da Paolo Talone | Dic 8, 2021
(Teatro Belli – Roma, 4/6 dicembre 2021)
Rachel e Neal sono una coppia sull’orlo di una crisi. A far precipitare le cose ci pensa Richie, un loro vecchio amico, ospite di passaggio nel loro appartamento.
Neal è un giovane medico preso così tanto dal suo lavoro che per comunicare con Rachel, la sua compagna, usa post-it e messaggi in segreteria. La sua precisione quasi maniacale nelle cose e il suo atteggiamento ansioso finiscono per creare una monotonia nel rapporto, che lentamente si logora precipitando in una noia tremenda. Ogni cambiamento allora è visto come una possibile minaccia all’equilibrio della relazione, perfino sposarsi o avere dei figli. L’arrivo improvviso di Richie, un vecchio amico di Neal, dedito all’alcol e alle droghe, sempre in giro per il mondo senza una meta fissa né una relazione stabile, mette in subbuglio lo schema abitudinario della coppia. Neal si accorge che sta togliendo divertimento ai suoi trent’anni, mentre Rachel finalmente può manifestare a qualcuno il suo disagio e la sua frustrazione di amante trascurata. Per nutrire una coppia ci vuole Love and understanding dunque. Amore e comprensione. Ma la comprensione è anche complicità, intesa, come quella che si genera tra Rachel e Richie. Il classico triangolo amoroso sembra nascere quando Rachel cede alle provocazioni di Richie, ma dura poco. È il pretesto narrativo per detonare la bomba che già era stata preparata da tempo. In fondo a tenerli ancora insieme era il mutuo sulla casa che avevano comprato.
Seppure si tratti di una lettura del testo, Mauro Lamanna fa ricorso a diversi espedienti per rendere l’azione sul palco dinamica e piacevole. Il testo passa a essere letto da fogli su un leggio allo schermo di un cellulare o di un computer. L’abitudine ad avere sempre con noi questi dispositivi ci fa apparire la cosa come normale, consueta. Complice della buona riuscita del lavoro è senza dubbio anche la connessione e la professionalità di Mauro Lamanna con Gianmarco Saurino, già apprezzata nella scorsa edizione di Trend per la messa in scena online – causa pandemia – di Blue thunder di Padraic Walsh. A loro si unisce Martina Querini, che ricopre il ruolo di Rachel. A Filippo Lilli invece è affidata la parte sonora. L’architettura musicale costruita con la sua tastiera midi accompagna l’azione e sospende l’ambiente in una musicalità astratta, sensibile all’umore della scena. La continuità del suono – che avvolge nel suo intero la narrazione – cuce insieme le scene e aiuta a lasciare sospesa nello spettatore un’idea di finale che nel testo rimane aperta: Neal e Rachel torneranno insieme o la distanza tra i due rimarrà incolmabile?
data di pubblicazione: 8/12/2021
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Dic 2, 2021
(Teatro Belli – Roma, 29 novembre /1 dicembre 2021)
Spettacolo tutto al femminile, realizzato da una compagnia di giovani talenti. Lou e Tosh sono legate da una profonda amicizia che per loro è una forma di amore. Un testo contemporaneo, non convenzionale. Ulteriore conferma della proposta sempre attuale per Trend di Rodolfo Di Giammarco.
Lou e Tosh hanno un’amicizia così stretta e simbiotica che l’intervento dell’una va a vantaggio dell’altra e viceversa. Abitano nello stesso appartamento, uno scrigno ben arredato e confortevole che le tiene lontane dal mondo esterno. Il colore fucsia della moquette è dominante, riveste le pareti e il pavimento; l’ambiente è confortevole, rassicurante, ma anche allegro e frizzante. Le due amiche sono nell’età in cui è finalmente ora di lasciare la casa dei propri genitori, ma è ancora troppo presto per sposarsi e farsi una vita propria. Anzi, non vogliono neanche per scherzo sentir parlare di fidanzamento, matrimonio o figli. L’unico scopo dichiarato con forza e determinazione è proprio quello di deprogrammarsi dalla narrativa tipica, che vuole la donna oggetto passivo dell’amore di qualcun altro. Per questo una situazione abitativa, che dovrebbe essere socialmente provvisoria, diventa lo scopo ultimo della missione che Lou e Tosh si sono proposte di raggiungere.
Gli uomini sono visti come un pericolo che affossa la vitalità femminile, una minaccia alla volontà di essere autonome e realizzate. Per questo li trattano come oggetti per sfogare la sessualità, come fa Lou che parla di loro solo in riferimento all’organo genitale, o li allontanano totalmente, come fa la frigida Tosh. Imporsi di non provare sentimenti, non coinvolgersi emotivamente in nessuna storia è il loro patto. Vivere per sempre una fase post-ragazzo è quello che le renderà libere. Regalarsi dei fiori è il gesto che sugella la loro attenzione reciproca, la loro volontà di prendersi cura l’una all’altra. Poi però arriva Fran, ex-inquilina del loro appartamento, che ha scelto di legarsi a un uomo e quindi seguire un iter convenzionale. È la pietra di inciampo che crea scompiglio e fastidio, ma allo stesso modo provoca discussioni che mettono in crisi la determinazione di Lou e Tosh. L’equilibrio iniziale si interrompe. Tosh tradisce il patto e si allontana per poi ritornare e chiudere così la narrazione in un cerchio perfetto.
