da Paolo Talone | Feb 14, 2020
(Sala Umberto – Roma, 11/16 febbraio 2020)
Meg Page e Alice Ford, le comari-amiche protagoniste della divertente commedia, ricevono dal Cavaliere Falstaff una lettera di corteggiamento che riporta con sfrontatezza lo stesso testo. È quindi obbligo fargliela pagare e burlarsi di lui pubblicamente. La pianificazione della vendetta diventa il diversivo per rallegrare un noioso pomeriggio a Windsor.
Geniale invenzione quella operata da Edoardo Erba per riportare in scena, cucita insieme alla versione operistica del Falstaff verdiano, la commedia scespiriana de Le allegre comari di Windsor. Più che un lavoro sartoriale di cucitura delle due opere, in realtà il lavoro appare come passato per le mani di forzute lavandaie. Come un cencio sporco, le due scritture sembrano essere state sciacquate in acqua, strofinate per bene sul piano di un lavatoio, strizzate sbattute e infine stese per essere ammirate. Il risultato è esilarante, nuovo e divertente. Il rimescolo si depura degli orpelli linguistici cinque e ottocenteschi – che tanto rallentano l’azione – e si arricchisce di originali sfumature e divertenti soluzioni. Una riscrittura tutta al femminile, per una compagnia indipendente (ci teniamo a sottolinearlo) di attrici fantasiose e complete: Mila Boeri, Annagaia Marchioro, Chiara Stoppa e Virginia Zini.
La scena sembra svolgersi su un tavolinetto addobbato per il tè delle cinque. Pizzi centrini e merletti disposti a gorgiera incorniciano lo spazio di recitazione. Tra chiacchiere e pettegolezzi, screzi e invenzioni, le donne si divertono a fantasticare, un po’ per noia meno per vendetta, sul modo di veder deriso il lussurioso, laido e mellifluo Sir John Falstaff, pretendente delle due amiche, che pur si beccano e punzecchiano, Madama Page e Madama Ford. L’immaginazione le porta a creare scenari, a progettare gli scherzi a danno del Cavaliere, servendosi delle capacità imitative e fisiche della serva Quickly qui chiamata a fare il verso di lui. Ma tutto resta un gioco, un passatempo: lo scherzo non va a segno perché Falstaff in realtà – per motivi che non vogliamo anticipare – non sarà in condizione di infastidire più le due donne. In fumo finiranno allora le lettere che furono la causa delle loro divertenti invenzioni. L’unica nota di verità che si potrà suonare sarà quella dell’amore dei due amanti Anne, figlia di Madama Page, e Fenton, suo silenzioso spasimante. In particolare Fenton, personaggio interpretato anche questo da una donna (Giulia Bertasi), darà all’azione quei momenti di godibile felicità con il suono della sua fisarmonica, l’unico strumento capace di ripetere, attraverso il soffio del mantice, il respiro di un’intera orchestra e le note delle arie di Verdi.
data di pubblicazione:14/02/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Feb 7, 2020
(Teatro Quirino – Roma, 4/16 febbraio 2020)
La commedia a carattere popolare di Liolà, il contadino che tra intrighi e pettegolezzi, arrivismo e gelosie, fa valere la sua bontà e la sua morale spensierata.
Il sole è una palla infuocata in un cielo blu terso che splende appena sopra la barriera di scogli oltre la quale si vede il mare. Il frinire assordante delle cicale, come le onde che battono sulla battigia si mischiano ai canti popolari trasportandoci nei colori e nei suoni in Sicilia. Il gruppo di case bianche – con l’uscio sempre aperto a dire fiducia e comunicazione tra le persone – si affaccia su uno spazio comune, una piazzola alla fine di ripide scalinate, bianche anche loro, centro gravitazionale della scena. È il luogo di aggregazione della piccola società contadina del borgo marinaro di Porto Empedocle, dove il regista ha scelto di ambientare la pièce trasportandola nei primi anni ’40. È qui che la commedia campestre, tra le prime scritte da Pirandello, prende vita. Luogo di solidarietà, pettegolezzi e condivisione del lavoro per una società tutta al femminile, strutturalmente organizzata in una complicata e rigida gerarchia, ma al cui vertice ci sono sempre e solo uomini.
