DIARY OF A MADMAN di Al Smith, regia di Stefano Patti

DIARY OF A MADMAN di Al Smith, regia di Stefano Patti

(Teatro Belli – Roma, 17/18 dicembre 2019)

Da quando una grossa multinazionale ha acquistato il Forth Bridge, Pop Sheeran è andato in crisi. La questione del referendum dell’indipendenza della Scozia dal Regno Unito coniugata sul racconto di Gogol Le memorie di un pazzo.

 

Appeso al ponte ferroviario di Forth Bridge, nel sud del Queensferry in Scozia, c’è sempre stato uno Sheeran. I maschi della famiglia si occupano della manutenzione della struttura da generazioni, quindi Pop passa tutto l’anno a ridare la vernice al ponte. Arriva però il momento in cui la tradizione deve cedere il passo all’invenzione e alla tecnologia, così Pop è costretto a far posto sul ponteggio a Matt White, uno studente che studia ingegneria a Edimburgo, originario della (nemica) Inghilterra, che gli propone di usare una vernice innovativa destinata a durare più a lungo. Per di più il ragazzo viene ospitato in casa Sheeran su proposta della moglie Mavra e, come se non bastasse, vive una relazione con la diciassettenne figlia della coppia, Sophie, conosciuta per caso al bar dell’università. Un bell’intreccio, non c’è che dire! Nel dramma del cambiamento Pop Sheeran appare come una vite che gira a vuoto e non riesce più a tenere insieme le parti: da un lato il dovere di mantenere il suo lavoro nella ditta di famiglia, dall’altro l’orgoglio identitario e nazionale di scozzese che sente di difendere. Siamo a un passo dal referendum per l’indipendenza, che vedrà come esito un debole risultato del 55 per cento a favore del no: la Scozia continuerà a far parte del Regno Unito. La vicenda rappresenta tutta la confusione e il disorientamento di questo momento dove Pop è l’eroe sconfitto: inutile lo sforzo di proporsi e vestirsi come il nuovo William Wallace di Braveheart, di cui Mel, l’amica del cuore di Sophie, ne confeziona il costume. La strada che prende lo porterà solo alla pazzia, espressa con scespiriano lirismo, di cui è sintomo l’apparizione di Grayfriars Bobby (il cane simbolo della capitale scozzese che passò parte della sua vita fino alla morte a guardia della tomba del padrone defunto) che lo incita a combattere per la buona causa della separazione. Gli elementi narrativi sono tanti e rendono complesso il racconto, ma la regia e l’ottima interpretazione di Marco Quaglia (Pop Sheeran) sbrogliano con eleganza e fluidità la difficile matassa delle situazioni. Di grande aiuto la scenografia essenziale e l’espediente di proiettare sul fondale – come i cartelli del teatro epico – il nome dei luoghi dove si svolge l’azione. Un testo un po’ fuori dalla nostra comprensione forse – le vicende politiche oltremanica ci emozionano in parte – ma tuttavia una buona prova di recitazione per i giovani attori della compagnia.

data di pubblicazione:20/12/2019


Il nostro voto:

DIARY OF A MADMAN di Al Smith, regia di Stefano Patti

OUT OF LOVE di Elinor Cook, regia di Niccolò Matcovich

(Teatro Belli – Roma, 14/15 dicembre 2019)

L’amicizia tra due donne, Grace e Lorna, dura da quando erano piccole; le rispettive mamme si conoscevano già ancor prima che nascessero. Il racconto della loro storia fino a che non si interrompe per la prematura scomparsa di Grace.

 

Grace (Livia Antonelli) indossa una felpa poco femminile di colore viola, mentre Lorna (Dacia Dacunto) un maglione giallo che la copre fin sopra le ginocchia. Nella teoria dei colori giallo e viola risultano complementari, ovvero sommati insieme come luci danno il colore bianco, l’unità perfetta. Forse per caso o per scelta voluta risulta così per Lorna e Grace: due ragazze che non possono fare a meno l’una dell’altra, così diverse tra di loro, che insieme sembrano invincibili. Come nel romanzo di successo della Ferrante, L’amica geniale, Lorna e Grace sono migliori amiche fin da bambine, ma crescendo la storia le divide. Trascorrono in un piccolo paese di periferia fanciullezza e adolescenza tra giochi e primi amori: Grace deve badare al padre malato, trova presto lavoro in fabbrica e nel frattempo rimane incinta di Marta, mentre Lorna – tra le due l’unica ad aver visto Londra almeno una volta – ha la possibilità di studiare e di emanciparsi di più rispetto all’amica. Passano trent’anni durante i quali però si ritrovano sempre, anche quando le cose sono difficili, violente, ingestibili e non condivisibili. Tra loro sembra esserci un confronto continuo che spesso si trasforma in una lotta fisica, ma essere veri amici comporta anche questo. La struttura della narrazione frammenta il tempo in una miriade di situazioni in cui le amiche convivono e si raccontano mille avventure. Sullo sfondo la presenza sfumata, quasi nemica, di tanti uomini dai quali è necessario fare squadra per difendersi (tutti interpretati da Livio Remuzzi). La scelta del regista unisce invece lo spazio, l’entrata di una vecchia miniera di carbone nei pressi della cittadina dove crescono, retaggio di un tempo passato dove si stava economicamente meglio, da cui escono nel carrello su rotaie i ricordi sepolti di una vita custodita gelosamente. Out of love è questa miniera di memorie, questo scrigno che contiene la ricchezza di un’amicizia unica.

