da Paolo Talone | Mag 13, 2022
(Teatro Vascello – Roma, 10/15 maggio 2022)
Torna in scena al Vascello lo spettacolo vincitore della Biennale Teatro 2020. Un’ironica, intelligente e originale riflessione sul senso della censura nell’arte e la dimostrazione dell’abilità creativa di un giovane talento della scena italiana contemporanea.
Giudicato dalla critica internazionale miglior spettacolo alla Biennale di Venezia Teatro nel 2020, Glory Wall di Leonardo Manzan è la prova tangibile delle infinite possibilità creative del teatro, della bellezza del gioco e del coraggio di giovani artisti, capaci di misurarsi con esperimenti non convenzionali, abili nell’uso dei molteplici linguaggi della scena.
Tutto parte dalla richiesta di Antonio Latella – allora direttore del Festival – di creare uno spettacolo che avesse per tema la censura. Il titolo che aveva dato alla Biennale 2020, Nascondi(no), ragionava appunto sui criteri e le regole che stabiliscono ciò che deve essere visto e ciò che invece deve rimanere nascosto, in particolare sulla mancata visibilità che hanno gli artisti del nostro teatro, in Italia e all’estero. La richiesta del direttore al giovane regista suonava però paradossale e provocatoria: “fai uno spettacolo sulla censura. Sentiti libero!” Libertà di espressione e censura non sono compagne ed è proprio sull’assurdità di questo assunto che nasce Glory Wall.
Un muro bianco copre per intero tutta la scena, impedendo allo spettatore di vedere oltre, di vedere il palcoscenico. Parafrasando sul glory hole (la pratica che permette a due persone di incontrarsi per compiere atti sessuali, mantenendo l’anonimato grazie a dei fori praticati nella parete), questa barriera mette in relazione in modo insolito pubblico e artisti. La forma della platea disposta a gradoni davanti all’arco scenico del teatro Vascello (il cui Centro di Produzione teatrale La Fabbrica dell’Attore ha prodotto lo spettacolo) non fa che rendere ancora più diretta e coinvolgente l’interazione fra i due soggetti. Da una parte gli attori non visti recitano mostrando solo le braccia, compiendo azioni dai buchi praticati nel muro. Dall’altra il pubblico, invitato da una voce fuori campo a partecipare attivamente all’azione. Si crea così un gioco divertente che riflette sul senso della censura e dell’autocensura nel gesto creativo, su quello che è lecito dire o tacere, su quello che si può mostrare o velare. Si citano pensatori come Pier Paolo Pasolini, il marchese De Sade, Giordano Bruno, ma anche artisti come Magritte, Jacques-Louis David, Michelangelo o i più recenti Cattelan e Bansky, colpiti in vario modo dalla censura. Per poi arrivare a sentire le ragioni stesse del regista, che in fondo afferma l’inutilità stessa della censura lì dove il prodotto – in questo caso il teatro – non interessa e non sconvolge più nessuno ed è per questo condannato a rimanere nascosto come da un grande muro, che non si sposta e non crolla.
data di pubblicazione:13/05/2022
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Apr 23, 2022
(Teatro Quirino – Roma, 19/24 aprile 2022)
La classe di Vincenzo Manna è un contenitore di forti emozioni. Un’analisi ricca e dettagliata sulla condizione delle giovani generazioni e il mondo della scuola. Una scrittura drammaturgica fresca e attenta alle sfide che la società pone.
Ai fini del raggiungimento della promozione, un irruente gruppo di ragazzi viene trattenuto tutti i pomeriggi per quattro settimane in un’aula fredda e disordinata di un istituto tecnico superiore per un corso di recupero di crediti scolastici. I sei studenti della classe sono stati tutti sospesi per motivi disciplinari. Hanno radici diverse per religione e cultura.
Andrea Paolotti è Albert, un professore potenziato – figura professionale nata con la riforma della buona scuola – che svolge una didattica alternativa. Il suo ruolo è quello di riequilibrare una classe problematica di ragazzi segnati dal disagio, dalla delusione, rabbiosi e desolati. Riesce tra non pochi sforzi a guadagnarsi un po’ della loro fiducia fino a impegnarli in un concorso europeo il cui tema è “Giovani e adolescenti vittime dell’Olocausto.”
Gestisce la scuola un superpreside, il personaggio interpretato da Claudio Casadio, rigido e concentrato sugli obiettivi da raggiungere più che sulle esistenze dei ragazzi. Un preside imprenditore, che paragona i suoi studenti a un gruppo di galline chiassose, che hanno le ali ma non sanno volare, e che nella sua visione hanno l’unico merito di saper percorrere grandi distanze in poco tempo ma solo se è la paura a muoverle.
