da Maria Letizia Panerai | Set 20, 2022
È una storia che assomiglia ad una favola, purtroppo senza lieto fine, quella raccontata da Walter Veltroni nel suo ultimo film documentario sulla vita, troppo breve, di Paolo Rossi che durante i mondiali in Spagna del 1982 si conferma capocannoniere imprimendosi nel cuore degli italiani come Pablito.
Una carriera costellata di battute di arresto, cadute e rinascite, con una lunga squalifica dai campi di calcio per le ingiuste accuse del calcioscommesse ed un ritorno da campione, grazie anche alla stima di Enzo Bearzot che, senza curarsi delle critiche che avvolsero la sua nazionale di Spagna, lo volle con sé scrivendo una pagina di storia calcistica che verrà sempre ricordata come un evento inaspettato e tanto bello. Esce momentaneamente per soli tre giorni nelle sale, prodotto da Palomar in collaborazione con Vision Distribution e Sky, È stato tutto bello – Storia di Paolino e Pablito, un film documentario che ripercorre carriera e vita del campione prematuramente scomparso due anni fa all’età di 64 anni. Walter Veltroni, nella sua “seconda vita”, ci ha abituati a docufilm di grande sensibilità, ad iniziare da Quando c’era Berlinguer del 2014, a I bambini sanno del 2015 sino al film C’è tempo del 2019 con Stefano Fresi; questa volta però sembra aver perso il suo smalto nel raccontare una storia che assomiglia molto ad un documentario senza tuttavia avere in sé la magia del film, non riuscendo a restituirci una immagine privata di questo grande campione molto diversa da quella che già conoscevamo, non aggiungendo dunque molto altro a quella persona semplice ed allegra che è stata Paolo Rossi.
In È stato tutto bello c’è sicuramente molto di quel Paolino del sottotitolo attraverso i racconti commossi del fratello maggiore Rossano, come c’è moltissimo di quel Pablito attraverso le sue gesta ricordate con molti filmati di repertorio e con la testimonianza amichevole di Marco Tardelli e Antonio Cabrini; manca purtroppo l’uomo, quella parte intima che ci saremmo aspettati e che il titolo stesso ci ha evocato in quel passaggio da bambino a personaggio pubblico di successo. Non bastano i racconti degli ultimi momenti attraverso le brevi interviste alla moglie ed alle figliolette a restituirci la sua essenza: la sofferenza degli ultimi momenti attraverso brevi filmati privati non aggiunge nulla a ciò che realmente colpisce e rimane, che è il suo sorriso, e non solo nell’esultazione per i gol segnati ma anche attraverso le interviste e le molte apparizioni televisive. Forse è proprio l’immagine di quel Paolino all’apparenza gracile, di umile famiglia, che ce l’ha fatta a diventare meritatamente famoso, è ciò che ci rimane di questo film documentario, che non è riuscito perfettamente a coniugare la gioia e il dolore, il sacrificio con il trionfo, tutti ingredienti che hanno caratterizzato la vita di questo grande campione.
data di pubblicazione:20/09/2022
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da Maria Letizia Panerai | Set 15, 2022
Reduce dalla recente presentazione al Festival di Venezia, esce nelle sale L’immensità di Emanuele Crialese che vede come protagonista Penélope Cruz nella parte di una moglie e madre di tre figli nella Roma degli anni ’70, quando in Italia Raffaella Carrà imperversava in TV con la sua Rumore e ballava sulle note di Prisencolinensinalciusol cantata da Celentano.
Siamo a Roma, in un nuovo quartiere ancora in costruzione, dove vive una famiglia benestante con tre figli. Al di là di un cannetto sottostante il palazzo c’è un insediamento di baracche dove abitano anche nuclei familiari di operai, gli stessi che verosimilmente lavorano nei cantieri della zona. Clara e Felice si sono da poco trasferiti nel loro nuovo appartamento, ma è palese che il loro matrimonio è al capolinea: niente li lega più se non il fatto di avere tre figli, tra cui la dodicenne Adriana detta Adri, che vorrebbe essere chiamata Andrea. Clara è l’unica a non ostacolare la figlia, seguendola in questo suo “percorso” con gioia e fantasia, sino al punto di diventare lei stessa un essere ingombrante per il marito (Vincenzo Amato), autoritario ed infantile, e per l’intera famiglia di lui.
Emanuele Crialese con questo suo nuovo film che esce nelle sale dopo molti anni di assenza, ha dato un ruolo decisamente centrale alla scelta musicale inserendo canzoni che sono state la colonna sonora di quegli anni e che in qualche modo ne identificano il clima, la mentalità corrente, a cominciare dal titolo stesso (dalla canzone di Don Backy che ci accompagna sui titoli di coda), o nell’interpretazione da parte di Clara ed Adriana di Love Story nella cover a quei tempi cantata con un certo pathos dalla coppia Patty Pravo e Jonny Dorelli. C’è molta attenzione da parte del regista anche nel tratteggiare il carattere dei personaggi, tra cui sicuramente primeggia Penélope Cruz-Clara ingaggiata dal regista lo scorso anno proprio a Venezia, in occasione della presentazione di Madres Paralelas di Almodóvar che le valse la Coppa Volpi: “come tutti i miei lavori, anche L’immensità è un film sulla famiglia: sull’innocenza dei figli, e sulla loro relazione con una madre che poteva prendere vita solo nell’incontro, artistico e umano, con Penélope Cruz, la sua sensibilità, la sua straordinaria capacità di interazione con tre giovanissimi non attori”.
A conclusione, tuttavia, anche se L’immensità non potremmo definirlo semplicemente un film sull’identità di genere seppur commuova scoprire in esso una forte componente autobiografica confermata dallo stesso regista, ma piuttosto su certe dinamiche familiari in un’Italia ancora in forte dissenso con la legge divorzile introdotta nel 1970, il film passa sullo schermo senza regalarci le emozioni che ci saremo aspettati, non riuscendo minimamente ad eguagliare la magia di Nuova Mondo e Respiro, né l’urgenza del poetico Terraferma. Crialese apre le porte a molte tematiche senza mai pigiare il piede sull’acceleratore, lasciando tutto in sospeso, generando un senso di non appagamento alla fine della proiezione.
data di pubblicazione:15/09/2022
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da Maria Letizia Panerai | Set 9, 2022
É un film sobrio, raffinato e profondo Il signore delle formiche di Gianni Amelio, a cominciare dal titolo che pone l’accento innanzitutto sull’amore per la ricerca di Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio) come studioso di mirmecologia, oltre che come filosofo e artista, vissuto e processato sul finire degli anni sessanta per plagio, vittima di un’Italia che ci sembra così lontana, ma che in realtà non lo è, intrisa di perbenismo e cattolicesimo bigotto.
Denunciato dalla famiglia del ventitreenne Ettore (nome di finzione per indicare Giovanni Sanfratello) con l’accusa di averlo plagiato per poi abusarne sessualmente, Braibanti nel 1968 (un paradosso considerando la contestazione collettiva) fu condannato a nove anni di reclusione – poi ridotti a due per i suoi meriti di partigiano – mentre la famiglia del giovane “condannò” Ettore ad una reclusione in ospedale psichiatrico per curare la sua devianza con l’elettroshock. Il film, rispettoso nel ricostruire i fatti di cui Aldo Braibanti rimase vittima, è uno spaccato della società dell’epoca in cui si pensava che “se sei omosessuale, o ti curi o ti spari” (citazione derivante da un ricordo dello stesso regista), e che fosse inutile la protesta per argomenti come l’omosessualità perché “le contestazioni si fanno per il Vietnam non per gli invertiti”.
Amelio ci parla di diritti violati in quanto durante il processo l’opinione pubblica era in accordo con l’accusa, mentre l’avvocato della difesa “rideva” durante le sedute in aula, trovata scenica questa per evidenziare la sua quasi inutilità di fronte ad un epilogo in cui tutto sembrava già deciso. Ma il regista sottolinea anche come la strada per la tutela dei diritti civili in genere sia ancora lunga e dolorosa: nel film, durante una contestazione di giovani nelle fasi finali del processo, c’è un’apparizione di Emma Bonino com’è oggi affinché fosse riconoscibile la sua figura, e ciò non solo per ricordare tutte le lotte per i diritti civili fatte dal Partito Radicale, ma anche per inviare un messaggio molto chiaro ed attuale: le battaglie per la tutela o l’ottenimento dei essi sono importanti e vanno combattute.
Il cast di attori è davvero di livello alto: Lo Cascio e l’esordiente Leonardo Maltese danno prova di grande bravura soprattutto negli assoli; ben centrato anche Elio Germano nel ruolo di Ennio, un giornalista de L’Unità che si reca sovente in carcere a trovare l’imputato più per esortarlo a reagire che per intervistarlo: “il fascismo era reale: deportavano, torturavano, uccidevano. Tutto questo invece mi sembra una farsa.”
Nel 1968, Aldo Braibanti venne condannato in base all’articolo 603 del Codice Penale che perseguiva il reato di plagio: ”chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla a uno stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni”. Fu l’unico caso in cui venne applicato, prima di essere abolito nel 1981 perché incostituzionale e pertanto di fatto cancellato dall’ordinamento giuridico penale.
data di pubblicazione:09/09/2022
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da Maria Letizia Panerai | Set 5, 2022
Emanuele Crialese apre la quinta giornata del Festival con il film L’immensità che vede come protagonista Penélope Cruz nella parte di una moglie e madre di tre figli nella Roma degli anni ’70, quando in Italia imperversava Raffaella Carrà con la sua Rumore, ed in TV ballava sulle note di Prisencolinensinalciusol cantata da Celentano.
Siamo a Roma, in un nuovo quartiere ancora in costruzione, dove vive una famiglia benestante con tre figli. Al di là di un cannetto sottostante il palazzo c’è un insediamento di baracche dove abitano anche nuclei familiari di operai, probabilmente gli stessi che lavorano nei cantieri della zona. Clara e Felice si sono da poco trasferiti nel loro nuovo appartamento, ma è palese che il loro matrimonio è al capolinea: niente li lega più se non il fatto di avere tre figli, tra cui la dodicenne Adriana detta Adri, che vorrebbe che tutti la chiamassero Andrea. Clara è l’unica a non ostacolare la figlia, seguendola in questo suo “percorso” con gioia e fantasia, sino a diventare lei stessa un essere ingombrante per il marito, autoritario ed infantile, e per l’intera famiglia di lui. Il regista, in questo suo nuovo film, ha dato un ruolo decisamente centrale alla scelta musicale, inserendo canzoni che sono state la colonna sonora di quegli anni, a cominciare dal titolo stesso; sul finale è sapiente la scelta della cover di Love Story (mirabilmente cantata dalla coppia Patty Pravo e Jonny Dorelli) interpretata da Clara ed Adriana. C’è molta attenzione anche nel tratteggiare il carattere dei personaggi, tra cui sicuramente primeggia Penélope Cruz-Clara ingaggiata dal regista lo scorso anno proprio a Venezia, in occasione della presentazione di Madres Paralelas di Almodóvar che le valse la Coppa Volpi. Anche se L’immensità non potremmo definirlo semplicemente un film sull’identità di genere ma piuttosto su certe dinamiche familiari in un’Italia ancora senza divorzio, in cui si imparava ben presto a tacere e ad abbozzare tra le mura domestiche, tuttavia non riesce minimamente ad eguagliare la magia di Nuovo Mondo e Respiro, né l’urgenza del poetico Terraferma, seppur commuova scoprire in esso una forte componente autobiografica confermata dallo stesso regista.
L’ultimo film visto a Venezia per Accreditati è stato Les enfants des autres di Rebeca Zlotowski. In esso si narra di una quarantenne insegnate di liceo, Rachel (Virginie Efira), che non ha figli e segue con molto interesse i propri allievi, soprattutto studiando le loro attitudini per indirizzarli nel mondo del lavoro; la donna come svago prende saltuariamente lezioni serali di chitarra e a volte viene accompagnata dal suo ex compagno con il quale ha mantenuto un cordiale rapporto di amicizia. Durante una di queste lezioni conosce Alì e se ne innamora. L’uomo è separato ed ha una figlia, Leila, di 4 anni con la quale Rachel, seppur senza difficoltà, riesce a stringere un legame molto intenso, fatto anche di quelle cure che una madre mette in atto con un figlio proprio. Rebeca Zlotowski, quarantaduenne regista e sceneggiatrice francese, dichiara di aver girato il film che lei stessa avrebbe voluto vedere al cinema su una quarantenne senza figli che si innamora di un padre single; mentre cerca i trovare spazio nella famiglia dell’uomo, incomincia a sentire il desiderio di avere una famiglia sua. Ma da personaggio tradizionalmente in secondo piano… è costretta a scomparire con la fine della storia d’amore.
Di fronte a tante pellicole che “urlano” urgenze, questo film sussurra con un linguaggio semplice ed essenziale un tema niente affatto secondario, su quanto senso materno ci sia in alcune “madri secondarie” a cui la vita non ha concesso di essere genitrici. Tra i tanti modi di esplorare le cure legate alla maternità o al desiderio di essa, il film dimostra che queste non sono di appannaggio esclusivo delle sole madri nei confronti dei propri figli, ma quasi un’essenza dell’essere femminile anche verso quei figli che, come dice la protagonista, fanno tanto penare i veri genitori per compensare la gioia di averli avuti.
E senza voler svelare altro della storia, lo spirito che si coglie nel visionare la pellicola è esplicitato sul finale dalla scelta, decisamente vincente, della versione cantata da George Moustaky di Les eaux de Mars.
Andate al cinema!
data di pubblicazione:05/09/2022
da Maria Letizia Panerai | Set 4, 2022
Al quarto giorno di Festival arrivano due film che, seppur non debbano essere necessariamente annoverati tra i più belli visti sino ad ora, li potremmo definire “circolari”: con un inizio, una fine ed una parte centrale che genera sorprese e colpi di scena. Il primo parla di eventi realmente accaduti e dunque il coinvolgimento emotivo del pubblico è più immediato (anche se non scontato); il secondo invece è una storia inventata, ma da parte di chi le storie le sa inventare. Entrambi pare che in sala abbiano incontrato il favore del pubblico.
Argentina, 1985 del quarantenne Santiago Mitre, con un cast di attori molto bravi tra cui primeggia Ricardo Darín, è un film ispirato ad eventi realmente accaduti come il titolo stesso suggerisce. Due procuratori, il navigato Julio Strassera ed il giovane ed inesperto Luis Moreno Ocampo, vengono incaricati dalla procura di indagare sulle atrocità commesse durante la dittatura militare di Videla con lo scopo di perseguirne i responsabili. La fase della creazione del pool è la più difficile perché in procura quasi la totalità è ancora simpatizzante con l’ideologia fascista. I due procuratori allora decidono, contro il parere di tutti, di creare un team formato interamente da giovani inesperti e disoccupati, per arrivare con le loro indagini proprio al cuore delle nuove generazioni e schivare la diffidenza dei più anziani. Il film ha una carica di ironia incredibile ed è uno di quei classici esempi di coralità, in cui la bravura di tutti gli attori porta ad una vera e propria esplosione sul finale, lasciandoci con il gusto della vittoria raggiunta addosso: “ricordo ancora il giorno in cui Strassera formulò l’atto di accusa: il boato dell’aula del tribunale, l’emozione dei miei genitori, le strade finalmente in grado di festeggiare qualcosa che non fosse un partita di calcio, l’idea di giustizia come un atto di guarigione”.
Il secondo film della giornata è Master Gardener di Paul Schrader che ne ha curato anche la sceneggiatura e che quest’anno a Venezia è stato insignito del Leone d’Oro alla carriera: sono suoi, tanto per citarne alcuni, American Gogolò, Il bacio della pantera come regista e Taxi Driver, Toro scatenato e L’ultima tentazione di Cristo come sceneggiatore. Master Gardener è uno di quei film con i tempi giusti, con una sceneggiatura accurata ed un’aria rarefatta che ci fa stare sempre un po’ con il fiato sospeso, dialoghi essenziali dai quali si scoprono cose grandi, attori di livello: un insieme insomma che fa la differenza. Narvel Roth (Joel Edgerton) è il maestro giardiniere al Gracewood Gardens, una tenuta con tanto di giardini e dimora storica di proprietà di Mrs. Norma Haverhill (Sigourney Weaver) ricca ereditiera vedova e senza eredi diretti. I giardini sono molto famosi, e la responsabilità che tutto sia curatissimo è di Narvel che coordina una piccola squadra di giovani giardinieri apprendisti. Tutto cambia quando Mrs. Norma chiede a Narvel di assumere come apprendista la sua pronipote Maya, ragazza ribelle ed unica erede dell’intero patrimonio. La figura di Narvel è il fulcro del film ed è sapientemente tratteggiata, e l’arrivo di Maya farà accadere qualcosa nella vita di quest’uomo schivo e silenzioso che metterà in discussione un presente così meticolosamente organizzato, fatto di tante certezze, facendo riemergere un passato inimmaginabile.
data di pubblicazione:04/09/2022
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