da Paolo Talone | Dic 8, 2020
(Teatro Belli in streaming – Roma, 4/5 dicembre 2020)
Un “piccolo ulteriore passo” nella ricerca su Tiresia. Il lavoro sul cieco indovino del Citerone continua con un capitolo che interpreta la seconda parte del volume di poesie della rapper, cantante e spoken word performer britannica Kate Tempest: Hold your own, resta te stessa.
Il cammino di Tiresia è lungo e percorre i secoli, passando per molteplici forme e specchiandosi in molteplici volti. Voci di donne e voci di uomini raccontano storie. Il passato è un ricordo, è una foto appesa al muro appena sbiadita. L’immagine è lì, supera il tempo e, come certe cose, dura molto a lungo. Un fiume ininterrotto di visioni poetiche, sgorgate dall’inarrestabile fantasia della giovane Kate Tempest, si somma a quelle della pellicola in super 8 che scorre in parte bruciata alle spalle degli attori. Visioni di strade polverose, spiagge solitarie, giochi di bambini. Tiresia si sdoppia in voce e corpo con Gabriele Portoghese e Giulia Weber. Ci sono sempre, anche quando a turno spariscono nel controluce: Tiresia vive in alternanza la sua vita di donna e di uomo. Talvolta è una fusione indistinta di personalità e di storie. Tiresia è un giovane adolescente, una ragazza alle prime scoperte e alle prime battaglie. L’ambiente sonoro del Collettivo Angelo Mai – canti in stile rebetico presi dalla tradizione greca di inizio ‘900 – testimonia la fatica della crescita. Tiresia è invecchiato e porta sulle spalle il peso della memoria. Da profeta vede ciò che gli altri non riescono a vedere: il mondo intorno così com’è e non come gli altri vorrebbero che fosse. La coerenza di rimanere sé stessi nonostante tutto e continuare a camminare. Restare fedeli a sé stessi e non lasciarsi confondere dalla vergogna perché, in fondo, tutti ci assomigliamo per come amiamo, per il nostro bisogno di amicizia, perché semplicemente abbiamo un’anima.
data di pubblicazione:08/12/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Dic 3, 2020
(Teatro Belli in streaming – Roma, 1/3 dicembre 2020)
Un taxi parcheggiato in città in piena notte. Un uomo e i suoi due figli colti nello sforzo di recuperare un rapporto troppo a lungo trascurato. La tempesta di una famiglia tipicamente irlandese attraverso la penna di Padraic Walsh.
Il frame iniziale che inquadra le poltrone vuote della sala del Belli sembra un chiaro omaggio al teatro come gesto sociale. Un segno efficace di attesa e di speranza, quella di tornare presto a condividere l’esperienza dello spettacolo dal vivo. La chitarra di Daniele Greco suona una melodia bagnata e malinconica e quando si accendono le luci sul palco si vedono altre sedie. Sono i sedili del van di Brian (Marco Cavalcoli), un tassista al turno di notte parcheggiato da qualche parte a Dublino in attesa di prendere l’ultima corsa. La notte sembra essere pensierosa e le luci della città – dei fari teatrali di morbida luce alogena messi a vista sulla scena – scaldano appena la sua preoccupazione. In macchina salgono Rey (Gianmarco Saurino) e Dara (Mauro Lamanna), due dei suoi dieci figli avuti con una donna che lo ha cacciato di casa. Sanno nulla o poco del padre, mentre lui crede di sapere abbastanza di loro. A dirla tutta neanche i due fratelli si conoscono bene e così, spenta l’euforia iniziale di una bevuta di troppo, prende vita uno scontro fra i tre. Una tempesta di improvvise dichiarazioni e scoperte si scatena nell’incontro notturno, un dialogo serrato detto con una leggera inflessione dialettale che rende tutto più naturale e vicino. Il van è il confessionale dove si ammettono colpe e si lanciano accuse, si raccontano e si riannodano pezzi di verità, dove ci si mette a nudo come in uno spogliatoio: il conflitto è generazionale e tutto al maschile. Essere seduti uno dietro l’altro, nello spazio dell’autoveicolo, implica darsi le spalle e non affrontarsi a viso aperto. La verità si racconta stando seduti scomodi, perché la verità stessa è scomoda da raccontare. Eppure, a nessuno viene in mente di uscire dall’auto parcheggiata. Il tentativo ultimo è quello di cercare di ricostruire un’armonia familiare andata in frantumi troppe volte, ma la vita chiama e cerca altrove le sue soluzioni. Così i sedili rimangono di nuovo vuoti, in attesa che qualcuno un giorno torni ad occuparli, magari stavolta seduto uno di fianco all’altro.
data di pubblicazione:03/12/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 21, 2020
(Teatro Belli in streaming – Roma, 19/22 novembre 2020)
Roger è un maschio bianco americano di 54 anni. Ha tanti fallimenti alle spalle come lavoratore, marito, padre e come uomo in generale. Abbagliato da un sedicente leader del Movimento per la Difesa dei Diritti degli Uomini, sembra trovare la soluzione alle sue frustrazioni, ma la vita continua a sorprenderlo.
Sale anche quest’anno sul palco di Trend Marco M. Casazza con un monologo – Angry Alan della scrittrice Penelope Skinner – di cui oltre all’interpretazione cura anche la traduzione e la regia. Il tono è quello di una lunga confessione/testimonianza: Roger è un uomo di mezza età che fa i conti con molti fallimenti. La moglie lo ha lasciato portando con sé i figli, mentre il lavoro che svolge è un rimpiazzo alla vecchia occupazione dalla quale è stato licenziato. Inadeguato e oppresso da un senso di fallimento, si imbatte in un momento di noia nel sito di “Angry Alan” grazie a cui comprende che gli uomini sono intrinsecamente buoni, tutti dalla A alla Z, e che sono vittime di una sapiente e articolata cospirazione gino-centrica di matrice femminista. Scegliere di prendere la pillola blu vuol dire dare retta a questa propaganda macchinatrice, mentre la rossa ti apre gli occhi e ti fa vedere le cose come sono: le donne comandano il mondo. È in questo assurdo ma divertente ribaltamento di prospettiva maschista che Roger trova conforto e giustificazione alla sua insicurezza. Poco importa allora che sopra la camicia da uomo d’affari indossi una trasandata felpa da ragazzo. L’uomo non deve per forza essere eroe, capo indiscusso della famiglia che deve mantenere economicamente, ma è libero di poter esprimere i propri sentimenti e fare guerra all’ipocrisia della donna moderna, che mentre diffonde false statistiche sugli stupri e chiede parità, al cinema va a vedere 50 sfumature di grigio. Provocatorio e a tratti orticante, questo testo riporta alla mente molte questioni attuali – viene da pensare al tramonto del maschio bianco trumpista o alla battaglia per l’approvazione anche al Senato della legge Zan – e Casazza lo porta in scena con coinvolgente entusiasmo e bravura. Non è facile per un attore immaginare una platea che non c’è, eppure nei suoi occhi si legge la concentrazione di parlare al pubblico che si nasconde dietro lo schermo. Il finale – tutto da vedere – riscatta Roger e ce lo restituisce come un personaggio in fondo positivo e piacevole: non importa vincere come uomini o donne, l’importante è essere capaci di porsi in ascolto di ciò che la vita ci propone, soprattutto quando non la si può rinchiudere in formule e slogan di effetto.
data di pubblicazione:21/11/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 17, 2020
(Teatro Belli – Roma, 14/16 novembre 2020)
Debbie e Jack sono una giovane coppia a cui è stata rapita l’unica figlia. Il dolore intrappola i due in un vicolo senza uscita di rinfacci, accuse, disattenzioni e ricordi ormai sfumati.