L’assetto scenografico di Alessandro Chiti segue il realismo estremo e cruento adottato dalla scrittura nell’analisi sociale. La classe ha una sola finestra che si affaccia su un campo profughi, chiamato con disprezzo “Zoo”, una sorta di campo di detenzione dal quale parte una rivolta che costringe la scuola a una chiusura anticipata. Un disastro sociale che mette ulteriormente alla prova la crescita dei giovani studenti, costretti a farsi spazio in un mondo difficile che emargina chi è diverso. L’aula diventa così una scatola ricolma di emozioni disordinate e violente, amplificate dalle sonorità rock di Paolo Coletta.
Il testo di Vincenzo Manna sembra sondare l’abisso della più cupa indigenza per vedere se, dopotutto, si possa trovare una ragione di speranza e riscatto. Forse i volatili quando escono dal guscio si somigliano tutti. Possono sembrare galline, ma sicuramente tra di loro c’è chi è destinato a diventare aquila. Come i giovani attori selezionati per questo lavoro (Valentina Carli, Edoardo Frullini, Federico Le Pera, Caterina Marino, Andrea Monno e Giulia Paoletti), talenti di grande energia ed entusiasmo.
data di pubblicazione:23/04/2022
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Apr 15, 2022
(Teatro Quirino – Roma, 12/17 aprile 2022)
Tutte le sere un gruppo di attori ebrei si riunisce per stabilire a processo se l’imputato Gesù di Nazareth sia colpevole o no secondo la legge giudaica. Capolavoro dimenticato di Diego Fabbri, proposto nel cartellone del teatro Quirino di Roma, per la regia di Geppy Gleijeses e l’interpretazione dello stesso (in sostituzione dell’impossibilitato Paolo Bonacelli), insieme a un folto numero di artisti tra cui Marco Cavalcoli, Daniela Giovanetti e Giovanna Bozzolo.
È innegabile che la figura di Gesù abbia destato nel tempo molti interrogativi. Giudicato ora scomodo, ora sobillatore dell’ordine costituito, uomo o dio si pensa a lui come a un personaggio straordinario, i cui insegnamenti hanno rivoluzionato il mondo. Alcuni lo credono una favola, uno scandalo, un racconto ben orchestrato davanti al quale è inutile ogni tentativo di spiegazione razionale. Che si abbia fede o meno, è una figura davanti alla quale ci si pone delle domande e contemporaneamente non si può esprimere giudizio che non possa essere confutato.
Gesù è la pietra di inciampo che genera l’azione drammatica. La sala si riempie così di accusatori e difensori. Viene sorteggiato tra gli attori chi dovrà prendere le difese di Caifa, Pilato e Gesù stesso, e così anche l’accusatore. Un giudice anziano e saggio è al centro della scena. I testimoni sono gli apostoli Pietro, Tommaso e Giovanni, ma per volere di una delle attrici, vengono invitati a dare la loro testimonianza anche altri interlocutori: Maria, la madre di Gesù, Giuseppe, il padre putativo, la Maddalena e Giuda, il traditore. La prima parte del dramma scompone e ricompone così i fatti noti che conosciamo già dai Vangeli, soprattutto quello di Giovanni, ritenuto il più vicino alla realtà dei fatti e insieme quello più spirituale. Il linguaggio è filosofico, giuridico, impone concentrazione per essere seguito. Ma è nella seconda parte della vicenda che tutto si fa più vicino alla nostra condizione, più umano. Dalla platea prendono parola altri personaggi che via via offrono la loro testimonianza, ora favorevole ora contraria, ma sempre legata a un’esperienza concreta nella quale, per qualche aspetto, ci si riconosce. Il ragazzo scappato di casa, la prostituta irrequieta, il prete e l’ex seminarista, fino alla commovente storia della donna delle pulizie che lavora in teatro: tutti depongono la propria testimonianza.
Ciò che pone in evidenza Diego Fabbri in Processo a Gesù è proprio questa molteplicità di visioni e prospettive, che discutono tra loro in un interminabile e acceso confronto. Autore scomodo anche lui, che nella letteratura teatrale e nella proposta sul palcoscenico non gode di molta fortuna. Senza contare che riproporre questo suo capolavoro implica un notevole sforzo di risorse e un consistente numero di attori, ben diciannove in questa versione, tutti con un proprio stile recitativo e una preparazione artistica che non deve essere stato facile accordare.
È al regista allora che va il merito di aver compiuto il gesto coraggioso di rimettere in scena questo testo, di aver riesumato un autore dimenticato e poco conosciuto. La sua regia si affida
totalmente alla parola scritta. Non ci sono orpelli scenografici a contestualizzare la vicenda. Tutto si svolge come in un’aula di tribunale appunto, approntata alla meglio nello spazio libero da quinte e fondali del teatro. Non c’è finzione, ma la cruda realtà resa ancora più manifesta dalla presenza degli attori tra il pubblico. Un espediente forse non più di moda, ma necessario al testo, poiché avvicina la domanda a chi assiste in platea. Il processo tocca inevitabilmente quelle questioni che tutti nella nostra vita ci siamo posti. Si rimane così confutati o chiariti nella nostra personale idea di Cristo e della cristianità. Il caso è appassionante.
Certo, il pubblico in sala non è lo stesso del 1955, anno in cui vide la luce l’opera. Allora ci si stava riprendendo da una guerra, ci si riteneva protagonisti di una ricostruzione. Esprimere la propria opinione in pubblico e discuterne era un gesto di responsabilità politica, nel significato di presa di posizione davanti a una questione. Oggi forse non è più così. Oggi chi va a teatro vuole essere intrattenuto, provare piacere per lo spettacolo, emozionarsi insieme a un personaggio. Almeno così è per molti. Ma quella di vedere rappresentato un testo come questo rimane un’occasione unica – non a caso proprio nei giorni in cui si celebra la Pasqua – un’opportunità che difficilmente avremmo modo di rivedere proposta.
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Apr 14, 2022
(Teatro Lo Spazio – Roma, 7/16 aprile 2022)
Jennifer vive nell’attesa che il telefono squilli per lei. Franco avrebbe dovuto chiamarla la sera dopo il loro primo incontro, ma da allora sono passati già tre mesi e mezzo. Nella speranza che si faccia vivo, lei indossa ogni sera il suo vestito più bello e si trucca per farsi trovare pronta. Le cinque rose di Jennifer racconta la difficile condizione dei travestiti all’inizio degli anni Ottanta, un dramma di emarginazione e solitudine.
La regia di Agostino Marfella rispetta in pieno il testo di Annibale Ruccello, marcandone gli elementi di inquietudine e isolamento che denotano la vicenda di Jennifer, il travestito interpretato da Leandro Amato sul palco insieme a Fabio Pasquini. Un omaggio ad Annibale Ruccello, scomparso troppo presto trentasei anni fa.
Avvolto nella completa oscurità, un tappeto di rose rosse di stoffa irrora la superfice del palco, la stanza dove vive Jennifer. L’appartamento è in un ipotetico quartiere, dove vivono solo travestiti, forse alla periferia di Napoli o chissà in quale altra città. Le cose che possiede sono espressione di un mondo artificioso che parla di sé con uno specifico linguaggio, fatto di gusti e oggetti esageratamente kitsch, ma sono anche il ripieno che tiene in piedi un’esistenza fragile, al limite della disperazione. Necessario è il telefono che intercetta, per un problema alla linea, chiamate destinate ad altri interlocutori, ma non dell’unica persona dalla quale Jennifer aspetta un saluto. Fondamentale è il suo guardaroba di abiti di lamé e trame trasparenti, che definiscono la sua scelta. Il mondo raccontato da Annibale Ruccello è fermo al periodo a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, un’epoca fondamentale per la lotta ai diritti delle persone LGBT+.
Indispensabile la radio, che trasmette canzoni di Milva, Patty Pravo e Mina, nei cui testi la protagonista cerca conforto e spiegazioni e che per questo assurge di diritto a ruolo di personaggio dialogante (le voci sono di Gioia De Marchis Giannini e Enzo Avolio). La radio è anche lo strumento che avverte della presenza di un maniaco killer – sicuramente omofobo – che sceglie le sue vittime soprattutto tra i travestiti. È il dato che infonde la graduale inquietudine che fa da sfondo al dramma e che obbliga la protagonista a prendere ancora più distanza da ciò che la circonda.
Jennifer è un personaggio amabile, esilarante, comico, espressione di quella napoletanità che piace perché sfrontata, orgogliosa, comunque ironica di fronte al brutto della vita. Leandro Amato le dà vita e carattere, con la sua voce ricca di toni e sfumature e dalla splendida musicalità. Non lascia cadere mai il personaggio nel ridicolo, riducendolo a pura macchietta di “femminiello” al quale siamo abituati, ma gli conferisce una sacralità che lo rende inviolabile, specialmente quando il dramma – in modo lento e inesorabile – trascina Jennifer in un vicolo senza uscita, di una felicità e una rivalsa che non arrivano. Anche Anna, un travestito che si presenta a casa di Jennifer con la stessa speranza di intercettare una telefonata, è un altro esempio di questa disperazione votata alla solitudine e all’emarginazione. Nei panni del personaggio, Fabio Pasquini sembra uscito da un quadro espressionista. Grottesco e caricaturale, appare ancora più estraneo alla realtà sociale che li ha isolati. È proprio attraverso Anna che il dramma diventa ancora più inquietante, quando accusa l’amica di averle ucciso il gatto Rosinella, alla quale era visceralmente legata. Inquietudine che la complessa regia di luci, di taglio e dal basso, amplificano in modo sconcertante.
L’occasione di vedere Le cinque rose di Jennifer è da non perdere, in scena fino a sabato al teatro Lo Spazio.
data di pubblicazione:14/04/2022
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Apr 5, 2022
(Teatro Quirino – Roma, 30 marzo/3 aprile 2022)
Nello studio dell’avvocato tutti i giorni, in moto perpetuo, si ripete lo stesso gran da fare. Poi arriva Bartleby, lo scrivano scassinatore che inceppa l’ingranaggio facendo esplodere tutto quello che ha intorno. Esprime una sola preferenza: quella di non fare ciò che gli si chiede che faccia.
Formula dal risultato felice quella di affiancare sulla scena una compagnia di attori compatta e di grande esperienza nel mestiere del teatro a un mattatore sensibile e attento come Leo Gullotta. La versione drammaturgica di Francesco Niccolini del racconto di Herman Melville, messa in scena da Emanuele Gamba, pone in evidenza proprio il distacco che si crea tra un gruppo di impiegati nello studio di un avvocato e un uomo eccezionale nella sua singolare stravaganza, che improvvisamente irrompe nella loro routine in risposta a un annuncio di assunzione. Fatta eccezione per i due personaggi femminili di Rita, la maniacale e comica donna delle pulizie Giuliana Colzi (che dello spettacolo è anche la costumista), e della signorina Ginger (Lucia Socci), l’impiegata che vive in equilibrio tra il lavoro e gli sbalzi emotivi dei suoi colleghi maschi, l’impianto drammaturgico rimane fedele al racconto originale. Fedele soprattutto nel ritmo, costante e lento, di una narrazione che incentra sul solo personaggio di Bartleby lo svolgersi della vicenda. Tuttavia è sulle spalle dell’avvocato, e quindi di Dimitri Frosali, che tutto il peso si sposta: è lui a raccontare quello che accade nel suo studio, a presentarci i personaggi e le loro abitudini, che rimane come folgorato e ammirato davanti a Bartleby, l’impiegato che improvvisamente smette di eseguire le sue mansioni gettando tutto lo studio in subbuglio ma per il quale, per qualche motivo, comincia a provare compassione. Ad agitarsi sono soprattutto gli altri due personaggi maschili della vicenda: Turkey (Massimo Salvianti) e Nippers (Andrea Costagli), sempre a litigare per contendersi il ruolo di miglior impiegato, che letteralmente esplodono di rabbia davanti all’incomprensibile blocco del loro collega appena arrivato.
Il Bartleby di Leo Gullotta è un uomo semplice, come l’abito liso e anonimo che indossa, incastrato in un mondo che non gli appartiene. Un mondo fatto di soffocanti pareti grigie, in uno spazio appena illuminato da una piccola finestra posta troppo in alto, dalla quale cerca di afferrare i deboli raggi di sole che lascia entrare (le scene sono di Sergio Mariotti). Fissa di continuo qualcosa con un sorriso educato e composto (lascia ammirati la resistenza di Leo Gullotta a mantenere ferma la stessa espressione). È laconico e conciso nell’esprimere la sua volontà di non voler fare ciò che gli si chiede. “Avrei preferenza di no” è il ritornello che ripete di continuo, eppure sempre con una sfumatura diversa di senso, segno che è presente a sé stesso in ogni momento del dramma. È un personaggio che rifiuta il dialogo e non si esprime in monologhi neanche quando è solo. Non compie azioni significative all’infuori del fatto che mangia biscotti allo zenzero eppure è capace di scuotere tutto il piccolo mondo che gli vive intorno. Si potrebbe definire un eroe anti-teatrale. È solo nella sua battaglia, non chiede nemmeno al pubblico un sostegno. Anzi, lascia tutti in silenzio a osservare, talvolta generando una sensazione di irritante fastidio per questa continua inazione. Ci si aspetta una tirata che dia una soluzione, ma quello che torna è sempre e solo il ritornello della preferenza a dire di no. E allora non si può che fare un passo indietro, accettare di non ricevere nessuna giustificazione, e lasciarsi interrogare da Bartleby.
data di pubblicazione:05/04/2022
Il nostro voto:
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