Liolà è un contadino allegro e spensierato che ama tutte le donne ma non ne vuole sposare nessuna, un dongiovanni dai buoni sentimenti. Ha già tre figli, frutto di fuggevoli amori, che sua madre si dà la briga di crescere. Ne aspetta un altro da Tuzza, che vorrebbe per questo motivo chiedere in sposa, ma la proposta è rifiutata nonostante il peso della vergogna di una gravidanza illecita. Liolà si inserisce nella società in cui vive come una voce fuori dal coro. La sua filosofia del vivere senza morale ma con virtù – perché chi non ha virtù non sa regnare – è contagiosa e abbindolatrice. L’interpretazione di Giulio Corso, con le sue capacità vocali e mimiche da bravo cuntatore di storie, aggiungono al personaggio una notevole dose di simpatia e vitalità.
La roba appartiene invece tutta a Zio Simone, comico e goffo nella versione di Enrico Guarneri. È il ricco del villaggio ossessionato dal problema di non avere figli e quindi eredi a cui lasciare i suoi beni. La sua sterilità darà occasione a Zia Croce e a sua nipote Tuzza di ordire un intrigo per accaparrarsi una posizione economicamente più favorevole, nascondendo insieme il disonore della ragazza. Ma l’intervento di Liolà cambierà i piani. Metterà incinta anche Mita, la giovane sposa legittima di Zio Simone – umiliata e derisa da Tuzza in faccia a tutto il paese – dando così alla ragazza la possibilità di riscattarsi. Il figlio che nascerà da Tuzza si unirà al numero di quelli che Liolà già ha sulle spalle – “tre più uno fa quattro” dirà– a sottolineare la bontà della sua onestà di eroe positivo.
L’uso marcato del dialetto siciliano rende difficile la comprensione all’inizio, ma l’orecchio fa presto ad abituarsi. Allora ecco che emergono sfumature di senso che vanno ad arricchire la drammaturgia, aggiungendo al testo una sorta di leggerezza e realtà che altrimenti non sarebbe godibile. Anche il punto più tragico, il momento del capovolgimento del dramma operato da Liolà, diventa leggero. Merito anche di una recitazione che in più punti si avvale della soluzione comica di scimmiottare e gesticolare per mettere in ridicolo alcuni personaggi, sottolineandone l’esagerazione. Ma è la notevole partecipazione di Anna Malvica ad aumentare il valore di questo adattamento. La sua Zia Croce si distingue per verità e forza e perché porta sulla scena una conoscenza e una saggezza popolare che di questa storia ne sono l’anima.
data di pubblicazione:07/02/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Feb 1, 2020
(Teatro Vascello – Roma, 28 gennaio/2 febbraio 2020)
Nella locanda di Mirandolina accade spesso che si innamorino di lei gli avventori che vi sostano. È così per il Marchese di Forlipopoli che sfida il Conte di Albafiorita nel conquistare i favori della donna. Ma le mire della Locandiera sono tutte rivolte al Cavaliere di Ripafratta che, misogino e riottoso, la respinge.