Buona la connessione sul palco fra le giovani attrici Chiarastella Sorrentino, Chiara Gambino e Giulia Chiaramonte. L’esperienza saprà modellare certamente i loro talenti in crescita e magari fornire gli strumenti per stemperare le emozioni, così da renderle più reali. Tuttavia sono fedeli ai personaggi che interpretano: estreme, passionali, a volte inspiegabilmente aggressive, ma in fondo dirette e brillanti, come quella tinta fucsia che domina la scena.
data di pubblicazione:02/12/2021
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 7, 2021
(Teatro Belli – Roma, 5/7 novembre 2021)
Il quinto spettacolo presentato sul palcoscenico del Teatro Belli per la ventesima edizione di Trend – nuove frontiere della scena britannica – è A number di Caryl Churchill. Una storia che racconta la relazione di un padre e un figlio, del loro passato e della ricostruzione della loro identità.
In questa pièce scritta nel 2002 – periodo in cui si discutevano le implicazioni etiche e culturali della clonazione di esseri viventi – Caryl Churchill porta in palcoscenico il dramma, colto al limite della sua consumazione finale, della relazione di un padre e un figlio. Il ragazzo scopre di avere dei cloni che girano per la città e chiede spiegazioni al padre, che conferma, con risposte balbettate e confuse, di aver fatto replicare in laboratorio il figlio che perse la vita in un incidente stradale insieme alla madre. In realtà il primogenito è ancora vivo e si presenta dal padre reclamando la sua unicità. La verità è che la madre del ragazzo si è suicidata e il padre, preso da sconforto perché persona vulnerabile, non seppe crescere un figlio problematico e psicologicamente fragile. Da qui l’idea di abbandonarlo e sostituirlo con una copia da poter educare da zero senza errori. Per vendicarsi del padre il figlio numero 1, il primogenito, uccide prima il suo clone e quindi sé stesso, gettando il padre nella più totale disperazione. Dall’esperimento però vennero alla luce altri cloni e uno di questi, ormai realizzato con un buon lavoro e una famiglia, incontra il padre. Trovandosi uno di fronte all’altro si scoprono somiglianze incredibili, nei gesti come nel vestire. Tuttavia, le risposte che il figlio da alle domande del padre non soddisfano il desiderio di questo di conoscerlo meglio, più a fondo. Un altro fallimento che fa comprendere come i figli non seguono necessariamente la strada che abbiamo programmato per loro e come la vita, anche quando è replicata, in realtà si dirige verso un corso individuale e irripetibile.
In questa versione di A number il padre, a cui dà corpo e voce Massimo Rigo, non ha nome. Così anche i figli, interpretati tutti da Giuseppe Pestillo, che rimangono solo un’entità numerica – come dunque suggerisce il titolo –, un esperimento di laboratorio. La scelta di Luca Mazzone sembra quella di voler presentare una relazione che conservi i caratteri di archetipo, uno specchio nel quale sia possibile trovare il riflesso di qualcosa che abbiamo vissuto, come genitori o come figli. Concorre a questa lettura anche lo spazio scenico, che risulta essere asettico, anonimo, e quindi capace di poter ospitare qualsiasi probabile scenario. Delimitato solo da un pavimento bianco e da una sedia, è come trovarsi davanti a un ring durante un incontro di pugilato dove seduti all’angolo, sotto la scarica di tanti colpi, si trovano ora il padre e ora i figli. L’uno che rivendica come proprietà la gestione dei figli visti come prodotti e gli altri che cercano una verità che di diritto, una volta cresciuti, gli è dato conoscere. E se l’idea che è alla base del dramma – i risvolti della clonazione nella relazione padre/figlio – e lo spazio in cui questo è raccontato sembrano allontanare la vicenda collocandola in un mondo surreale, è proprio il linguaggio a riportarci lì dove il testo vuole che siamo ovvero alla matrice fondante della nostra esistenza, al rapporto che ci lega indissolubilmente a qualcuno che ci ha preceduto, alla nostra unicità di figli e di esseri viventi e alla nostra sacra e inviolabile individualità.
data di pubblicazione:07/11/2021
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Nov 5, 2021
(Teatro Belli – Roma, 2/3 novembre 2021)
Farsi posto in una società che considera la diversità un abominio non è una missione semplice. Il monologo di Jo Clifford pone questa domanda spiazzante: se Dio ha creato l’uomo e la donna, ponendoli al centro di un equilibrio cosmico, che posto occupano nella creazione coloro che non si sentono né uno né l’altra?
