da Maria Letizia Panerai | Feb 15, 2017
Tre fasi della crescita di un giovane afroamericano, ma una sola vita: quella che gli altri vogliono che lui viva.
Chiron, soprannominato Little, è un bambino silenzioso, fragile, sensibile, dagli occhi buoni ma impauriti dal bullismo dei suoi compagni di scuola. Ma quando ti trovi a vivere nei quartieri bassi di Miami, tua madre è tossicodipendente e finisci con il ravvisare in uno spacciatore dai modi gentili la figura paterna che non hai mai avuto, non hai scampo: devi crearti quella corazza che non hai, plasmartela addosso come un culturista crea il proprio fisico, per allontanare il resto del mondo da te e difendere il tuo spirito, i tuoi sentimenti, l’amicizia.
Approda nelle sale Moonlight, secondo lungometraggio del regista e sceneggiatore statunitense Barry Jenkins, che ha aperto l’undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma dopo essere passato per importanti Festival internazionali riportando un’unanime approvazione da parte della critica, ed in corsa con ben 8 candidature (tra cui miglior film e miglior regia) agli Oscar 2017. Le cose che colpiscono immediatamente di questo film sono la poesia, la delicatezza con cui viene accarezzato l’animo umano, l’intensità: in un ambiente dove non c’è posto per i sentimenti e dove esiste la violenza in ogni piega della vita reale, negli atteggiamenti, nei rapporti, nelle azioni, le fasi di crescita del protagonista, che da piccolo viene dileggiato con l’appellativo di Little e da adulto per tutti diventa Black, arrivano a toccare in un crescendo di emozioni l’animo dello spettatore. Chiron dovrà mettere da parte se stesso, la sua sensibilità, l’affetto per il suo unico amico d’infanzia, per sopravvivere in quel sociale in cui ha avuto la sfortuna di nascere e crescere.
Moonlight è un film sulla solitudine che nasce dalla diversità rispetto all’ambiente che ci circonda, diversità non tanto sessuale quanto nel modo di sentire l’altro, la famiglia, gli affetti veri, finendo col portarsi dietro il peso di certe etichette che, chi non comprende tutto questo, ti dà e con le quali sei costretto a convivere pur sapendo che tu “non sei quello”.
Prodotto da Plan B (casa di produzione di Brad Pitt), Moonlight è potente, realistico, poetico. Decisamente da vedere.
data di pubblicazione:15/02/2017
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da Maria Letizia Panerai | Feb 8, 2017
In un ospedale di Brest, città portuale bretone situata a nord-ovest della Francia, la pneumologa Irène Frachon scopre che alcuni suoi pazienti con problemi polmonari, sono stati trattati con un farmaco, il Mediator, perché affetti da diabete o semplicemente per perdere peso. Andando avanti nelle sue ricerche si accorge che esiste uno stretto legame tra l’assunzione del farmaco, presente sul mercato da oltre trent’anni, e il decesso di alcuni di loro nei quali erano subentrati anche gravi problemi cardiaci oltre a quelli respiratori, e per i quali, in alcuni casi, si era dovuto addirittura intervenire chirurgicamente.
Irène decide di indagare. Coinvolgendo alcuni colleghi ricercatori, fa effettuare loro una statistica non a campione, come sovente viene fatto nelle case farmaceutiche per valutare la percentuale di controindicazioni prima di immettere un prodotto sul mercato, ma a posteriori sui pazienti malati presenti nel data base dell’ospedale, nei quali sono stati riscontarti sintomi collaterali dopo l’assunzione del Mediator. La percentuale di cardiopatie riscontrate realmente dal team dell’ospedale di Brest risulterà diversa da quella dichiarata dalla casa farmaceutica alle Autorità di vigilanza del Ministero della Sanità. Inizierà così una lunga battaglia che inevitabilmente assumerà dimensioni enormi, che la pneumologa porterà avanti con coraggio e determinazione al solo scopo di difendere la salute dei suoi pazienti, contro gli interessi economici e la burocrazia.
Irène Frachon è l’autrice del libro Mediator 150 mg da cui è stato tratto l’adattamento cinematografico di Emmanuelle Bercot, regista, sceneggiatrice e attrice, che tutti ricordiamo quale splendida interprete in Mon Roi accanto a Vincent Cassel, ruolo per il quale fu premiata al Festival di Cannes 2015.
Le fille de Brest, titolo originale con cui il film è stato presentato alla 11^ Festa del Cinema di Roma, è basato prevalentemente sulla storia di questa “eroina” che ha lottato per molti anni contro tutto e contro tutti, madre e moglie, lavoratrice indefessa, con un carattere d’acciaio, classico esempio di passione, competenza, determinazione ed energia da vendere. La storia è avvincente e Sisde Babett Knudsen (La corte) è bravissima nel trasmetterci la vulcanicità del personaggio di Irène, conferendo al film un ritmo tale da non farci troppo pesare le oltre due ore di durata che, a volte, rischiano di distogliere l’attenzione dello spettatore da una storia decisamente interessante, al pari dell’inutile e gratuito realismo di un paio di scene in sala operatoria.
Il film, pur essendo tratto da una storia vera e non frutto di fantasia, oltre ad essere avvincente fa ben sperare che al mondo ci siano ancora persone come Irène Frachon!
data di pubblicazione:08/02/2017
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da Maria Letizia Panerai | Gen 25, 2017
Una favola moderna, dal finale non scontato, si consuma sotto i cieli di LA. Un pianista jazz, che coltiva con rabbia la sua passione assieme al sogno di aprire un locale tutto suo dove poter suonare ciò che vuole e quanto vuole, incontra un’aspirante attrice che si mantiene servendo caffè in un bar all’interno degli Studios pur di poter continuare a fare provini, e coronare un giorno il sogno di recitare da protagonista in una pièce teatrale. Le loro strade s’incontrano ed entrambi proveranno a percorrerle insieme, rinnovando con determinazione ogni giorno il proprio diritto a sognare.
Nonostante le stagioni si susseguano nella città degli angeli, in California è sempre primavera e un altro splendido giorno di sole arriverà. Damien Chazelle, compiendo una scelta stilistica diametralmente opposta al pluripremiato Whiplash, ci racconta in chiave musicale la storia romantica di due sognatori: il pianista jazz Sebastian (Ryan Gosling) e l’aspirante attrice Mia (Emma Stone), che ci invitano a brindare ai sognatori, ai cuori che soffrono e ai disastri che combinano…e ai folli che sanno sognare. La La Land non solo ha aperto in maniera assolutamente insolita l’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia che ha poi tributato ad Emma Stone la Coppa Volpi, ma ha di recente vinto ben 7 Golden Globe che, almeno in parte, lo traghetteranno verso gli imminenti Oscar 2017. Il film, puntando su due attori che danno prova di saper ballare e cantare (oltre che recitare come è ben noto a tutti), molto affiatati perché alla loro terza volta insieme sul grande schermo, mostra di avere in sé tradizione, romanticismo e favola raccontati in chiave assolutamente moderna, ingredienti necessari per far parte con onore del genere musical americano, che vanta peraltro un passato glorioso con cui confrontarsi ma che in Europa non ha radici così profonde. Tuttavia questa storia d’altri tempi, calata nel presente dal giovane Chazelle, lancia un messaggio universale che sa di buono ed il cinema diviene un mezzo per violare le regole del reale ed invitarci a inseguire con caparbia perseveranza ciò che ci piace veramente, scegliendo con il cuore e non con la testa. Portatore sano di una ventata di rinnovamento, pur paradossalmente attingendo a radici così lontane nel tempo, La La Land potrebbe incontrare il gusto del pubblico italiano come a Venezia ha incontrato quello della stampa che lo ha applaudito sin dalla splendida scena iniziale. Ad affiancare il “tastierista Gosling” troviamo il premio Oscar John Legend e l’intera colonna sonora del film è stata composta e orchestrata da Justin Hurwitz, che aveva già precedentemente collaborato con Chazelle.
Se, uscendo dal cinema, non tenterete di improvvisare qualche goffo passo di tip tap, o sotto la doccia l’indomani non canticchierete il ritornello del Mia and Sebastian’s Theme, allora forse il film non avrà colpito nel segno e il musical non fa decisamente per voi!
data di pubblicazione:25/01/2017
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da Maria Letizia Panerai | Gen 13, 2017
Nel paese dei giganti San-guinario, Inghiotti-ciccia viva, Scrocchia-ossa, Ciuccia-budella, Vomitoso, Spella-fanciulle, Strizza-teste, Trita-bimbo, Scotta-dito, ce n’è uno meno gigante di loro. Ha grandi orecchie come due parabole pronte a captare ogni desiderio degli urbani, si ciba solo di vegetali e non di bambini come gli altri, e per la sua “piccola” statura è deriso e sbeffeggiato. Il suo lavoro consiste nel catturare i sogni immergendosi nelle acque del mondo dei sogni, chiuderli dentro dei barattoli per poi insufflarli con la sua particolare tromba nella mente degli urbani durante la notte, senza essere visto, allo scopo di renderli felici. Una notte, con la sua borsa piena di sogni mentre scavalca con pochi grandi passi i palazzi londinesi viene visto dalla piccola Sophie che, ancora sveglia, aspetta l’ora delle streghe affacciata al balcone dell’orfanotrofio dove vive insieme ad altri bambini. Il gigante la afferra e la porta via con sé.
Sophie è sola al mondo, ma tanto curiosa del mondo: nella mano del gigante in pochi minuti sorvolerà Londra e si ritroverà nella sua caverna, come in un altro emisfero dove vivono esseri molto diversi dagli umani come lei. Lo spavento iniziale lascerà immediatamente il posto alla curiosità: quel gigante dolce e gentile, che lei chiamerà GGG, non potrà che farle scoprire cose fantastiche. La loro complicità troverà però filo da torcere nella forza distruttrice degli altri giganti, grandi come montagne, sanguinari e cattivi, sempre in cerca di urbani da mangiare. Come sbarazzarsi di loro, per evitare che con goffi e violenti movimenti possano distruggere tutti quei sogni che GGG custodisce tanto gelosamente nella sua caverna?
E così il settantenne Steven Spielberg ci insegna a sognare! Il suo gigante, ghiotto di cetrionzoli e sciroppio, ci svela il segreto dell’ascolto, attraverso il quale si può sconfiggere i cattivi e guarire tutti i mali del mondo. Ha gli occhi buoni come l’indimenticato E.T. e parla una lingua strana che diventa subito familiare.
Adattamento dell’omonimo romanzo per l’infanzia scritto dal britannico Roald Dahl, autore de La fabbrica di cioccolato portato con successo sul grande schermo da Tim Burton grazie al suo attore feticcio Johnny Depp nella parte di Willy Wonka, Il Grande Gigante Gentile è una favola adatta ai bambini che diverte tanto anche i grandi. Si parla di sofferenza, di difficoltà, addirittura di bullismo quando GGG viene deriso dagli altri giganti, ma Spielberg fedele al testo indica anche la strada per il riscatto e la speranza. Saper ascoltare, sforzarsi di capire lingue ed usanze diverse è il messaggio del film; ma soprattutto la gentilezza, quella con la G maiuscola, sentimento che accomuna Sophie e GGG, due esseri diametralmente opposti: essa fa scattare tra loro un’immediata empatica complicità atta a superare ogni tipo di barriera, anche le più impensabili. Il finale poi, che vede i due protagonisti al cospetto della Regina nelle stanze di Buckingham Palace, è quanto di più ironico si possa immaginare. Film molto divertente da vedere con gioia, possibilmente su un maxi schermo e con un bel bidone di popcorn!
data di pubblicazione:13/01/2017
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da Maria Letizia Panerai | Dic 26, 2016
Lion racconta la storia tormentata (e vera) di un giovane uomo che si mette in cerca dei suoi familiari di cui ha un ricordo lontano, di quando aveva appena cinque anni, età in cui si perde e non riesce più a ritrovare la strada che lo riporti verso casa.
Saroo, e suo fratello maggiore Ghaddu, sono inseparabili. Vivono in un piccolo paese rurale di una regione dell’India di cui il piccolo Saroo non sa neanche pronunciare il nome; sua madre è analfabeta e si guadagna da vivere trasportando sassi. I due fratelli, per prendersi cura della madre e della sorellina, sono disposti a fare qualsiasi cosa per riportare del cibo a casa: dal furto di carbone sui treni merci che poi rivendono in cambio di un po’ di latte, sino a guadagnarsi la giornata sollevando balle di fieno: “Saroo, sei troppo piccolo per sollevare le balle di fieno”…”io posso sollevare qualsiasi cosa”. E così Ghaddu un giorno si lascia convincere e lo porta con sé ma, non potendo lasciarsi sfuggire l’occasione di guadagnare qualcosa, decide di lasciare il fratellino ancora assonnato sulla panchina di una stazione, con la raccomandazione di non muoversi. Ma la notte è troppo buia per un bambino piccolo come Saroo; rifugiatosi su di un treno vuoto per dormire meglio, si risveglierà dopo un lungo viaggio in una enorme e sconosciuta città: Calcutta.
Lion, lungometraggio d’esordio del regista pubblicitario Garth Davis appena uscito nelle sale italiane, presentato in anteprima mondiale a settembre al Festival di Toronto e come film di chiusura alla 11^ edizione della Festa del cinema di Roma, è tratto dal romanzo autobiografico di Saroo Brierley A Long Way Home da novembre nelle nostre librerie. Anche se in campo cinematografico e letterario non è nuovo venire a conoscenza di storie di bambini alle prese con gli orrori della fame, della violenza e purtroppo della guerra – argomento comunque mai abbastanza trattato per sollevare le coscienze dal torpore in cui spesso vive la nostra società – quella raccontata da Lion-La strada verso casa colpisce perché è una storia diversa dalle altre.
Il film racconta non solo della forza interiore di un giovane venticinquenne che, mantenendo vivi i ricordi di quando aveva appena cinque anni, riesce a ricostruire il lungo percorso fatto nell’allontanarsi da casa, ma affronta anche in modo molto profondo e senza troppi romanticismi il tema delle adozioni, di certe radici che non si possono cancellare né modificare, neanche con un amore incondizionato.
Dev Patel (The Millionaire, L’uomo che vide l’infinito) è molto convincente nella parte di Saroo adulto, Rooney Mara (Carol) è la sua fidanzata, mentre Nicole Kidman, tornata finalmente sugli schermi con un ruolo intenso, veste magnificamente i panni della madre adottiva. Il film è ovviamente molto commovente perché la storia stessa lo è, e quindi rientra tra quelle pellicole che o si amano o si odiano, senza mezze misure. Le scene e la fotografia sono curatissime; tutta la prima parte della storia, girata in alcune zone rurali dell’India e a Calcutta è affascinante ed ha un buon ritmo, a scapito della seconda parte ambientata a Melbourne, che a tratti appare inutilmente lunga e lenta.
Non deve ingannare l’uscita commerciale del film in questi giorni di festa, perché Lion racconta una bella storia di quelle che allargano il cuore, senza tuttavia essere banale, che sicuramente il pubblico premierà anche dopo la pausa natalizia.
Data di pubblicazione: 26/12/2016
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