Manifesto della commedia di carattere, che lascia le maschere e i canovacci della Commedia dell’Arte per uno studio più attento alla psicologia dei personaggi e al racconto di trame originali, La Locandiera di Carlo Goldoni, dopo 270 anni dalla prima rappresentazione, offre ancora spunti alla regia per nuovi adattamenti. Il lavoro di Andrea Chiodi e della Compagnia Proxima Res di Tindaro Granata, pur mantenendosi fedele all’originale se non per il taglio di alcune scene, non manca di innovazione e creatività. Un merito non scontato quando si tratta di rappresentare un classico come questo. Il sipario si apre su un grande tavolo attorno al quale si svolge l’azione: luogo del convivio, dell’incontro e della chiacchiera, ma anche del gioco e della macchinazione, quella che Mirandolina opera con pragmatico calcolo e sistematico successo. Si recita sopra e intorno al tavolo, ma cose accadono anche sotto di esso: occhi che guardano, orecchie che ascoltano. Gli stand disposti tutti intorno alla scena ci suggeriscono che siamo in una specie di laboratorio sartoriale, i manichini sono gli attori che pescano parrucche e staccano costumi dalle grucce per dare forma al loro personaggio. I colori sono tenui e neutri, come su un foglio di carta ruvida dove sono state accennate veloci pennellate di acquerello. È un gioco e un divertimento il teatro e così il regista fa interagire gli attori con delle bambole che ricordano nel numero e nei tratti i personaggi della commedia. Una bambina sembra appunto Mirandolina, anche se cresciuta in fretta per le responsabilità sulla locanda che il padre alla morte le ha lasciato. L’interpretazione di Mariangela Granelli restituisce un carattere capriccioso e prepotente, è la padrona assoluta dei giochi intenta ad accattivarsi l’amicizia di tutti, soprattutto del Cavaliere di Ripafratta (Fabio Marchisio). Nel gruppo è l’unico che respinge la locandiera, che pure si vanta di aver una lista lunga di conquiste, come quella più famosa di Don Giovanni di cui ne canticchia il mozartiano motivetto. A Caterina Carpio e a Caterina Filograno sono affidate le parti degli altri personaggi (il Conte di Albafiorita, i servi, Fabrizio e le due commedianti Ortensia e Dejanira), ma è Tindaro Granata a rendere protagonista un personaggio secondario, il Marchese di Forlipopoli. Ne risalta il lato divertente fino a esacerbarlo e a renderlo la caricatura di sè stesso, forse anche troppo evidente in una regia che nell’insieme da un giusto equilibrio a tutti e cinque gli attori in scena.
data di pubblicazione:01/02/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Gen 23, 2020
(Teatro Quirino – Roma, 21 gennaio/2 febbraio 2020)
Silvio abita solo nella casa di campagna. In occasione del suo compleanno e della ricorrenza dei dieci anni dalla morte della moglie vanno a trovarlo i tre figli Marialaura, Alice e Vincenzo che non lo vedono da tempo. Si unisce a loro anche Roberto, fratello di Silvio. La solitudine alla quale si è da tempo abituato viene interrotta e sconquassata da questa visita.
Per descrivere quella che a tutti gli effetti è una commedia, dai risvolti divertenti nei tempi nelle battute e nei personaggi, bisognerebbe usare parole che ne rispecchino la delicatezza dei colori tenui e delle trasparenze di cui la scena si colora. Dove abita Silvio c’è ben poco di una casa di campagna dove l’azione è ambientata. Le pareti di garza lasciano intravedere chi si aggira per le stanze o nel giardino: tutti ascoltano, tutti intervengono nelle discussioni. Come recita il sottotitolo – Solitudine da paese spopolato – la cittadina dove Silvio ha deciso di trascorrere la sua vecchiaia è abitata da poche persone, isolata: un chiaro indizio che ci troviamo in uno stato mentale, più che in posto reale. Ma l’azione è dinamica e coinvolgente e i toni tenui passano in secondo piano, sono un sottofondo quasi musicale. Il forte realismo della vicenda inizia dai nomi dei personaggi, che sono quelli degli attori che li interpretano. È una scelta già applicata nella drammaturgia di Lucia Calamaro, autrice e regista dello spettacolo, che cuce addosso agli attori la parte, raggiungendo un risultato di forte verità e descrizione. Il gesto creativo si lega così all’attore e all’interprete, si nutre della sua presenza. La vita ribolle come un vulcano sulla scena, la si percepisce viva nella parola drammaturgica. Eppure, ciò che è in scena appartiene di diritto alla sfera del pensiero: le scene si collegano tra loro a volte per una semplice parola, per digressione su un ragionamento, senza un ordine apparente. Sembra di cogliere nelle battute quel momento in cui ciò che si muove nella testa sta per essere detto, quell’indecisione del se è lecito o utile dire o trattenere dentro. La squadra di attori è ben coesa e adatta, dove Silvio Orlando spicca tra tutti per intelligenza scenica e carattere. Sarebbe davvero difficile vedere un altro attore in questo personaggio. Perfetta incarnazione di quella solitudine sociale – così è chiamata la malattia da cui è affetto – che isola chi ne è colpito, per abbandono degli altri o scelta propria, patologia del presente che può colpire chiunque in ogni momento.