Si chiude in un forte abbraccio il dolore di Debbie e Jack, genitori della piccola Kimberley, scomparsa una mattina come tante mentre andava a scuola. The early bird gira intorno al vuoto e alla disperazione per questa improvvisa sparizione o rapimento. Invano si tenterà una ricostruzione dettagliata di cosa sia realmente accaduto quella mattina. I ricordi sono nebbiosi e incompleti, la memoria va in frantumi e diventa una gabbia dalla quale è impossibile uscire. È un girotondo infinito quello si vede sulla scena, un girare a vuoto tra hula hoop con cui nessuno giocherà più. La straziante drammaticità di questo evento, racchiusa in un’idea di scrittura piuttosto semplice e breve, si arricchisce di una regia pensata come se fosse un’eterna danza-rituale tra i due sconfitti genitori. Roberto Marra (Jack) e Valentina Corrao (Debbie) sono i giovani interpreti di questa pièce, arricchita dal parallelo disegno drammaturgico delle luci e dei gesti. Impressi in una luce fredda e poco profonda, i loro corpi appaiono come lastre di ghiaccio incastrate in una montagna di pensieri e dimenticanza. Cercano di appoggiarsi l’uno all’altra, ma nessuno dei due è così forte da sostenere tutto il peso della coppia. Il dialogo frammentato si riflette nelle loro movenze lente e disarticolate: non c’è pace o soluzione al loro ragionamento. Il dramma arriva tutto grazie all’interpretazione coerente dei due artisti in scena, ma è Valentina Corrao a distinguersi per naturalezza e concentrazione sul gesto danzante, come sulla fluidità della voce esibita con gradevolezza nel canto e nella recitazione.
data di pubblicazione:17/11/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 11, 2020
(Teatro Belli – Roma, 9 novembre 2020)
La redazione di un giornale spinge la giornalista Jane Carter a scrivere un pezzo di indignazione contro la richiesta di Shamina Begun – conosciuta come “la sposa jihadista” – di tornare con il suo bambino in Inghilterra. L’incontro con un veterano di guerra cambierà il suo parere.
Retroscena: Shamina Begun partì dall’Inghilterra per sposare un combattente dello Stato Islamico in Siria quando aveva appena 15 anni. Trovata in un campo profughi chiese di tornare in Inghilterra; anche la sua famiglia fece appello. Ma l’allora ministro degli Interni britannico le negò questa possibilità, privandola della nazionalità inglese. Il suo bambino morirà poche settimane dopo nel campo dove erano rifugiati.
Quale opinione esprimere davanti a questa richiesta di aiuto negata? La ragazza merita di pagare o deve essere perdonata? The nights del pluripremiato drammaturgo Henry Naylor parte da questo spunto per raccontare una storia che ci colpirà con la forza di un pugno dato allo stomaco. Sfiora appena il dato di cronaca per addentrarsi immediatamente nella riflessione che scava dentro la capacità dell’uomo di diventare violento e vendicativo in situazioni estreme, chiarendone ma senza giustificare le motivazioni. Non si può avere la presunzione di avvicinarsi alla spina più acuminata dell’altrui dolore e rimanere illesi al tempo stesso. Lo comprende Jane Carter, una giornalista alla ricerca di un parere che avalli il suo giudizio di condanna nei confronti di Shamina. Va a cercarlo in un negozio di cimeli bellici, gestito da un veterano della guerra in Iraq, quella che vide la caduta di Saddam Hussein. Il capitano Kane non fornisce però la risposta che lei si aspettava: un’opinione non è sempre facile da dare quando si conosce la verità. E la verità è sempre lì dove si trova l’azione, anche se ad avvicinarsi troppo si rischia la vita. Il passato riemerge da casse di legno inchiodate dal tempo, il lucchetto arrugginito e polveroso apre una porta cigolante e mostra arsenali di atroci esecuzioni. Fantasmi rievocati fanno la loro apparizione. Per un attimo il meccanismo della violenza generata da altra violenza si inceppa. Il mondo non è più diviso in buoni e cattivi e il fiume impetuoso della verità sgretola la barriera che divide l’Occidente dall’Oriente. Rimane il gesto, questo solo può essere giudicato umano o disumano. Non perde di teatralità la lettura del testo portato sullo schermo dalla coppia Bucci/Grosso per la Compagnia Le Belle Bandiere. Basta un cambio di cappello a dare vita a un nuovo personaggio o il rumore creato con la bocca per evocare l’immagine di un cranio che si rompe o una bomba che esplode. La musica poi fa da meraviglioso contrappunto all’emozione della scena e la regia video, semplicemente risolta in una sequenza di inquadrature strette sugli attori, comunica l’estrema intimità della confessione. Ci costringe a guardare da vicino ciò che nella realtà teniamo a giudizio da lontano, facendo del mezzo informatico un veicolo linguistico di nuove possibilità, ora che siamo costretti ad applaudire la scena nella solitudine del nostro divano.
data di pubblicazione:11/11/2020
Il nostro voto:
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