data di pubblicazione:16/12/2019


Il nostro voto:

STRIPPED di Stephen Clark, regia di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri

STRIPPED di Stephen Clark, regia di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri

(Teatro Belli – Roma, 10/12 dicembre 2019)

Alice Torriani e Francesco La Mantia sono Emma e James, schizzo di una coppia affrescata con veloci pennellate e mai compiuto. Rette parallele che percorrono insieme un tratto di vita senza mai incontrarsi veramente.

 

 

Inizia con un prologo la storia di E e J, in cui l’oggetto della riflessione è capire se a impadronirsi di James quella volta sull’autostrada sia stata una vera crisi di panico o più semplicemente un attacco di ansia. La stessa cosa è accaduta a Emma, ma la circostanza era diversa, fu in un bar dove fanno karaoke e lei era la prossima a dover cantare una canzone. Cosa li avrà colpiti non lo sappiamo, perché la conversazione si interrompe e la loro perplessità diventa la nostra. A volte capita di cominciare un discorso e non finirlo. Viene quindi annunciato il titolo della pièce: Stripped, che in italiano significa “strisce” se lo si legge come sostantivo, ma anche “spogliato” inteso come aggettivo. Se le conversazioni tra i due protagonisti sono stralci di frasi strappate da un foglio di appunti che iniziano ma non finiscono, è vero anche che danno l’incipit perché l’uno si metta a nudo con l’altra e viceversa, senza però poter cogliere fino in fondo la reale essenza delle loro intenzioni. Nel gergo popolare infatti la parola stripped significa anche la particolarità di un individuo di essere senza ambizione o di essere inconcludente nei suoi progetti. Ecco perché James inizia ma non finisce la sua trilogia di romanzi e Emma, che è una scultrice, mostra solo i bozzetti delle sue opere al compagno, portacandele realizzati con tubi rame piegati. La loro relazione è in atto, si raccontano del passato, ma non se ne conosce sviluppo. Anche l’improvvisa gravidanza di Emma determina un momento di indecisione, teso tra la possibilità di abortire e la scelta di tenere la “persona”, come la chiamano loro. La mancanza di scopo diventa parte del rapporto e fa cancellare dal vocabolario della coppia la parola futuro. L’unica certezza rimane l’intesa sessuale, un punto fermo che interrompe bruscamente la conversazione e la manda a capo, ma che se ci si ferma a ragionare sopra anche questa fa nascere dei dubbi e delle domande. I due personaggi sguazzano nel liquido melmoso e appiccicoso dei pensieri mozzi e mai conclusi. Si scrutano e si studiano dicendo solo al pubblico negli a parte le loro congetture e le loro deduzioni. E così fino alla fine, inconclusa per rispetto di copione anche questa. Uno spettacolo ben fatto, reale se si pensa a quanto la vita possa a volte essere un abbozzo di mille progetti, con due attori in armoniosa sintonia tra di loro.

data di pubblicazione:11/12/2019


Il nostro voto:

DIARY OF A MADMAN di Al Smith, regia di Stefano Patti

I’M A MINGER/SONO UNA FRANA di Alex Jones, regia di Eleonora D’Urso

(Teatro Belli – Roma, 7/8 dicembre 2019)

Esilarante e travolgente, Eleonora D’Urso firma la regia di uno spettacolo divertente e attuale di cui ne è anche l’interprete. Una valanga di parole e situazioni che raccontano uno dei periodi più complicati della vita di una donna: l’adolescenza.

 

 Entriamo nella stanza di Lisa improvvisamente, di colpo. Sembra il camerino di una diva, con specchio e cuscini e una miriade di accessori di arredo tutti rigorosamente rosa e perfettamente in disordine. Chi ha a che fare con gli adolescenti sa per certo quanto sia difficile poter varcare la soglia delle loro camerette, per cui prendiamo questo momento per quello che è: un privilegio. Lisa sembra uscita da un manga, ha i capelli tinti di rosa come le cose che la circondano. Il suo biondo naturale è sinonimo di stupidità, e lei vuole sembrare tutto tranne che stupida. Torna da scuola e con un calcio sfonda la quarta parete per raccontarci il suo mondo. Esagitata e irrequieta mostra subito le sue debolezze e preoccupazioni, prima fra tutte la linea. Come la strega in Biancaneve si guarda allo specchio e si riconosce però come la più brutta tra le sue compagne, per di più ansiosa di compiacerle in ogni cosa per essere da loro accettata e considerata. Attenta a che nulla le sfugga dal controllo, vive in biblico tra la falsa amicizia delle più “fighe” della classe, che non si fanno problema a eliminarla dalla lista delle amiche special di WhatsApp, e la paura di precipitare nel gruppo delle “sfigate”, dimenticando la cosa più importante: l’originalità che sta nella bellezza di essere sé stessa. Messa da parte solo perché è come è – praticamente per la banale motivazione che a qualcuno sta antipatica – viene risucchiata nel vortice della depressione e lì inizia a pensare al suicidio. Bulli e stronze non le danno tregua, ma per fortuna c’è Carlo, un ragazzo affascinante dai capelli rossi e le lentiggini – caratteristiche non esattamente sinonimo di bellezza estetica nell’immaginario adolescenziale – che cattura la sua attenzione e le fa capire che assumere una posizione diversa dagli altri è sempre un bene, anche se ci espone al rischio di diventare facile bersaglio delle critiche della gente invidiosa. Poi ci sono i genitori con i quali recupera un rapporto, fino a ora burrascoso, di confidenza e fiducia che la fa uscire dall’isolamento della sua stanza. E infine le nuove amiche, quelle considerate da tutte le altre serie B, che manifestano per lei sincero affetto e solidarietà.

La simpatica Lisa trova finalmente la strada per riscattarsi, ottimo esempio per tante ragazze che condividono la sua condizione. La ricetta in fondo è facile e la troviamo nella citazione finale di Caparezza: devi fare ciò che ti fa stare bene … e non compiacere chi ti vuole diversa da quella che sei.

data di pubblicazione:10/12/2019


Il nostro voto:

DIARY OF A MADMAN di Al Smith, regia di Stefano Patti

FOR ONCE di Tim Price, regia di Marco M. Casazza

(Teatro Belli – Roma, 3/5 dicembre 2019)

Dramma a carattere familiare, For once – per una volta – è la storia di April, Gordon e del loro figlio Sid. Un incidente stradale scuote la routine della loro vita perfettamente equilibrata.

 

 

Immaginate di avere per le mani un bellissimo bicchiere di vetro, dove avete versato magari il vino della buona bottiglia che avete conservato per l’occasione speciale. Mentre già avete assaporato i primi sorsi, il bicchiere vi scivola dalle mani, accidentalmente, e il vetro si frantuma a terra in mille pezzi. Impossibile rimetterlo a posto, non resta che raccogliere le schegge e buttare via tutto. È quello che accade a questa famiglia di una cittadina inglese di provincia. La tranquilla e fin troppo ordinata serenità dell’esistenza dei suoi componenti viene violentemente sconquassata da un incidente in cui perdono la vita i tre migliori amici di Sid (Michele Dirodi), un ragazzo poco più che adolescente, figlio di April (Selvaggia Quattrini) e Gordon (Marco M. Casazza). Quella sera è l’unico a salvarsi miracolosamente, ma perde un occhio sul quale porta ora una benda. Come nel nostro bicchiere l’urto di quella sera genera nella famiglia una frattura. Improvvisamente si ritrovano uno distante anni luce dall’altro, come pianeti di un unico sistema solare, vetri spezzati di un unico bicchiere. Uniti per mantenere una parvenza di relazione civile, ma estremamente lontani nei desideri e nei bisogni. La menzogna diventa per loro un’arma di sopravvivenza. Ma perché mentire? E a chi? A sé stessi, per illudersi di essere comunque felici? O agli altri, per illuderli che tutto va bene lo stesso? Mantenere l’apparenza è la regola da seguire in un paese dove si conoscono tutti.

A turno ognuno confessa al pubblico la propria solitudine e la propria insoddisfazione. Il testo drammaturgico, reso leggero da continue battute ironiche (fondamentali gli interventi del giovanissimo e bravissimo Sid/Dirodi), risulta così una somma infinita di monologhi-sfogo, dove solo noi capiamo la portata del loro più intimo dolore. I tre non si parlano mai; lascia sconcerto la totale assenza di dialogo. Anche scenograficamente ognuno abita il suo spazio: Sid la sua camera, April la cucina e Gordon la sua poltrona. Eppure sono sullo stesso palcoscenico. I racconti che riportano fanno riferimento a cose passate e presenti: il tempo, insieme allo spazio, è anch’esso violentemente frantumato. Sul finale però ecco un inaspettato ricongiungimento, come a dire che in fondo basta un po’ di attenzione all’altro – e meno preoccupazione per il giudizio della società – per ritrovare comunione e serenità.

data di pubblicazione:04/12/2019


Il nostro voto: