Personalizza le preferenze di consenso

Utilizziamo i cookie per aiutarti a navigare in maniera efficiente e a svolgere determinate funzioni. Troverai informazioni dettagliate su tutti i cookie sotto ogni categoria di consensi sottostanti. I cookie categorizzatati come “Necessari” vengono memorizzati sul tuo browser in quanto essenziali per consentire le funzionalità di base del sito.... 

Sempre attivi

I cookie necessari sono fondamentali per le funzioni di base del sito Web e il sito Web non funzionerà nel modo previsto senza di essi. Questi cookie non memorizzano dati identificativi personali.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie funzionali aiutano a svolgere determinate funzionalità come la condivisione del contenuto del sito Web su piattaforme di social media, la raccolta di feedback e altre funzionalità di terze parti.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie analitici vengono utilizzati per comprendere come i visitatori interagiscono con il sito Web. Questi cookie aiutano a fornire informazioni sulle metriche di numero di visitatori, frequenza di rimbalzo, fonte di traffico, ecc.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie per le prestazioni vengono utilizzati per comprendere e analizzare gli indici di prestazione chiave del sito Web che aiutano a fornire ai visitatori un'esperienza utente migliore.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie pubblicitari vengono utilizzati per fornire ai visitatori annunci pubblicitari personalizzati in base alle pagine visitate in precedenza e per analizzare l'efficacia della campagna pubblicitaria.

Nessun cookie da visualizzare.

BIANCO testo e regia di Giuseppe Tantillo

BIANCO testo e regia di Giuseppe Tantillo

con Valentina Carli e Giuseppe Tantillo

(Teatro Belli – Roma, 25/30 marzo 2025)

Debutto romano per la coppia artistica Tantillo/Carli di Bestfriend teatro nell’ambito di EXPO – rassegna diffusa di drammaturgia contemporanea italiana (con spettacoli in cartellone al Belli di Trastevere fino all’11 maggio). Dopo Best friend (2015) e Senza glutine (2017), l’autore e attore palermitano Giuseppe Tantillo presenta il suo terzo lavoro, Bianco. Una riflessione – condita di sana ironia – sulla percezione del tempo che rimane da vivere a due pazienti oncologici.

Lucio e Mia vivono una vita che ha perso colore. O meglio, è diventata dello stesso colore del male che portano dentro: bianco. Così appaiono infatti la maggior parte delle volte le masse tumorali quando si vanno a sviluppare all’interno dell’organismo. I due si conoscono mentre aspettano il proprio turno di visita nella sala d’aspetto di un ospedale oncologico. La storia è divisa in quadri. Ogni quadro è un passo avanti nella relazione che da semplici conoscenti li porterà a vivere una relazione stabile. Nessuno dei due parte avvantaggiato rispetto all’altro. Così l’analisi sulle conseguenze del tumore può dirigersi verso le emozioni, i pensieri, sulle possibili implicazioni che il loro rapporto avrebbe potuto avere.

Lucio è un professore di italiano e storia, con un tumore ai polmoni. La malattia ha invaso totalmente i suoi pensieri. È così insistente che anche nei sogni, invece di evadere, rivive come in un film la giornata appena trascorsa. Il pensiero della morte lo tormenta e si accentua quando gli viene data la notizia di una nuova operazione. Accanto a lui c’è Mia che di professione è un medico gastroenterologo. Il male l’ha colpita al seno. Il suo personaggio esprime come una sorta di distacco e freddezza scientifica rispetto alla tragedia della malattia. Ne misura la percentuale che lascia di sopravvivenza (in base alla quale pianifica il suo prossimo viaggio); scommette, guardando un gruppo di infermieri in sciopero per un miglior trattamento salariale, su chi sarà il prossimo a morire (combatterebbe allo stesso modo sapendo di dover morire?).

Eppure, nonostante l’apparente impassibilità, è quella che sa andare oltre e sa indicare a Lucio la strada. Senza stupide illusioni. Senza moralismi che fanno perdere tempo. Il tempo è infatti il tesoro più prezioso da non sprecare. Fatti i dovuti conti con la malattia, le rimane abbastanza spazio per essere scanzonata e tremendamente ironica. Mia sa andare oltre e aggiungere colore al bianco. Fino a trascinare Lucio addirittura fino in Cambogia, dove i tramonti sono di un rosso vivo. Gli occhi sono la prima cosa a decomporsi dopo che si è morti: per questo è necessario riempirli di meraviglia.