La separazione della luce dalle tenebre è uno degli atti che, nel libro della Genesi, Dio operò all’inizio della creazione. Anche la scena pensata per God’s new frock – la nuova tonaca di Dio – presenta questa netta dicotomia: un palcoscenico vuoto e buio, abitato da una creatura meravigliosa, William, la cui fisicità intercetta guizzi di luce che interrompono il nero totale tutto intorno. Ma ben più che la divisione fra tenebra e luce è quella tra uomo e donna a essere preponderante nel testo. E la Genesi biblica è lo spunto da cui parte Jo Clifford per riscrivere una storia che appartiene alla nostra educazione. Fin da bambini abbiamo imparato a fare distinzione tra maschio e femmina, dimenticando o peggio non considerando coloro che possono trovarsi nel mezzo, che hanno un pizzico di entrambi. Tanto vale prenderne coscienza senza giudicare o pretendere di non vedere e vivere appieno la propria natura, senza vergogna o paura. È questa la maggiore provocazione che esce dal testo, che Massimo Di Michele intercetta con consapevole ironia, spogliando il suo personaggio in giacca e cravatta e rivestendolo di uno scintillante abito bianco di strass e paillettes. È una trasformazione lenta e dolorosa, che recrimina attenzione e considerazione, ma che non arriva a essere irriverente. La gestualità ostentata dal William “pubblico” è controbilanciata da una tenerezza struggente che appartiene al personaggio nel suo privato. Così anche additando l’affossamento del Ddl Zan come l’ennesimo atto contro un cammino di conversione laico al buonsenso, Massimo Di Michele – attento ad attualizzare il testo anche rendendo omaggio a due artiste simbolo della lotta per i diritti Lgbtq+, Milva e Raffaella Carrà – non è mai sgarbato o fastidiosamente sfacciato, perché non c’è modo più bello di chiedere rispetto che portandolo.
Usciranno dal teatro con un abito nuovo e scintillante coloro che saranno in grado di accogliere la provocazione, consapevoli che la bellezza e la benedizione appartengono a ogni essere creato.
data di pubblicazione:05/11/2021
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Ott 30, 2021
(Teatro Belli – Roma, 29/31 ottobre 2021)
Terzo appuntamento per la rassegna di spettacoli della nuova drammaturgia inglese diretta da Rodolfo di Giammarco. Sul palco di Trend Arturo Cirillo è Wilfred, un uomo di mezza età inserviente in un parco pubblico, protagonista di “Playing sandwiches – il gioco del panino”, celebre monologo tratto dalla seconda serie dei Talking heads di Alan Bennett.
Nell’interpretazione di Arturo Cirillo, Wilfred appare come un uomo trasandato nell’aspetto e consumato dai pensieri. Lavora come addetto alla pulizia per una società di manutenzione di parchi e giardini. È intento a spazzare il terreno di gioco per bambini tra uno scivolo rosa e un muro pieno di scritte. I colori brillanti del luogo dove si trova contrastano di netto con la sua figura. La scena creata da Dario Gessati sembra la pagina di un libro illustrato per l’infanzia dove Wilfred si inserisce come uno scarabocchio fatto a penna, come quella scritta volgare che vandalizza la targa commemorativa del parco. Appare tormentato da una sconcertante solitudine, sia fisica che esistenziale. Non c’è nessun bambino a correre e a giocare intorno a lui nel parco, come del resto non c’è nessuno nella sua vita.
Nello stile di scrittura di Alan Bennett, personaggi in apparenza ordinari nascondono abominevoli verità ed è al pubblico che si rivolgono. Non fa eccezione Wilfred. Sotto la tuta blu da manutentore si cela un uomo responsabile di un terribile reato. Solo una confessione dolorosa potrà chiarire di cosa si tratta. Una prima indagine è condotta dal suo datore di lavoro, Mr Parlane, che tenta di ricostruire il suo stato di servizio, lacunoso in molti passaggi delle informazioni più banali sugli impieghi che ha ricoperto in passato. Mentre una seconda indagine, quella che il personaggio fa su sé stesso, ricerca le ragioni di una colpa che si incaglia nell’impossibilità di fornire una giustificazione. Arturo Cirillo sottolinea con attenzione questo secondo aspetto, oscurando il personaggio in attimi di riflessione e silenzio, dove appare chiaro che qualcosa dal passato torna a incastrarlo nel presente. Wilfred è un pedofilo e il lavoro nel parco gli offrirà l’occasione di ripetere il suo sbaglio ancora una volta ai danni di una bambina che lo aveva preso in simpatia. La verità è svelata e davanti a lui ora c’è solo la galera. Nell’isolamento della cella nella quale è rinchiuso si consumeranno i suoi ultimi pensieri. La solitudine, la lontananza dagli esseri umani, dalla società intera, sembra essere la soluzione ideale per evitare che cada di nuovo nell’errore. Eppure, questa condizione che appare come giusta, è in realtà la più sbagliata.
Una luce acida, verde di vomito e sporcizia, ora bagna l’altalena. Con questa immagine Arturo Cirillo congeda lo spettatore, ricordando che per quanto si possano ascoltare le ragioni di un carnefice a farne le spese comunque è un’infanzia violentata per sempre.
data di pubblicazione:30/10/2021
Il nostro voto:
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