da Maria Letizia Panerai | Ott 27, 2016
Io, Daniel Blake non sono un utente, io non sono un consumatore, io non sono un numero di previdenza sociale, io non sono un punto sullo schermo del computer, io non sono una linea nelle statistiche…
Daniel Blake è arrivato alla soglia dei sessant’anni lavorando da sempre nei cantieri edìli come carpentiere; in seguito ad un attacco cardiaco, il medico lo dichiara inabile a svolgere un lavoro così usurante. L’uomo, messo in malattia senza avere la certezza se potrà mai tornare a lavorare, fa richiesta di un sostegno economico statale; ma l’ufficio preposto respinge la domanda dichiarando che non sussistono i requisiti di inabilità al lavoro dichiarati dal medico. Al fine di ottenere almeno la tessera per la banca del cibo e l’eventuale sussidio di disoccupazione, l’impiegata degli uffici di assistenza consiglia a Daniel di iscriversi al collocamento per dimostrare, paradossalmente, che sta cercando lavoro pur sapendo che non potrà mai accettarlo. Al collocamento Daniel conosce Katie, madre single di due bambini, anche lei rimasta senza sussidio ed appena arrivata da Londra a Newcastle perché le è stata assegnata lì una casa popolare. Tra i due nasce un’empatia immediata che aiuterà entrambi a superare momenti molto difficili.
I film di Ken Loach non si possono raccontare, vanno vissuti. Le sue storie hanno la semplicità delle grandi storie e I, Daniel Blake è un film immenso, di quelli che non si dimenticano per il carico di vita ed emozioni che porta con sé e per come, questo magnifico regista, ce le porge.
É un film sull’identità degli individui, sulla loro unicità, sul loro vissuto, sulla loro dignità, sull’esigenza di venire riconosciuti come esseri umani in una società che di umano ha conservato ben poco.
É un film sull’umiliazione gratuita che subiscono tutti coloro che stanno via via incrementando la lista dei nuovi poveri.
É un film sugli anziani, sui disoccupati, su tutti coloro che il lavoro lo hanno perso e sui loro figli, impauriti da un futuro sempre più incerto.
É un film sull’annullamento della dignità, economica e sociale, che viene alimentata dalla non presenza dello stato, spesso inerme ed ottuso.
É un film sull’invasione esasperante delle nuove tecnologie che, diventando sempre più indispensabili, hanno creato nuove forme di analfabetismo, annullando l’utilità per cui sono nate.
É un film sul senso d’impotenza ma anche sull’inaridimento dei sentimenti.
Però, è anche un film su quella incredibile umanità che esiste ancora nonostante tutto ed esce prepotente quando meno te lo aspetti, che arriva da parte di chi vuole comunque aiutare il suo simile sollevandolo dalla sofferenza, creando unione, regalando solidarietà bella, calda, tonda, disinteressata.
I, Daniel Blake è un capolavoro dei nostri tempi bui, che fa pensare, commuovere, riflettere, amare.
data di pubblicazione:27/10/2016
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da Maria Letizia Panerai | Ott 23, 2016
(11^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Roma, 13/23 ottobre 2016)
Questa 11^ edizione della Festa del cinema di Roma si chiude così come si è aperta, con un film che racconta la storia tormentata di un giovane uomo, questa volta vera, che da adulto si mette in cerca dei suoi familiari da cui è stato separato all’età di cinque anni.
Saroo, e suo fratello maggiore Ghaddu, sono inseparabili. Vivono in un piccolo paese rurale di una regione dell’India di cui il piccolo Saroo non sa neanche pronunciare il nome; sua madre è analfabeta e si guadagna da vivere trasportando sassi. I due fratelli, per prendersi cura della sorella e della madre, sono disposti a fare qualsiasi cosa per portare cibo a casa: dal furto di carbone sui treni merci che poi rivendono in cambio di un po’ di latte, sino a guadagnarsi la giornata sollevando balle di fieno: “Saroo, sei troppo piccolo per sollevare le balle di fieno”…”io posso sollevare qualsiasi cosa”. E così Ghaddu un giorno si lascia convincere e lo porta con sé, ma il piccolo non riesce a svegliarsi dopo il lungo viaggio in treno ed allora il fratello, che non può lasciarsi sfuggire l’occasione di guadagnare qualcosa, decide di lasciarlo sulla panchina della stazione con la raccomandazione di non muoversi. Ma la notte è troppo buia per un bambino di appena cinque anni che, rifugiatosi su di un treno vuoto per dormire meglio, si risveglierà dopo un lungo viaggio in una enorme e sconosciuta città: Calcutta.
Lion, lungometraggio d’esordio del regista pubblicitario Garth Davis che uscirà nelle sale italiane a Natale, presentato in anteprima mondiale a settembre al Festival di Toronto dove il pubblico l’ha premiato con un secondo posto, è tratto dal romanzo autobiografico di Saroo Brierley A Long Way Home che sarà nelle librerie in novembre. Anche se in campo cinematografico, letterario ed anche attraverso la televisione non è nuovo venire a conoscenza di storie di bambini alle prese con gli orrori della fame, della violenza e della guerra – argomento mai abbastanza trattato per sollevare le coscienze dal torpore in cui spesso vive la nostra società – quella raccontata da Lion-La strada verso casa colpirà in particolare per la forza della mente di questo giovane uomo, che mantenendo vivi i ricordi di un bambino di appena cinque anni, riuscirà a ricostruire il lungo percorso fatto nell’allontanarsi da casa.
La pellicola ha come protagonista Dev Patel (The Millionaire, L’uomo che vide l’infinito), molto convincente nella parte di Saroo venticinquenne, Rooney Mara (Carol) nella parte della sua fidanzata e Nicole Kidman in quella della madre australiana adottiva. Il film è ovviamente molto commovente e quindi rientra tra quelle pellicole che o si amano o si odiano, senza mezze misure. Le scene e la fotografia sono curatissime. L’uscita natalizia azzeccata.
data di pubblicazione:23/10/2016
da Maria Letizia Panerai | Ott 21, 2016
(11^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Roma, 13/23 ottobre 2016)
E se quello che guardiamo non è il cielo ma un mare che sta per cascarci addosso? É ciò che si chiede l’operaia di un’azienda tessile italiana, da poco ceduta ad una multinazionale francese, perché è una delle undici donne chiamate a decidere in rappresentanza di tutta la fabbrica, se accettare o meno le condizioni della nuova proprietà. Il lavoro è salvo, ma si chiede ad ognuna di loro di rinunciare ogni giorno a 7 minuti della pausa pranzo: cosa sono solo 7 minuti, se in ballo c’è il mantenimento del posto di lavoro? Sono donne, ma anche madri, figlie e future nonne; i loro dialetti si mescolano all’italiano incerto di altre operaie immigrate dall’Albania, dalla Nigeria, dalla Romania. Ma Bianca, che è colei che le ha rappresentate tutte nel Consiglio di fabbrica, dice loro che quei pochi minuti, moltiplicati per il numero di tutte le operaie presenti in fabbrica, sono 900 ore di lavoro in più al mese: vuol dire produrre di più a costo zero e senza nuove assunzioni. E allora, accettare questo compromesso è uno sbaglio? Vuol dire che forse sta vincendo la paura perché, quando tutto crolla, cresce il bisogno di salvarsi? E se si accetta senza problemi, cosa succederà in futuro?
Michele Placido ci racconta una storia ispirata ad un fatto vero, portandoci per mano, senza eccessi, nel cuore pulsante di interrogativi importanti e lo fa affidandosi ad un cast femminile di prim’ordine. Queste donne dovranno in poco tempo emettere un vero e proprio “verdetto” e decidere se accettare o meno una proposta apparentemente innocua pur di vedere salvo il lavoro di tutti. Il film, nato da un testo teatrale di Stefano Massini, si svolge prevalentemente in una stanza in cui le operaie, intorno ad un tavolo, si trovano a dover prendere per tutti una decisione che ha un peso specifico importante, ed evoca in maniera inequivocabile, nell’impianto scenico, La parola ai giurati di Sidney Lumet il cui soggetto è stato ripreso negli anni in diversi adattamenti teatrali. La contrapposizione delle loro storie, i discorsi razzisti che in condizione di nervosismo emergono con prepotenza tra di loro, il voto che ognuna dovrà ripensare perché nel confronto le certezze cominciano a vacillare, sono anch’essi elementi nodali che ci riportano al film di Lumet e ai suoi 12 giurati chiamati a decidere unanimemente su un caso di omicidio che sconvolgerà le loro coscienze.
Tuttavia, nonostante le affinità, 7 minuti è un buon film, che si avvale non solo di una solida e collaudata sceneggiatura, ma anche di una ottima interpretazione corale di: Ottavia Piccolo, Ambra Angiolini, Fiorella Mannoia, Violante Placido (finalmente in un ruolo maturo), Clèmence Poèsy e Sabine Timoteo (bravissime), Maria Nazionale ed Cristina Capotondi; ma soprattutto di una ritrovata verve di Michele Placido alla regia.
data di pubblicazione:21/10/2016
da Maria Letizia Panerai | Ott 17, 2016
(11^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – ROMA, 13/23 ottobre 2016)
In un ospedale di Brest, città portuale bretone situata a nord-ovest della Francia, la pneumologa Irène Frachon scopre che alcuni suoi pazienti con problemi polmonari, sono stati trattati con un farmaco, il Mediator, perché affetti da diabete o semplicemente per perdere peso. Andando avanti nelle sue ricerche si accorge che esiste un legame tra l’assunzione del farmaco, presente sul mercato da oltre trent’anni, e la morte di certi suoi pazienti nei quali erano subentrati anche gravi problemi cardiaci oltre a quelli respiratori, e per i quali, in alcuni casi, si era dovuto addirittura intervenire chirurgicamente. Irène inizia ad indagare e coinvolge alcuni colleghi ricercatori per effettuare una statistica, non a campione come sovente viene fatto nelle case farmaceutiche per valutare la percentuale di controindicazioni, ma a posteriori sui pazienti malati presenti nel data base dell’ospedale nei quali sono stati riscontarti sintomi collaterali dopo l’assunzione del Mediator. La percentuale di cardiopatie riscontrate realmente dal team dell’ospedale di Brest risulterà molto più alta di quella dichiarata dalla casa farmaceutica alle Autorità di vigilanza del Ministero della Sanità. Inizierà così una lunga battaglia che inevitabilmente assumerà dimensioni enormi, che la pneumologa porterà avanti con coraggio e determinazione al solo scopo di difendere la salute dei suoi pazienti, contro gli interessi economici e la burocrazia.
Irène Frachon è l’autrice del libro Mediator 150 mg da cui è stato tratto l’adattamento cinematografico di Emmanuelle Bercot, regista, sceneggiatrice e attrice, che tutti ricordiamo quale splendida interprete in Mon Roi accanto a Vincent Cassel, ruolo per il quale fu premiata al Festival di Cannes 2015.
Le fille de Brest è basato prevalentemente sulla storia di questa “eroina” che ha lottato per molti anni contro tutto e contro tutti, madre e moglie, lavoratrice indefessa, con un carattere d’acciaio, classico esempio di passione, competenza, determinazione ed energia da vendere. La storia è avvincente e Sisde Babett Knudsen (La corte) è bravissima nel trasmetterci la vulcanicità del personaggio di Irène, conferendo al film un ritmo tale da non farci troppo pesare le oltre due ore di durata che rischiano di distogliere l’attenzione dello spettatore da una storia decisamente interessante, lato negativo assiema all’inutile e gratuito realismo di due scene in sala operatoria.
Tuttavia, il film è comunque avvincente e soprattutto, mai come in questo caso, il fatto che sia tratto da una storia vera fa ben sperare che al mondo ci siano ancora persone come Irène Frachon!
data di pubblicazione:17/10/2016
da Maria Letizia Panerai | Ott 14, 2016
(11^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Roma, 13/23 ottobre 2016)
Lee Chandler (Casey Affleck) è un tipo taciturno che lavora come factotum presso un condominio, in una non meglio identificata località degli Stati Uniti. Passa le sue giornate in solitudine, facendo ogni genere di riparazioni presso case private per poi tornarsene la sera, dopo aver bevuto una birra al pub, a dormire davanti alla TV in una stanza nel sottoscala del palazzo. Non appena riceve la notizia che il suo unico fratello Joe, malato di cuore da diverso tempo, è morto per un infarto, è costretto a tornare a Manchester, nel Massachusetts. Lee, profondamente addolorato dalla scomparsa, sarà l’unico a potersi occupare del funerale e scoprirà, di lì a breve, che Joe lo ha nominato tutore di suo figlio Patrick ancora minorenne. Questo non preventivato soggiorno obbligato a Manchester, per un periodo piuttosto lungo, farà prepotentemente riemergere in Lee ricordi dolorosi sino ad allora soffocati dal grigiore della sua esistenza, veri e propri demoni che gli corrodono giorno dopo giorno la coscienza. Ritornare alle proprie radici, in questa bella cittadina con il faro e le barche dei pescatori dove un tempo era stato anche felice, lo obbligherà a fare i conti con un passato che lo ha segnato a morte, un lutto sino ad ora per lui impossibile da elaborare.
Manchester by the sea di Kenneth Lonergan approda alla Festa del cinema di Roma preceduto da giudizi estremamente lusinghieri. Sicuramente il film si avvale di un cast di primissimo livello tra cui spicca per bravura Casey Affleck nella parte del protagonista, per il quale già si parla di candidatura agli Oscar 2017. Film drammatico, vanta un’interpretazione misurata e sussurrata di tutti gli attori, senza eccessi, urla o interpretazioni sopra le righe, pregio che lo allontana dal solito cliché del drammone esistenziale americano. Tuttavia i 135 minuti pacati e lenti non conferiscono profondità ad una pellicola che, al contrario, finisce con l’annoiare lo spettatore costretto a seguire il susseguirsi della grigia vita del protagonista. Inoltre la storia è talmente irrimediabilmente senza ritorno, che da subito si percepisce che non può esserci redenzione, se non un piccolo barlume di essa sul finale. E per finire, ma non come ultimo aspetto, ci sono troppe birre e scazzottate da sbornia nei pub, scarponi da lavoro, jeep, famiglie che si rompono ma che poi nel dolore si ritrovano per chiedersi scusa: forse non avevamo bisogno di vedere di nuovo sullo schermo tutto questo che, irrimediabilmente, identifica la pellicola collocandola in un certo filone già molto “affollato”.
Il film comunque uscirà nelle nostre sale il 1 dicembre: al pubblico il giudizio finale.
data di pubblicazione:14/10/2016
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