È una scrittura contemporanea quella di Tantillo, se per questo si intende strappare dalla realtà dialoghi e considerazioni che non hanno pretesa di morale. Imprime sulla scena – con la parola prima e il modo di recitare poi – una verità specchio del reale. Valentina Carli lo segue, in perfetta sintonia con lo stile crudo e naturale. Il lavoro sdrammatizza, senza cadere nel banale, un tema delicato e complesso. Guarda alla malattia per quello che è: un’intromissione, una castrazione. Ma la vita è qualcosa di più, si prende il suo spazio. Anche quello che non le è concesso.

data di pubblicazione:01/04/2025


Il nostro voto:

MOBY DICK ALLA PROVA di Orson Welles, regia di Elio De Capitani

MOBY DICK ALLA PROVA di Orson Welles, regia di Elio De Capitani

con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa e Mario Arcari

(Teatro Vascello – Roma, 11/16 marzo 2025)

«Chiamatemi Ishmael». Inizia citando l’incipit del romanzo di Melville lo spettacolo di Elio De Capitani, Moby Dick alla prova – dal riuscito adattamento in versi sciolti che ne fece Orson Welles settanta anni fa per il Duke of York’s Theatre di Londra – in scena dal 2022 nella produzione curata dal Teatro Elfo Puccini di Milano insieme al Teatro Stabile di Torino per la nuova traduzione, capolavoro drammaturgico, della poetessa Cristina Viti.

È uno spettacolo definito dal regista ‘totale’ quello che Elio De Capitani, legato dagli anni Settanta al teatro dell’Elfo di Milano, sta portando in tournée sui palcoscenici italiani per la quarta stagione. Un lavoro magnifico curato in ogni aspetto: dalla musica alla scena, dal testo alla performance degli attori. In questa lettura il teatro viene prima di tutto. Come spazio di aggregazione e luogo di e non solo per la poesia. Luogo della metafora, dove prendono corpo immaginifiche visioni accanto a tremendi incubi. Dove si celebra il rito della rappresentazione della sacralità dell’umano e dell’insondabile della sua coscienza. L’inafferrabile Moby Dick è un’idea della mente che diventa ossessione, come lo spettro del padre di Amleto.

L’idea che sostiene la trama compie marinarescamente un nodo a bandiera tra il Re Lear, che gli attori di una compagnia portano in scena ogni sera, e le prove di un nuovo spettacolo condotte al pomeriggio nel teatro vuoto, Moby Dick. Una prova, appunto. Un tentativo di cui non si è certi della riuscita. Sono capolavori epici, Lear e Moby Dick, entrambi a un primo momento considerati irrappresentabili. Ma Welles riuscirà nell’impresa, trionfando con uno spettacolo che fa leva su una parola potente, evocativa, capace di trascinare il pubblico tra marosi e imprese mortali. E ci riesce De Capitani, che da copione ricopre i ruoli che ritagliò per sé il regista di Quarto Potere del re scespiriano, dell’impresario della compagnia, di padre Mapple e del leggendario capitano Achab.

La scena è essenziale, usa attrezzi comuni che si trovano in teatro (tavoli, un grande telo tirato sul fondale e alte scale a pioli) per simulare le imbarcazioni da caccia, gli alberi della nave, le vele e gli abissi marini. Il teatro diventa meraviglia quando si crede al gioco della finzione. Sopperiscono alla povertà dei mezzi le indicazioni del “direttore di scena” (Cristina Crippa) che alla maniera del teatro epico (in senso brechtiano) elenca i luoghi dell’azione. Lo spettatore è così stretto nella morsa del racconto, nelle due e più ore in cui si svolgono i due atti, in un viaggio che parte dal pontile di Nantucket per passare nella cappella dove si fa memoria dei marinai morti in mare (oscuro presagio per la nuova ciurma in procinto di salpare), per poi salire sulla baleniera Pequod e passeggiare tra il ponte della nave e la cabina del capitano fino a giungere all’incontro con il mostruoso Leviatano che, sì, appare in scena. I colori sono quelli del mare in tempesta, delle sconfinate, brumose e gelide acque oceaniche. Un grigio malinconico che si attacca ai costumi (meravigliosi) di Ferdinando Bruni come la salsedine rimane addosso alla pelle nella navigazione.

Anche la musica e le luci sono protagoniste. Mario Arcari ha composto e suonato dal vivo una colonna sonora suggestiva quanto le parole, in cui si evoca al sassofono la sirena della nave che lascia il porto, le onde che si infrangono sullo scafo, la tempesta che lo percuote a colpi di grancassa mentre nell’aria risuonano minacciosi tuoni che prendono voce da un gong. E poi i canti marinareschi (diretti da Francesca Breschi) che dànno ritmo alla navigazione e alla vicenda. Una partitura complessa e costante, che si affianca a quella delle luci di Michele Ceglia. Un altro ricco repertorio fatto di bagliori improvvisi e ombre. Perché se nella musica sono importanti i silenzi, nel teatro è importante il buio. È la sospensione necessaria affinché la mente possa figurarsi i suoi mostri, le sue visioni. Il riverbero delle superfici fredde e metalliche degli oggetti di scena gli fanno contrappunto. Insieme ai tagli di luce, compatta e concentrata sui corpi, a gettare fiamme sulle anime tormentate. L’immensità del mare simulata dalle silhouette delle figure in controluce. Con questo contrasto De Capitani dipinge così bene la morte da farcene sentire con persistenza l’olezzo soffocante.

Ma su tutto è straordinaria la compagnia di attori. Anime possedute da una cieca e ostinata volontà a cui fa capo Achab, che comanda obbedienza nella sfida all’impossibile. Trascina tutti nel suo folle volo verso la cattura del Leviatano. Anche il pubblico. Lo spettatore si immedesima con Ishmael e il suo desiderio di imbarcarsi per vedere il mondo. E non c’è posto migliore dove affacciarsi per vederlo se non dalla platea.

Il sipario, chiamato dal capocomico, si chiude su un sogno che si sarebbe voluto interminabile e invece è durato il tempo di un giro di clessidra.

data di pubblicazione:22/03/2025


Il nostro voto:

NIVES dal romanzo di Sasha Naspini, a cura di Giorgio Zorcù

NIVES dal romanzo di Sasha Naspini, a cura di Giorgio Zorcù

con Sara Donzelli e Sergio Sgrilli, drammaturgia di Riccardo Fazi

(Teatro Tor Bella Monaca – Roma, 6/8 marzo 2025)

Poggio Corbello è un luogo “senza intrusi” dove Nives vive ormai sola dopo la morte del marito Anteo. A farle compagnia nella grossa tenuta ci sono gli animali. In particolare Giacomina, una gallina azzoppata che la donna decide di mettersi in casa per curare la solitudine e l’insonnia. Una sera però la chioccia rimane paralizzata davanti alla TV. Non c’è modo di svegliarla. Così Nives chiama al telefono Loriano, il bravo veterinario del paese il cui unico difetto apparentemente sembra ridursi al troppo bere.

 

Tutti abbiamo scheletri nell’armadio. Storie del passato che giacciono silenziose in qualche luogo nascosto della mente. Può trattarsi di un avvenimento che ha determinato delle scelte o magari un rimpianto, in cui si incastra il pensiero di qualcosa che poteva essere e non è stato. A volte è il dolore di un amore non vissuto che ha lasciato strascichi indelebili. Come in Nives, il romanzo di Sasha Naspini (Edizioni e/o, tradotto in 25 lingue) che dà il titolo a questa trasposizione teatrale diretta da Giorgio Zorcù e che vede protagonisti l’attore comico – qui prestato a un ruolo drammatico – Sergio Sgrilli e Sara Donzelli, fondatrice di Accademia Mutamenti, che ha prodotto lo spettacolo insieme a Muta Imago (Riccardo Fazi ne ha curato anche la drammaturgia).

Un lungo tavolo percorre tutta la scena. Agli estremi ci sono Nives e Loriano che parlano ininterrottamente al telefono per tutta una notte. Sono molto distanti tra loro eppure proprio l’elemento del tavolo, quasi l’unico oggetto a caratterizzare la scena insieme a due sedie, fornisce l’indizio di un’unione, di un filo comune che percorre le due esistenze. Il pubblico ascolta la conversazione indossando delle cuffie wireless. Un espediente che crea una sensazione intima e avvolgente e che permette di cogliere le minime sfumature di emozione nella voce degli attori. Dopotutto si sta origliando una confessione piena di colpi di scena in cui è lei a distribuire le carte del gioco.

Tra i due protagonisti si scopre esserci stato un passato di amore e passione. Ma circostanze esterne e la mancanza di coraggio ne hanno decretato l’allontanamento. Da allora i loro corpi si sono solamente sfiorati, come fa capire bene la danza di movimenti curata insieme a Giulia Mureddu. L’elemento comico presente nel romanzo di una Nives schietta e sferzante è smorzato nell’interpretazione della Donzelli in cui risalta invece cinismo e disillusione, rammarico e vendetta. Il Loriano di Sgrilli, attenta e intonata spalla, risponde con rassegnata mestizia, si dimena impotente come un animale ingabbiato, nel crescendo di tensione che tiene lo spettatore inchiodato all’ascolto.

data di pubblicazione:15/03/2025


Il nostro voto:

InVIOLAta, regia di Teresa Cecere e David Marzi

InVIOLAta, regia di Teresa Cecere e David Marzi

con Maria Barnaba, Sandra Di Gennaro e Ilenia Sibilio

(Teatro Lo Spazio – Roma, 7/9 marzo 2025)

Maria Barnaba, Sandra Di Gennaro e Ilenia Sibilio sono le protagoniste di InVIOLAta, lo spettacolo vincitore dell’edizione 2024 di Idee nello Spazio, il contest di corti teatrali ideato da Manuel Paruccini e Antonella Granata al Teatro Lo Spazio di Roma. Il lavoro, concepito e diretto da Teresa Cecere e David Marzi, è un meccanismo completo e funzionante di ritmo, gestualità, passione artistica, profondità di messaggio e intesa scenica.

Che la nostra cultura e la nostra educazione siano impregnate profondamente di atteggiamenti bigotti e risposte che favoriscono la tracotanza maschile ce lo dice quel tipo di frasi a commento di fatti di cronaca che raccontano abusi e violenze sulle donne, del tipo «se l’è cercata», «se non fosse andata in giro da sola», «se non vestiva a quel modo». È sempre la stessa storia. Ma la battaglia per la parità di genere, oggi più viva che mai, ha nel passato le radici. Esattamente cinquant’anni fa ad Alcamo, nel trapanese, quando una giovane Franca Viola, abusata dal suo aguzzino, decide di ribellarsi alla tremenda pratica del matrimonio riparatore.

La vicenda è nota. Il testo drammaturgico fa largo uso della cronaca del tempo ed è arricchito da importanti fonti letterarie (la “voce” del popolo è presa dal libro-inchiesta Le svergognate di Lieta Harrison che usciva proprio in quegli anni, mentre la deposizione di Franca Viola in tribunale prende a prestito i versi del cunto siciliano di Don Chisciotte). Franca inizia a frequentare Filippo Melodia ancora minorenne. Il padre di lei, Bernardo, non vede di buon occhio il ragazzo. È un poco di buono che sbarca il lunario commettendo furti ed estorcendo denaro che poi spende in prostitute. Dopo un periodo in cui migra in Germania torna in Sicilia per sposare Franca, ma lei rifiuta di netto la proposta. Filippo, furioso, decide quindi in accordo con altri dodici complici di rapire Franca. Nei giorni a seguire subirà maltrattamenti e verrà più volte violentata. Disonorata sarà allora costretta a sposare il suo carnefice, a lavare l’ignominia con una manciata di riso. Così vuole la prassi comune a cui tutti si adeguano recitando a menadito il decalogo della donna onorata. Ma Franca si oppone: «Io non sono proprietà di nessuno, l’onore lo perde chi le fa certe cose non chi le subisce», dirà a processo dopo aver denunciato il Melodia. Un gesto rivoluzionario per l’epoca, che spaccherà l’Italia in due tra chi continua a credere che la donna sia come un oggetto da possedere e sottomettere e chi invece inizia a lottare per l’emancipazione e i diritti di genere.

L’allestimento scenico, curato da Lisa Serio, ci trasporta in un cortile domestico dove si vedono panni stesi al caldo sole dell’isola. Tra gli oggetti di una vita contadina, arcaica e profondamente italiana, si muovono le tre giovanissime attrici. A loro sono affidati indistintamente tutti i personaggi della vicenda, senza un ruolo fisso. Basta impugnare un determinato oggetto o vestire un semplice indumento per caratterizzare il personaggio e scambiarselo tra loro. Sono pura materia attoriale, un magma ribollente di energia e passione, con cui i due registi hanno lavorato modellando e indirizzandone il talento.

La storia si snoda con un ritmo incalzante e preciso di movimenti e complesse coreografie, a cui dànno supporto le musiche originali di Kemonia. A ribadire che l’arte e il teatro possono essere un potente strumento per sradicare una mentalità ipocrita e maschilista che ancora stagna nella nostra società.

data di pubblicazione:14/03/2025


Il nostro voto:

LE CINQUE ROSE DI JENNIFER di Annibale Ruccello, regia di Geppy Gleijeses

LE CINQUE ROSE DI JENNIFER di Annibale Ruccello, regia di Geppy Gleijeses

con Geppy Gleijeses e Lorenzo Gleijeses

(Teatro India – Roma, 5/9 marzo 2025)

Tra i lavori più rappresentati di Annibale Ruccello – prematuramente scomparso a soli trent’anni nel 1986 – Le cinque rose di Jennifer è ora al teatro India per la divertente e insieme commovente interpretazione di Geppy Gleijeses (Produzione Dear Friends). Del drammaturgo napoletano il Teatro di Roma ha proposto a gennaio Anna Cappelli (con la regia di Claudio Tolcachir e l’interpretazione di Valentina Picello) e ad aprile è in programma il suo capolavoro, Ferdinando, per la regia di Arturo Cirillo.

Jennifer abita in un monolocale nel quartiere dove per una non specificata ragione sono stati confinati a margine tutti i travestiti. Più una condizione sociale che un luogo fisico situato chissà dove alla periferia di Napoli. Lo stile di vita a cui si ispira il suo comportamento è copiato dai giornali e dalla radio, che trasmette di continuo canzoni di Mina, Patty Pravo e Romina Power. Ma anche cattive notizie. Un serial killer si aggira infatti nella zona e miete vittime tra gli omosessuali. L’atmosfera noir della trama cela però una verità ben più profonda e teatrale. Jennifer vive una situazione di emarginazione e solitudine, aggravata dal cattivo funzionamento del telefono che intercetta telefonate di appartamenti vicini, ma non suona mai per lei. È infatti in attesa della chiamata di Franco, l’avventura di una sera, che le ha promesso l’impossibile: un amore esclusivo che promette di strapparla dal disagio.

La Jennifer di Gleijeses prende il carattere dal popolo, dai bassi napoletani, dove il dialetto è brusco, crudo e la vita si affronta con apparente strafottenza. Al suo fianco recita il figlio Lorenzo, nei panni di Anna, il travestito che piomba in casa sua con una scusa che per compensare l’isolamento – ulteriore ritratto di disperazione – si è trovato a rivolgere tutto l’affetto a una gatta, Rusinella.

Entrambi i personaggi vestono una solida armatura fatta di orpelli e distrazioni, feticci e falsi miti, per coprire la miseria e il degrado della loro condizione. E su questo forte contrasto si basa anche la scena di Paolo Calafiore. Allo spettatore infatti è concesso di vedere l’impalcatura che sorregge la scenografia iperrealista. Nella cucina dell’appartamento Jennifer prepara davvero il caffè e un sugo al pomodoro. Le pareti hanno uno squarcio e la claustrofobica stanza si vede contestualizzata nel luogo per eccellenza dell’illusione: il palcoscenico. Quando la realtà prende il sopravvento sulla finzione e questa viene mostrata nella sua effimera consistenza (la radio si azzittisce perché viene a mancare la corrente e il telefono rimane isolato per un guasto), allora tutto il mondo intorno a Jennifer si frantuma, risucchiandola nel vuoto. A causarne la morte è la disperazione che arriva quando crolla ogni fronzolo al quale si appoggiava la sua sicurezza.

La regia di Geppy Gleijeses coglie quindi le intenzioni del testo in questa versione apparsa la prima volta al Festival di Spoleto nel 2017. Come maestro indiscusso della scena, propone un lavoro nel pieno rispetto e valorizzazione di una tradizione partenopea e nazionale che, anche dopo e oltre Eduardo (forse evocato nella scenografia dalla presenza della ringhiera di un finto balcone), continua a stupire e a commuovere il pubblico attraverso un’analisi veritiera e sconcertante della società in cui siamo immersi.

data di pubblicazione:08/03/2025


Il nostro voto: