da Paolo Talone | Nov 30, 2019
(Teatro Belli – Roma, 28 novembre/1 dicembre 2019)
The match box – la scatola di fiammiferi. Sola su un’isola della Contea di Kerry – Irlanda – una madre racconta il dolore della scomparsa della figlia.
Bruciano uno dietro l’altro i fiammiferi della scatola che Sal tiene in tasca. Come in un rituale ripete all’infinito il gesto di accenderli che appare fin da subito ossessivo, nevrotico. In quella fiamma che divampa e scompare in pochi secondi c’è tutto il suo tormento, il suo inferno nell’odore di zolfo che sale pungente al naso. Non capiamo perché all’inizio, ma sentiamo disagio davanti a questa donna minuta, vestita in modo semplice, comune. C’è qualcosa di terribile che si nasconde dietro questa aria anonima, qualcosa di indicibile. La solitudine che la circonda è sconfortante. Più che sola capiamo che vive isolata. Unico pezzo di arredamento nel buio cottage in cui si trova una sedia. Persino la finestra è spettrale, troppo alta perché ci si possa affacciare per vedere cosa succede fuori, ottima per difendersi dagli occhi indiscreti di chi vorrebbe sbirciare all’interno. Eppure si vedono le nuvole che corrono in cielo e tracciano lo scorrere del tempo. La luce che penetra regala un’atmosfera crepuscolare e silenziosa, quella dell’Irlanda che si affaccia sull’oceano. È da queste zone che proviene la famiglia di Sal, ma al tempo dei fatti vivevano tutti in Inghilterra: lei, i suoi genitori e l’unica figlia di dodici anni, Mary. Un brutto giorno proprio Mary, tornando da scuola, rimane uccisa da un proiettile vagante. C’era stata una sparatoria tra fratelli, probabilmente interessati nel traffico di stupefacenti. In città è quello che si diceva. Da quel momento Sal smette di vivere. Il dolore è fin troppo grande e paralizzante, non riesce neanche a piangere per quanto è scossa. Non riesce a darsi pace; a nulla servono le cure delle amiche e l’appoggio della madre. Fino a che un giorno non è lei stessa a farsi giustizia da sola. In fondo cosa ci vuole? Un fiammifero nel pagliaio, un po’ di zolfo e poi però bisogna tenere la bocca chiusa. Così eccola lì, sola a ricordare, a convivere con il suo dolore. Francesca Bianco, la nostra Sal, interpreta magistralmente questa storia, restituendoci un personaggio autentico, credibile. Con la sua recitazione controllata, mai esagerata, grazie a una regia essenziale e composta, ci tiene incollati alla poltrona per tutto lo spazio del lungo monologo, senza annoiare e soprattutto regalandoci grande emozione e trasporto per questa triste storia.
data di pubblicazione: 29/11/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 28, 2019
(Teatro Vascello – Roma, 26 novembre/1 dicembre 2019)
Alessandro Preziosi veste i panni dell’artista olandese Vincent Van Gogh. Una versione di alta poesia e intensa analisi del periodo di reclusione in manicomio del grande pittore.
Si apre il sipario e il colore bianco della stanza dell’ospedale psichiatrico di Saint Paul de Manson, in cui è rinchiuso Van Gogh, abbaglia e cattura. L’odore assordante del bianco è il sottotitolo dello spettacolo. Il rimando a una dimensione fisica, percettiva, sensoriale è immediato e la tinta bianca delle claustrofobiche pareti contrasta di netto con le rughe di pittura coloratissima e vivace che siamo soliti ricordare nei quadri del pittore olandese. La battaglia è annunciata e il campo di combattimento, un grigio e gelido pavimento inclinato vertiginosamente, è pronto. Il conflitto si svolgerà tra lo smodato desiderio di libertà – sia creativa che esistenziale – dell’artista e il rigido carcere dove è costretto, nel quale è proibito tutto, anche dipingere, perché “l’arte agita, turba, eccita”. L’episodio che scatena l’accusa di pazzia è legato alla relazione artistica con Gauguin, con cui viene a trovarsi in disaccordo fino ad attaccarlo, presumibilmente, con un rasoio (sarà Van Gogh invece a rivolgere la lama contro di sé e a recidersi il lobo dell’orecchio sinistro). Viene quindi ricoverato a Saint Paul per essere curato. Siamo nel 1889 ad Arles in Francia, un anno prima della sua morte, nel periodo di massima espressione del suo genio artistico, sollecitato dai caldi colori e dagli sconfinati paesaggi della Provenza e dai visi della gente del posto. Tutte queste immagini mancano però alla visione dello spettatore, e l’impossibilità del gesto creativo si trasforma in un’intensa evocazione poetica.
La resa drammaturgica di Massini e la penetrante interpretazione di Alessandro Preziosi scavano in questa direzione e trascinano fuori dal personaggio, lacerandolo in sublime maniera, le reali motivazioni del suo dipingere e del suo vivere. Il pittore è il tramite, la porta attraverso la quale la realtà, una tavolozza di violenti colori, entra e si riflette sulla tela bianca. Di bianco abbiamo detto è costruita la scena, mancano i tubetti di vernice per colorarla. Anche la pianta che sboccia dal pavimento ha fiori dai petali bianchi. Manca la possibilità di espressione, di comunicazione. Le continue allucinazioni e le fissazioni della sua mente – non capiamo se la presenza del fratello Theo, venuto a fargli visita da Parigi, sia reale oppure no – peggiorano solo la sua condizione rispetto all’ottuso Dottor Vernon-Lazàre che lo ha in cura. Ci vorrà l’intervento del direttore dell’istituto, il Dottor Peyron, per riscattarlo dalla sua condizione e riabilitarlo a una vita normale. È qui allora che la scena si colora di quel giallo cromo tipico dei suoi dipinti e della sua immaginazione creativa.
data di pubblicazione: 28/11/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 26, 2019
(Teatro Belli – Roma, 25/26 novembre 2019)
Giuditta è una donna che per salvare il suo popolo uccide il nemico Oloferne, assetato di morte e di potere. La storia biblica raccontata attraverso lo sguardo interiore e visionario di Howard Barker.
Cade il 25 novembre, forse non a caso, la prima di Judith, in perfetta coincidenza con la giornata internazionale dedicata all’eliminazione della violenza contro le donne. La storia è conosciuta: nella notte che precede la grande battaglia che vedrà Oloferne attaccare i Giudei, Giuditta e la sua serva si recheranno nella tenda del generale dell’armata assira per sedurlo e poi ucciderlo, scongiurando così l’attacco.
Una fitta aria di morte si respira sulla scena, luogo non-luogo della mente. La notte è tremendamente buia e avvolge tutto in una danza febbrile di cattivi pensieri. La realtà si deforma nell’interiorità dei personaggi. Oloferne, nell’interpretazione del bravissimo Giuseppe Sartori, è colto nel suo delirio di onnipotenza, preda di cupi ragionamenti sulla morte e sul potere che assoggettata a lui chiunque. Stretto nell’orgoglio di sé stesso, l’uomo è incastrato nel male che ha costruito, come il corpetto che gli stringe il ventre, soffocandolo nella voce e nell’esistenza. È già morto prima ancora che la donna gli stacchi la testa.
Giuditta – la splendida Federica Rosellini – è lì per compiere il gesto che darà libertà a lei e alla sua gente. È lì per difendersi dalla menzogna che esso rappresenta, quella di credersi un dio, padrone indiscusso e incontestabile del giudizio di vita o di morte sugli altri. Un po’ come il falso diritto di cui si arrogano coloro che fanno violenza alle donne appunto. Decidersi di ferire il colpo non è facile, non per lei. Ci vuole giusto disgusto per il tiranno, assumere una posizione distanziata da lui, come nella celebre immagine dell’eroina in Caravaggio. Ma nello stesso tempo però occorre che i due si conoscano e si avvicinino, affinché vittima e carnefice si scambino di posto. Giungere a compiere l’atto di giustizia è per lei come addentare la scorza amara e pungente di un limone – di cui ne è pieno il pavimento della scena – per arrivare poi a berne il succo, che purifica e disinfetta. È necessario che Oloferne muoia, come ricorda la serva (Aurora Cimino) alla sua padrona. Non merita quella pietà che egli rifiuta di provare per alcuno.
Giuditta ribalta la scena della passione e del delitto – lo fa anche fisicamente rovesciando il divano rosso al centro del palco – con la sola forza del suo coraggio femminile, sfidando lo strapotere del maschio Oloferne, nuda e vulnerabile ma comunque dignitosa, pura come la sua pelle bianca.
data di pubblicazione:26/11/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 21, 2019
(Teatro Argot – Roma, 20 novembre/1 dicembre 2019)
Tre giovanissimi ragazzi intrappolati in una baita di montagna in pieno inverno. Fuori un mondo in preda al caos e alla distruzione. Una lotta per la sopravvivenza tra paure e speranze per un futuro a rischio.
Il diciannovenne Teo (Andrea Pannofino) è costretto a barricarsi all’interno della baita di famiglia insieme alla sorellina di nove anni, Alice (Flaminia Delfina De Sanctis) e alla compagna di scuola Emma (Annalisa Arena). Il mondo fuori è impazzito e le radici di questo male distruttivo rimangono sconosciute. Sappiamo solo che chi non è morto per lo sparo di un’arma da fuoco lo è per una strana malattia che non lascia segni sui cadaveri. Come in Bird Box – film diretto da Susanne Bier nel 2018 – l’umanità sembra improvvisamente colta da un male mortale, catastrofico e irreversibile. In Molto prima di domani, però, non ci sono adulti e i tre giovani ragazzi, che aspettano invano il soccorso dei genitori, devono vedersela da soli e far fronte con il poco che hanno a tutta una serie di difficoltà. Prima tra tutte la scarsità di cibo, a cui segue la mancanza di contatto con il resto del mondo – i cellulari sono praticamente inutili – e il pericolo che qualcuno ancora in vita da qualche parte possa trovarli e ucciderli. Fra i tre si crea una piccola società in cui ognuno ha un ruolo importante e sempre rivolto al bene dell’altro. La loro missione diventa sopravvivere con i pochi mezzi che hanno a disposizione e proteggersi a vicenda. L’intuito per risolvere le cose pratiche diventa la loro arma principale: dal saper accendere un generatore di corrente al saper far funzionare un vecchio baracchino per le comunicazioni radio, fino alla creazione di un sistema di allarme che li avvisi di notte se qualcuno si avvicina alla casa. Trovano il modo anche di accudire una capretta che si è persa intorno alla baita, in pieno accordo con la sensibilità dei giovani di oggi per la cura del creato.
Questa storia parla dell’urgenza di iniziare a preoccuparsi seriamente di intervenire a favore della ricostruzione di un mondo che si sta autodistruggendo. Lo fa affidando il compito non al consueto eroe ma alle nuove generazioni, a tre ragazzi qualunque. Tutto molto realistico, come anche la scenografia di Enrico Serafini, precisa in ogni dettaglio nella ricostruzione della baita. Uno spettacolo non semplice per durata e con pochi personaggi per cui bravissimi i tre attori, specialmente la piccola Flaminia, attenti e concentrati per tutti e due gli atti, a cui auguriamo di continuare per questa strada con tanto successo.
data di pubblicazione:21/11/2019
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 20, 2019
(Teatro Belli – Roma, 19/23 novembre 2019)
Tre atti unici, sei personaggi, un filo conduttore: il valore delle cose. Una divertente riflessione sul possesso materiale degli oggetti che ci circondano.
Ed trascina sua moglie Alex a una mostra di modernariato. È il giorno del loro anniversario ma lui l’ha dimenticato, tanto è frustrato dal suo lavoro di pittore che non arriva ad esporre da nessuna parte. Se la prende con la fin troppo pragmatica moglie, colpevole di percepire i pezzi esposti come semplici oggetti di quotidiano utilizzo anziché opere senza tempo di artisti di design contemporaneo. Steff e Dee si sono conosciute in chat appena un mese prima e subito vanno a vivere insieme nell’appartamento arredato alla perfezione e con gusto di Steff. Il problema nasce quando Dee, a cui non interessa nulla o poco dei mobili della compagna, porta con sé le sue cose, tra cui una poltrona davvero orrenda che non si sposa con il resto. George, infine, è un anziano signore omosessuale malato che deve organizzare il suo testamento aiutato dal nipote Michael. Lo zio vorrebbe lasciare in eredità al ragazzo una chaise longue di grande valore – dove addirittura Judy Garland ci è svenuta sopra –, ma Michael stenta a coglierne il senso.
Sono tre situazioni diverse, guidate tutte da un unico tema: il potere iconico di un oggetto capace di evocare miti e glorie del passato, che rende schiavo chi lo possiede per ciò che rappresenta e che è dotato di una eternità che all’uomo non è dato di avere. Il combattimento tra gli oggetti e loro legittimi padroni, e tra questi e il senso di morte e finitezza dell’esistenza, sta alla base della riflessione di Sonya Kelly. Gli oggetti in scena sono i veri protagonisti della pièce e sono le corde che delimitano un immaginario ring dove i personaggi si scontrano in accesi e divertenti dialoghi. Ottima la traduzione – non solo meramente linguistica – di Natalia di Giammarco, che sa restituire sfumature di significato, giochi di parole e battute a doppio senso contestualizzate nella nostra cultura e adattate al nostro gusto.
Ogni atto riporta sempre lo scontro tra un protagonista – intestardito a difendere quello che ha o quello che ha fatto – e il suo antagonista. Il secondo dovrebbe ricordare all’altro che più importante di quello che si ha è quello che si è, ma la lezione morale è solo apparente. In realtà anche questi sono incastrati nell’idolatria di qualcosa, per cui il loro ruolo si riduce a un semplice innesco della sfida con il rivale. Il dato comico sta qui: è la società dei consumi a essere oggetto di sarcasmo e di beffa, e tutti ci siamo immischiati. Tuttavia i personaggi diventano consapevoli di questa testarda schiavitù alle cose, e per questo ci fanno sorridere e riflettere, perché in fondo sono vicini a noi e alle nostre – più o meno taciute – fissazioni.
data di pubblicazione:20/11/2019
Il nostro voto:
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