da Maria Letizia Panerai | Ott 13, 2016
(11^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Roma, 13/23 ottobre 2016)
Tre fasi della crescita di un giovane afroamericano, ma una sola vita: quella che gli altri vogliono che lui viva. Chiron, soprannominato Little, è un bambino silenzioso, fragile, sensibile, dagli occhi buoni e impauriti dal bullismo dei suoi compagni di scuola. Ma quando ti trovi a vivere nei quartieri bassi di Miami, tua madre è tossicodipendente e finisci con il ravvisare in uno spacciatore dai modi gentili la figura paterna che non hai mai avuto, non hai scampo: devi crearti quella corazza che non hai, plasmartela addosso come un culturista crea il proprio fisico, per allontanare il resto del mondo da te e difendere il tuo spirito, i tuoi sentimenti, l’amicizia.
Approda a Roma come film di apertura dell’undicesima edizione della Festa del Cinema, dopo essere passato per importanti Festival internazionali riportando un’unanime approvazione da parte della critica, Moonlight di Barry Jenkins, regista e sceneggiatore statunitense al suo secondo lungometraggio. Le cose che colpiscono immediatamente di questo film sono la poesia, la sua delicatezza, l’intensità: in un ambiente dove non c’è posto per i sentimenti e dove esiste la violenza in ogni piega della vita, negli atteggiamenti, nei rapporti, nelle azioni, le fasi di crescita del protagonista, che da piccolo viene dileggiato con l’appellativo di Little e da adulto per tutti diventa Black, arrivano a toccare in un crescendo di emozioni l’animo dello spettatore. Chiron dovrà mettere da parte sé stesso, la sua sensibilità, l’affetto per il suo unico amico d’infanzia, per sopravvivere in quel sociale in cui ha avuto la sfortuna di nascere e crescere.
Moonlight è un film sulla solitudine che nasce dalla diversità rispetto all’ambiente che ci circonda, diversità non tanto sessuale quanto nel modo di sentire l’altro, la famiglia, gli affetti veri, finendo col portarsi dietro il peso di certe etichette che, chi non comprende tutto questo, ti dà.
Prodotto da Plan B (casa di produzione di Brad Pitt), il film è di imminente uscita sul mercato americano e si spera presto sui nostri schermi. Potente, realistico, poetico.
data di pubblicazione:13/10/2016
da Maria Letizia Panerai | Ott 12, 2016
La figlia quindicenne di un messo pontificio non fa rientro a casa dopo la consueta lezione di flauto: è il 22 giugno del 1983. Di Emanuela Orlandi, da quel momento, si perderanno le tracce e ad oggi la sua scomparsa rimane ancora avvolta da un alone di mistero.
Roberto Faenza offre al pubblico italiano una pellicola che non è un vero e proprio film, quanto una minuziosa ricostruzione di fatti sotto la forma di racconto giornalistico, nata attingendo da dossier processuali, documenti di repertorio, testimonianze, materiale di archivio, fatti noti e non, concatenando il tutto con parti recitate funzionali alla ricostruzione per immagini. Il risultato è un interessante prodotto, in parte documentaristico, che cerca di mettere meticolosamente ordine in quell’intrigo di eventi che coinvolsero al tempo stesso criminalità, istituzioni religiose e governative, il mondo della finanza, intrighi che emersero in parte proprio da quel tragico evento del 22 giugno del 1983.
Il film inizia con la messa in scena del rapimento della Orlandi, per poi proseguire con l’indagine della giornalista Raffaella Notariale (interpretata da Valentina Lodovini) che fece riaprire il caso nel 2008 grazie ad una lunga intervista a Sabrina Minardi (Greta Scarano), ex moglie del calciatore Bruno Giordano, con un passato di tossicodipendenza e prostituzione, e che negli anni ottanta divenne l’amante di Enrico De Pedis detto Renatino (interpretato da un convincente Riccardo Scamarcio), boss dei “Testaccini” legati alla banda della Magliana.
Faenza, da bravo regista quale è, va oltre la semplice inchiesta, conferendo a tutta la pellicola una impostazione di narrazione filmica, includendo anche personaggi fittizi come una giornalista di un canale televisivo britannico (interpretato da Maya Sansa), in missione a Roma dopo i fatti recenti di Mafia Capitale, che farà da trait d’union tra l’attualità e l’inchiesta che fece a suo tempo la Notarile. Molto bravi i due protagonisti nel dare vita ai veri personaggi chiave su cui è costruita la struttura del film, e che avrebbero fatto invidia alla fervida penna di uno scrittore; in modo particolare il film arriva sino all’uccisione di De Pedis, avvenuta a Roma nel febbraio del 1990 in Via del Pellegrino, nei pressi di Campo de’ Fiori. La sua salma, come è ben noto, fu inizialmente tumulata nel cimitero del Verano per poi essere trasferita all’interno della cripta di Sant’Apollinare, perché considerato un benefattore dei poveri che frequentavano la Basilica. La chiesa, rimasta chiusa per anni, è stata riaperta di recente dopo che la Magistratura, nel giugno del 2012 al termine di ulteriori indagini che hanno poi portato all’archiviazione dell’inchiesta Orlandi, ha disposto la traslazione della salma dalla Basilica al cimitero di Prima Porta, dove è stata cremata su volere dei familiari.
Se ne consiglia la visione sia a chi conosce la vicenda e non la ricorda nei particolari, sia a chi, per questioni anagrafiche, la ignora completamente.
data di pubblicazione:12/10/2016
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da Maria Letizia Panerai | Ott 4, 2016
La giovane Sophie (Amanda Seyfried) gestisce con la madre Donna (un’incredibile Meryl Streep) un hotel sulla piccola isola greca Kalokairi. Nonostante la sua vita sia stata sempre felice e spensierata, le è da sempre mancata quella figura paterna di cui la madre non ha mai voluto rivelarle l’identità, ed ora che sta per sposare il suo amato Sky (Dominic Cooper), Sophie avverte molto forte questo vuoto paterno: conoscere suo padre e farsi condurre all’altare è il suo sogno. Un giorno Sophie trova un vecchio diario della madre dove viene raccontata la gioventù di Donna nel periodo precedente alla sua nascita, in cui frequentava tre uomini diversi. Credendo che uno dei tre possa essere quel padre che non ha mai avuto, all’insaputa di Donna, Sophie spedisce gli inviti di matrimonio ai tre uomini citati nel diario: l’affascinante Sam Carmichael (Pierce Brosnan), l’impacciato Harry Bright (Colin Firth) e lo scapestrato Bill Anderson (Stellan Skarsgård). Donna, che ben presto scoprirà la loro presenza sull’isola, cercherà con ogni mezzo di tenerli alla larga dalla giovane Sophie, ignorando che è proprio lei l’artefice di tutto.
Adattamento cinematografico dell’omonimo musical basato sulle musiche del gruppo svedese degli Abba, Mamma Mia! è divenuto un fenomeno da DVD in Gran Bretagna con 5 milioni di copie vendute, più che una pellicola di successo nelle sale cinematografiche. Il film, ambientato tra la sabbia finissima ed il mare cristallino di Skopelos e Skiathos, due isole facenti parte dell’arcipelago delle Sporadi, ci ispira una ricetta di polpettine di maiale in cui l’uvetta di Corinto è un elemento indispensabile.
INGREDIENTI: 4 etti di macinato di filetto di maiale – 1 uovo – 100 gr. di pangrattato – 2 cucchiai di parmigiano grattugiato – sale e pepe q.b. – noce moscata – un pizzico di cannella – una manciata di uvetta di Corinto – una manciatina di pinoli – olio extravergine d’oliva – brodo vegetale – crema di latte a piacere.
PROCEDIMENTO:
Lavorare la carne con uovo, sale, pepe e parmigiano. Aggiungere una grattatina di noce moscata ed un pizzico di cannella in polvere. Quando l’impasto sarà elastico, incorporate una generosa manciata di uvetta di Corinto e pinoli. Fate delle polpette non grandi e rotolatele nel pan grattato. A questo punto soffriggete le polpette in una padella con una buona dose di olio sino a far formare la crosticina, ed irroratele con un po’ di brodo vegetale per completare la cottura. Sul finale aggiungere (a piacere) un paio di cucchiai di crema di latte per ottenere un sughetto più gustoso. Da servire con una misticanza o con del riso alla cantonese (vedi ricetta collegata al film Chinatown) se si vuole dare risalto al gusto un po’ orientale. Mamma mia quanto sono buone!
da Maria Letizia Panerai | Set 24, 2016
Germania, 1918. La giovane Anna si reca ogni mattina al cimitero per portare fiori freschi al suo Frantz, morto sul fronte francese. Un giorno scorge un giovane piangere sulla tomba del suo amato: scoprirà di lì a poco che si tratta del francese Adrien, che pare abbia conosciuto Frantz a Parigi. Nonostante lo sconcerto iniziale dei genitori di Frantz, presso i quali la ragazza vive come fosse una loro figlia, Adrien riuscirà a scaldare nuovamente i loro cuori con i suoi racconti, facendo dimenticare ogni genere di ostilità.
Tratto da uno spettacolo teatrale già gloriosamente portato in passato sul grande schermo, l’ultimo film di François Ozon, in concorso alla 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016, è un susseguirsi di quadri in bianco e nero raffinati ed intensi, che ci avvolgono teneramente nell’atmosfera di una storia semplice, fatta di silenzi e cose non dette, a tratti ambigua ed aperta a svariate interpretazioni, in cui dialoghi essenziali unitamente ad una ambientazione ristretta a poghi luoghi, aiutano ad apprezzare invece che annoiare. Splendidi gli interpreti che ci regalano una prova sublime della loro bravura: Pierre Niney (Adrian) aveva già conquistato il pubblico con la sua struggente interpretazione di Yves Saint Laurent nell’omonimo film, mentre Paula Beer (Anna) è una giovane attrice tedesca, già apprezzata nel 2015 al Festival di Roma nel film della sezione Alice Four kings di Theresa Von Eltz (purtroppo non uscito nelle sale italiane), dotata di raffinata bellezza unita ad una forte intensità recitativa, che ha pienamente meritato il premio Marcello Mastroianni per il miglior attore emergente assegnatole a Venezia.
Anna e Adrian rappresentano nel film di Ozon una coppia di amici “pericolosi” per la mentalità dell’epoca, anche perché lui, in quanto francese, è visto come un nemico dagli abitanti del paese e per farsi benvolere dai genitori di Frantz, in particolare dal padre che gli aveva mostrato una forte ostilità, racconta menzogne su come ha conosciuto il loro figlio mantenendo sempre un alone di mistero sui veri sentimenti che aveva provato per lui. In realtà l’atteggiamento ambiguo del giovane Adrian, sottolineato dalla sapiente regia di Ozon che mescola continuamente realtà e finzione, viene filtrato da Anna che seppur si invaghisca di questo ragazzo fragile e gentile in cui rivede il fidanzato scomparso, sente di dover difendere gli anziani genitori dal dolore che la verità sulla morte dell’unico figlio potrebbe causare loro. Ed in questa altalena di emozioni, disillusioni, piccole gioie e menzogne, Anna elabora il suo lutto e finalmente rinascerà a nuova vita.
data di pubblicazione: 14/09/2016
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da Maria Letizia Panerai | Set 19, 2016
Argentina, 1983. Arquimedes Puccio, confidando ancora nella copertura dei suoi ex superiori dei servizi segreti nonostante il ritorno della democrazia nel suo paese, a solo scopo di estorsione, continua a praticare sequestri di persone. Le sue vittime, appartenenti a famiglie molto ricche e in vista, vengono detenute come ostaggi in attesa di riscatto nella cantina e nella soffitta della sua casa, con la complicità di sua moglie e di due dei suoi tre figli maschi, con il silenzio delle due figlie Silvia e Adriana. Tutti gli abitanti del quartiere ignorano quanto accada in quella casa.
Il clan, Leone d’argento per la migliore regia alla 72^ Mostra di Venezia, si basa su un fatto di cronaca realmente accaduto nella città di San Isidro, conosciuto come il “caso Puccio”. Quanto potrà mai durare la democrazia in questo paese? Un paio d’anni e si torna indietro…è su questa certezza che l’ex agente dei servizi segreti (rimasto senza lavoro) Arquimedes Puccio, uomo dall’aspetto pacato e tranquillo del buon padre di famiglia, ma in realtà padre-padrone freddo e crudele, continua a praticare l’attività criminale del sequestro di persona senza farsi alcuno scrupolo, giustificandosi con i propri familiari come fosse una normale fonte di sostentamento per tutti loro, rendendoli al tempo stesso complici e vittime di tanta crudeltà. Ad aiutare Arquimedes c’è il figlio Alejandro con il quale il padre ha un rapporto particolare ed intorno al quale ruota tutta la struttura di questo bel film di Pablo Trapero. Il regista ci offre il quadro di una nazione ancora malata, dove la sparizione di persone praticata sino ad allora dalla ex dittatura, era qualcosa di assolutamente radicato in una parte del tessuto sociale che anche nella nuova situazione continuava a detenere un certo potere sotto la protezione dei militari, in cui l’aberrante tornaconto personale dei Puccio si inserisce perfettamente.
E’ una storia cupa, potente ed ovviamente sconcertante quella che il regista ci racconta, aiutato da un cast di attori molto bravi fra i quali primeggiano, proprio per l’intensità degli sguardi, questo padre (Guillermo Francella) con i suoi occhi di ghiaccio che sono lo specchio di quella paura mista ad omertà con cui tiene legati a sé i suoi familiari, e questo figlio (Juan Pedro Lanzani) in perenne stato di “trans da obbedienza” il cui destino reale sino ai nostri giorni, che scorgeremo solamente nei titoli di coda, supera di gran lunga quanto incredibilmente viene narrato in tutto il film. Il clan è un film da vedere nonostante la dicitura “tratto da una storia vera”, perché mai come in questo caso la realtà supera la fantasia.
data di pubblicazione:19/09/2016
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