data di pubblicazione:23/01/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Gen 20, 2020
(Teatro Brancaccio – Roma, 15/19 gennaio 2020)
Giorgio Gallione racconta il gioco del calcio e le implicazioni che può avere con il mondo della politica. La dittatura di Jorge Rafael Videla in Argentina e la finale dei mondiali di calcio del 1978 a Buenos Aires. Il coinvolgente ritmo del tango a fare da colonna sonora al massacro dei desaparecidos. Calcio come magia e favola, ma anche strumento per guadagnare il favore del popolo.
Non sembra far riferimento in maniera esplicita a nessuno dei fatti che animano la scena politica attuale, sia nazionale che internazionale, eppure Tango del calcio di rigore evoca nelle immagini scenari possibili non così distanti, nella sostanza, dagli effetti che l’agitazione populista potrebbe risvegliare nella nostra epoca. Ma vaticinare o fare confronti con il nostro oggi non è lo scopo di questo spettacolo. Il testo è un reportage piuttosto dettagliato, a tratti mitizzato, di una fase storica abbastanza recente e difficile che vede protagonista la dittatura militare che investì l’America Latina, in particolare l’Argentina, negli anni Settanta del secolo scorso e la relazione di questa con il gioco del calcio, occasione di svago per il popolo ma anche campo di battaglia e affermazione di potere. È necessario allora che il linguaggio usato dall’autore debba mantenersi a metà tra quello giornalistico e la telecronaca calcistica, scelta che però rimane poco teatrale a nostro avviso. Al personaggio di Neri Marcorè è affidata la parte narrativa: l’uomo adulto che vediamo era poco più che un bambino quando l’Argentina vinse il titolo mondiale. La voce baritonale che racconta i fatti e il tono malinconico, che usa anche nel canto, ci danno la misura del dramma. Invece, Ugo Dighero fa le parti di commedia. È il leggendario Cassidy, l’arbitro chiamato ad arbitrare una grottesca partita tra tedeschi nazisti e indiani mapuches con una pistola in mano per gestire gli umori del campo; è il gaucho messicano che canta tra cactus animati; è ancora il portiere Gato Diaz nella storia del rigore più lungo del mondo, nella disputa tra l’imbattuto Deportivo Belgrano e l’Estrella Polar al club di Cipolletti. E così via a ricoprire ruoli che danno movimento a uno spettacolo altrimenti rallentato nel linguaggio d’inchiesta. Brava anche Rosanna Naddeo, qui a ricoprire i ruoli femminili: commovente e tragica la sua interpretazione del brano Gracias a la vida, in ricordo delle madri di Plaza de Mayo a cui il regime dittatoriale ha rapito, torturato e ucciso i propri figli. Tre grandi interpreti, aiutati sul palco dai giovani attori Fabrizio Costella e Alessandro Pizzuto, che affrontano uno spettacolo per nulla facile, ricco di racconti e di eventi che ogni tanto è bene ricordare. Un grande affresco che regala tante e contrastanti emozioni a chi vi assiste.
data di pubblicazione:20/01/2020
Il nostro voto:
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