constatare quanto lo scenario di violenza contro le donne sia ancora tremendamente attuale, rispetto anche a quando il testo venne rappresentato per la prima volta nel 1977. Proprio di questi giorni è la notizia dell’uccisione di Hevrin Khalaf, ultima di innumerevoli morti, femminista e attivista politica curda, vittima del regime turco e degli jihadisti.
A chiudere lo spettacolo, come epilogo – staccato dal resto della narrazione ma tematicamente coerente – Alice nel Paese senza Meraviglie, una drammatica e distorta immagine della vicenda favolesca, che con rabbia racconta ancora la prepotenza maschile sulla debolezza femminile.
data di pubblicazione:24/10/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 22, 2019
(Sala Umberto – Roma, 21 ottobre 2019)
Sono passati 50 anni dalla prima volta che Mistero buffo andò in scena tra gli studenti dell’università di Milano; 20 dall’ultima volta che Pirovano è stato a Roma, in cui ritorna con una selezione di cinque giullarate del grande artista per tre ore di spettacolo. Roma celebra Fo.
La giornata di studi su Mistero buffo
La rassegna Roma per Fo inizia già nel pomeriggio alla Sala Umberto, nel foyer del teatro. Raccolto intorno ai relatori c’è un piccolo pubblico di interessati, l’atmosfera è accogliente. La giornata di studi intorno a Mistero buffo è moderata da Mattea Fo che da subito la parola a Felice Cappa, autore, regista e amico di Dario e Franca. Con i loro nomi propri vengono chiamati i due artisti, a testimoniare la familiarità e l’amicizia che li legava ai loro collaboratori. L’argomento di questo primo intervento è rivolto alle immagini, le tante immagini raccolte da Fo per dare vita alle sue giullarate e quelle che egli stesso realizzò per i suoi spettacoli – le famose lastrine, diapositive su vetro proiettate per presentare i testi recitati. La cultura visiva è la fonte primaria delle opere di Dario insieme alla trasmissione orale degli innumerevoli racconti popolari. Il tema è unico: la storia dell’eterno conflitto tra il popolo oppresso e povero – Dario non amava gli eroi – e il potere che lo dominava, risolto sempre con un registro ironico e satirico.
L’intervento di Maria Teresa Pizza (curatrice dell’archivio Fo/Rame) illustra invece come si muove la macchina teatrale creata dalla formidabile coppia, che del rapporto con il pubblico, e quindi dall’accoglienza nello spazio teatrale e nel saluto fino al dibattito dopo ogni spettacolo, si nutre e prende ispirazione. Il loro non era solo un mestiere, ma anche un’etica: il teatro che proponevano si nutriva di quello che accadeva nelle piazze tra la gente. Era il loro modo di fare politica. Inutile dire quanto questa attenzione al popolo abbia reso Dario Fo anche un ottimo storico, ricercatore e scopritore di piccoli fatti nascosti nelle carte di archivio che talvolta sono serviti a leggere meglio diverse vicende umane.
L’incontro si chiude con una notizia sul numero delle regie dei testi di Fo e Rame che sono in giro per il mondo in questo momento, ben 7500 quelle censite. Testimonianza del successo ma anche della capacità di queste opere di dare ancora senso alla situazione degli oppressi a ogni latitudine. Saluta infine Mario Pirovano che presto, è quasi ora di cena ormai, sarà sul palco con Mistero buffo.
Lo spettacolo
È in perfetta sintonia con la tradizione teatrale dettata da Dario Fo che Mario Pirovano imposta la sua interpretazione, fedele soprattutto del testo. Si incontrano casualmente a Londra all’inizio degli anni ’80 e tra loro comincia un viaggio i cui frutti si raccolgono sul palco ancora oggi. Pirovano viveva in Inghilterra, ma la conoscenza di Dario e Franca determina per lui un cambiamento. Viene invitato a tornare in Italia per lavorare nella compagnia come attrezzista, autista, elettricista ecc. Attore lo diventa per caso. Mentre si trovava a sedare una lite tra alcuni ragazzini improvvisa per loro il racconto de Il primo miracolo di Gesù bambino e subito si accorge di avere tutto il testo già dentro, ingoiato e digerito per bene, senza saperlo.
A oggi è uno degli interpreti più straordinari del repertorio Fo/Rame: vederlo a teatro è una grande fortuna. La fedeltà al testo e alla mimica di Dario, nonché una certa vaga somiglianza tra i due, aggiunge all’evento un ché di miracoloso. Tuttavia è dalla sua personale esperienza e dalla sua storia – che inizia in un paesino nel novarese – che prende ispirazione per le voci dei personaggi e per le movenze a loro collegate.
Da subito Pirovano stabilisce un contatto con il pubblico, le luci che rimangono accese in sala quando appare in scena ne sono il segno. Il popolo è il protagonista di Mistero buffo, ne è l’anima. Per questo le giullarate che contiene e quelle che vengono scelte per essere rappresentate vanno costantemente ricontestualizzate. Così se alla fine del 1969 la strage di Piazza Fontana fece guardare il brano dedicato a Bonifacio VIII da una certa prospettiva, oggi questa stessa giullarata non può che ricordare il grottesco di alcuni personaggi della nostra politica – qualcuno dal pubblico urla “Salvini”. Gli esempi e le connessioni si moltiplicano via via che lo spettacolo va avanti. Il prologo a ogni brano è un momento di scambio e una lezione. Interpretare La fame dello Zanni o La nascita del giullare (che insieme al già citato Bonifacio VIII e a Il miracolo di Lazzaro e a Il primo miracolo di Gesù bambino sono la scelta di questa serata) con l’occhio puntato al presente storico in cui viviamo è una necessità per questo classico che è Mistero buffo. I testi in esso contenuti si nutrono della linfa della storia da cui provengono e di quella a cui vengono rappresentati. La rielaborazione dei testi in questo senso è una caratteristica che Pirovano non manca di rispettare.
Il momento creativo e teatrale, che nasce dal dialogo dell’attore con la platea, è di nuovo ripetuto. Forse meno azzeccato il luogo sociale in cui esso è presentato: paradossalmente i teatri sono i luoghi meno adatti per questa rappresentazione. Tuttavia speriamo solo di non dover passare tanto tempo prima di rivedere in scena da qualche parte a Roma Mario Pirovano.
data di pubblicazione:22/10/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 16, 2019
(Teatro Quirino – Roma, 15/27 ottobre 2019)
Una stanza in una casa. Un affaccio su Napoli. La vita di una famiglia nello scorrere del tempo che muta le cose, ma non ne intacca il valore. L’autore de “I bastardi di Pizzofalcone” incontra un regista sensibile e intimo come Alessandro Gassmann.
Valerio Primic è uno scrittore che ha goduto nella vita di grande fama e successo, ma non pubblica più nulla ormai da molto tempo. A farglielo pesare è la moglie Rose, che lo rimprovera di passare tutto il tempo rinchiuso nel suo studio, mentre oltre la porta – quella che dà sul resto della casa dove tutta la famiglia vive una vita dinamica – le cose precipitano rovinosamente verso una crisi economica preoccupante. Anche il figlio Massimiliano non sembra andare d’accordo con il padre, a cui rinfaccia le troppe assenze nei momenti importanti, l’ordine maniacale con cui tiene in ordine i suoi libri – che sommergono letteralmente la scenografia, organizzati non per autore o argomento, ma secondo una “omogeneità emotiva” ovvero una concordanza di sentimenti nei contenuti – fino a confessargli la propria omosessualità come ad arrecargli un dispetto. Adele, la figlia più piccola, è l’unica che passa volentieri il tempo dentro la stanza in compagnia del padre, del quale però subisce il fascino fino a cercare negli altri uomini la figura che sia all’altezza di competere con lui, anche negli anni. L’unica a supportarlo e a guidarlo con consigli pescati nella saggezza popolare, ad avere cura di lui, è Bettina – la cameriera che ascolta ogni minimo rumore della casa da dietro un’altra porta – a cui Valerio si oppone con un linguaggio troppo più alto per lei, generando momenti di edoardiana comicità. Le scene si susseguono una dopo l’altra in una sequenza che ne ripete ciclicamente la struttura. A tratti può annoiare, ma serve ai personaggi per dialogare – monologando – con l’unico protagonista presente in scena per tutta la durata dello spettacolo: il padre. La sua unica colpa sembra essere quella di osservare e di rispondere ai familiari con piccoli silenzi, che se sommati però diventano un silenzio grande, forse troppo per essere sopportato. Per Massimiliano Gallo (il padre) è una grande prova d’attore, al quale si affianca un’eccezionale e applauditissima Monica Nappo (Bettina, la cameriera).
La casa viene venduta per acquistarne una più piccola e riportare finalmente un po’ di serenità alla famiglia. A turno tutti entrano nello studio per salutare il luogo testimone dei fallimenti e delle incomprensioni, le mura che hanno ascoltato le più segrete confessioni e che ha visto nascere libri di successo. La stanza diventa quasi personaggio tra i personaggi. Di lei vediamo solo due pareti che creano una fuga prospettica di cui Valerio Primic ne è il centro focale. È il luogo del ricordo, dolce e amaro, zavorra a volte da cui ci si deve alleggerire.
La commedia si risolve nella semplice celebrazione della bellezza che si trova nascosta nelle cose ordinarie della vita, quella che attraversa ognuno. Il coup de theatre nel finale cambia la lettura delle cose e ne innalza improvvisamente il valore. Ora si può traslocare altrove.
data di pubblicazione:16/10/2019
Il nostro voto:
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