da Maria Letizia Panerai | Ott 20, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Robert Redford sceglie di interpretare, per il suo addio alle scene, il ruolo di un attempato rapinatore di banche. Il suo Forrest Tucker ci fa ripensare a tutti quei personaggi che abbiamo tanto amato e continueremo ad amare, ribelli e fuorilegge alla Butch Cassidy, imbroglioni ma pieni di fascino come ne La stangata e ricchi di infinita classe come ne Il grande Gatsby.
Forrest Tucker, dopo aver messo a segno infiniti colpi in banca e ben 18 evasioni da ogni tipo di penitenziario, compresa quella clamorosa dal carcere di massima sicurezza di San Quintino, continua insieme ai “vecchi compagni” di avventura a commettere rapine, spostandosi di contea in contea. Il suo è un vero e proprio talento naturale, manifestatosi sin dai tempi del riformatorio, che Forrest continua anche in età più che matura ad esercitare con gioiosa sfacciataggine e una generosa dose di buone maniere. Un vero e proprio ladro gentiluomo che continua ad organizzare colpi leggendari, nonostante abbia alle calcagna il detective John Hunt, interpretato da un bravo Casey Affleck, rapito a tal punto dall’abilità di quest’uomo da essere felice di non poterlo catturare; Danny Glover e Tom Waits vestono i panni degli altri due componenti la“over the hill gang” e una brava Sissy Spacek quelli di una vedova che si innamora di Forrest nonostante l’insolita professione che questi si sia scelto.
Old Man & the Gun è un film godibile, ben ritmato, destinato sicuramente a riscuotere il successo che merita, grazie anche alla carismatica presenza di Redford. Tratto dalla storia vera di questo straordinario rapinatore di banche che, dopo aver portato a termine l’ultimo geniale colpo della sua lunga carriera, fu rispedito in prigione alla veneranda età di 80 anni, Old Man & the Gun vuole essere l’ultima immagine autoironica che questo grandissimo e poliedrico artista, coetaneo del personaggio che interpreta, ha voluto lasciare al suo pubblico.
E se ci piace pensare che l’andatura un po’ incerta e le giacche con le spalle un po’ scese siano un modo per il Grande Robert di “gigioneggiare” con lo spettatore instillandogli un inevitabile sentimento di tenerezza, attraverso i suoi occhi non possiamo che intravedere la lunga carrellata dei personaggi della sua prolifica carriera che ci accompagneranno ancora per moltissimo tempo, e ancora.
data di pubblicazione:20/10/2018
da Maria Letizia Panerai | Ott 19, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Se la speranza è un vizio è assai difficile vivere senza di essa, soprattutto se è il carburante che alimenta la resistenza, l’attesa, per poi rinascere.
Il corpo di una bambina si impiglia tra le reti calate nel fiume Volturno: ha indosso l’abito bianco della prima comunione, imbrattato di sangue. È ancora viva quando un uomo la issa sulla propria imbarcazione. Nelle baracche lungo quello stesso fiume vivono donne-schiave che vendono il proprio corpo in cambio di una esistenza polverosa e terribile, dove non c’è posto per vite future. Su quel fiume conduce la propria esistenza anche Maria che, assieme al proprio cane, traghetta prostitute incinte, perlopiù nigeriane, per ordine della orribile Zi’Mari, allo scopo di andare a vendere i figli che stanno per partorire. È inverno, piove e fa freddo, addirittura nevica: Maria compie ogni azione con dedizione e fedeltà nei confronti della “madame ingioiellata”, padrona anche della sua di vita e di quella di sua madre che proprio all’interno di una di quelle baracche lungo il fiume preferisce farsela scorrere addosso senza reagire, senza dare nulla in cambio a quella figlia così amorevole e devota.
Ancora una volta Castel Volturno è il luogo dove Edoardo De Angelis “blinda” la sua storia, una parabola laica con una connotazione quasi arcaica, ambientata in un sottomondo campano dove sembra impossibile trovare tenerezza, speranza.
L’impressione che di pancia si prova vedendo il film è quella di una lenta resistenza umana di fronte alle atrocità, senza che ci sia una vero e proprio obiettivo se non quello di aspettare un evento, qualcosa che ti faccia capire che vale la pena ancora di combattere e continuare a sperare. Secondo il regista la nascita di un figlio, non quando tutto è pronto ad accoglierlo ma quando non ci sono affatto le condizioni per farlo, è l’evento che può sollevare vite disperate.
Il film non è equiparabile a Indivisibili, ma ha una lirica che arriva diritta al cuore, che ci desta come lo schiaffo che riceviamo da neonati per farci capire che siamo venuti al mondo.
La musica, affidata al grande Enzo Avitabile, e la sceneggiatura a quattro mani di De Angelis e Umberto Contarello, fanno de Il vizio della speranza un film profondo, intriso di un certo lirismo, suggestivo, ricco di metafore dalla prima all’ultima scena, che commuove e colpisce.
data di pubblicazione:19/10/2018
da Maria Letizia Panerai | Ott 11, 2018
Il musicista country-rock Jackson Maine detto Jack (B.Cooper), dopo un concerto incontra per caso una cantante di nome Ally (Lady Gaga) che si esibisce in un locale di drag queen, unica donna ammessa a salire su quel palco per le sue straordinarie doti vocali, ma non sufficientemente bella per avere successo in campo musicale. I due si incontrano dapprima solo musicalmente e Jack capisce immediatamente di aver a che fare con un vero e proprio animale da palcoscenico. La loro storia d’amore coronerà tra alti e bassi le loro carriere, una in ascesa l’altra in declino. Il resto è storia già conosciuta ai più.
A star is born, è il primo film da regista per Bradley Cooper, con un’interprete d’eccezione come Lady Gaga nel ruolo che per ben tre volte è stato coperto da illustri attrici. La più recente versione del film è quella del 1976 con la coppia Barbra Streisand – Kris Kristofferson, a cui pare il giovane talentuoso attore si sia ispirato per questa sua versione di ciò che potremmo definire la storia d’amore per antonomasia. Due star al debutto, dunque, una come regista e cantante (con doti in quest’ultimo caso davvero notevoli), l’altra come attrice con un risultato sorprendente che non stupisce, essendo Lady Gaga già un’interprete particolare nel panorama musicale mondiale. Entrambi sulla scena non risultano perfettamente compatibili: lui bellissimo, alto, con uno sguardo profondo e tenero, lei piccola di statura, affascinante ma non bella, con un profilo “greco” che nella carriera reale è diventato il suo punto di forza, elementi che tuttavia insieme sortiscono l’ovvio risultato di far emergere il ruolo da pigmalione di lui nei confronti di una stella che sta per brillare nel firmamento musicale.
Il film, presentato fuori concorso in prima mondiale all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è un prodotto perfetto per incantare un pubblico che è alla ricerca di evasione: Cooper non è solo bellissimo ma anche molto bravo, la storia d’amore è di quelle che fanno sognare, i brani musicali scritti dai due interpreti assieme a Lukas Nelson, Jason Isbell e Mark Ronson sono a dir poco accattivanti e creano il vero filo conduttore di tutta la vicenda, senza parlare delle scene e della fotografia, quest’ultima ad opera di Matthew Libatique (Il cigno nero), che completano un pacchetto molto ben architettato.
Tuttavia, senza nulla togliere ai due interpreti, questa “impossibile storia d’amore” come l’ha definita il neo regista, che commuove e ci fa sognare, risulta a tratti stucchevole e noiosa a causa di questa nuova (e a volte inappropriata) tendenza di produrre pellicole che superano le due ore e che mai, come in questo caso, pesano peccando già la trama di originalità.
data di pubblicazione:11/10/2018
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da Maria Letizia Panerai | Ott 11, 2018
Un rapporto a due, quello tra i coniugi Castleman, forte ed indissolubile, che si basa su una complicità che si trasforma negli anni in un compromesso insopportabile a causa di un’illusione: quella di riuscire a tutelare per sempre un segreto che non può essere confessato.
Joe e Joan si conoscono sin dai tempi dell’università: siamo negli anni ’50. Lui è un professore di letteratura, sposato e con una figlia appena nata, lei una brillante studentessa, scrittrice in erba, che cede alle lusinghe ed al fascino di quest’uomo di talento. Dopo quarant’anni, è il 1992, ritroviamo la coppia alla vigilia di un grande evento: Joe, che nel frattempo è divenuto uno scrittore di successo, riceve la notizia di essere stato insignito del premio Nobel alla letteratura; Joan è ancora al suo fianco ma nella veste di moglie devota, madre dei suoi due figli, compagna premurosa ed amorevole. Fra i due, anche dopo tanti anni, sembra esserci un’intesa perfetta ma, l’evento straordinario del Nobel incrina tanta apparente perfezione, facendo emergere non solo l’ombra di innumerevoli tradimenti sul piano personale da parte di quest’uomo capriccioso ed egocentrico, ma anche quella assai più ingombrante di un insospettabile sodalizio professionale.
Jonathan Pryce e Glenn Close sono i due straordinari interpreti di un film che si regge esclusivamente sugli equilibri ed i disequilibri di un rapporto d’amore che, dopo quarant’anni, è sull’orlo del collasso.
Il film dello svedese Biörn Runge, tratto dall’omonimo romanzo di Meg Wolitzer, ha un’idea di fondo ancora molto attuale anche se non del tutto originale (basti pensare a Big eyes di Tim Burton), condotta con delicatezza e senza eccessi pur parlando di ribellione femminile e Glenn Close, nel ruolo della donna di talento che ha sacrificato per anni la propria ambizione per vivere all’ombra del marito, unico tra i due ad avere avuto “l’investitura sociale” a diffondere l’arte dello scrivere, probabilmente riuscirà a conquistarsi la settima nomination agli Oscar.
Il film infatti sembra cucito addosso a questa grande attrice, ma la sua bravura non è decisamente sufficiente a sollevare una pellicola che ha una sceneggiatura un po’ piatta, che ricorre anche a qualche clichè e che si riprende solo con un finale non propriamente scontato ma che, tuttavia, non riesce a fare di The Wife un film da annoverare tra i migliori in circolazione.
data di pubblicazione:11/10/2018
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da Maria Letizia Panerai | Set 15, 2018
Martino (Giorgio Pasotti), mite e taciturno, lavora come custode notturno della Mole Antonelliana dove ha sede il Museo del Cinema che, dopo la mezzanotte, diventa il suo regno. In un vecchio magazzino dismesso del museo Martino ha ricavato la sua casa dove, quando non lavora, passa il tempo a vedere vecchie pellicole di film muti: il cinema è la sua vita e la sua vita è mediata attraverso una vecchia telecamera con cui riprende la realtà virtuale da cui è circondato.
Un giorno irrompe nella sua esistenza “sospesa” Amanda (Francesca Inaudi), una ragazza di periferia che fa l’inserviente in un fast food, fidanzata con Angelo (Fabio Troiano), di professione ladro di automobili: costretta a fuggire dalla polizia, Amanda sarà aiutata da Martino che accetterà di nasconderla nella Mole. Di lì a poco la ragazza rappresenterà, per quest’uomo taciturno e solo, l’unico legame con la vita reale.
I tre giovani e bravi interpreti, la voce narrante di Silvio Orlando e una colonna sonora singolare, fanno di questa produzione a basso costo, prodotta e sceneggiata dallo stesso Ferrario, un vero e proprio tributo al Museo Nazionale del Cinema, luogo cinematografico per eccellenza, in cui amore e tenerezza si intrecciano in una commedia sentimentale ben riuscita e fresca, pluripremiata in patria e all’estero.
Per omaggiare la città di Torino non potevamo che abbinare a questo film, così singolare, la ricetta di famosi e tipici biscotti piemontesi, noti in tutto il mondo: i krumiri
INGREDIENTI: 200 g di farina di mais – 150 g di farina 00 – 100 gr di zucchero– 200 gr di burro – 3 tuorli d’uovo – 1 bustina di vanillina.
PROCEDIMENTO:
Nel cestello della planetaria (se non l’avete potete impastare tranquillamente a mano), mettete le farine con lo zucchero, la vanillina, i tuorli e il burro ammorbidito a tocchetti. Con la frusta a foglia cominciare ad impastare a velocità bassa fino ad ottenere una palla omogenea simile ad una pasta frolla ma molto più morbida. Togliete il composto dalla planetaria e mettetelo a riposare per 30 minuti coperto con un panno. Trascorso il tempo di riposo, dividere l’impasto in due parti e mettetene una dentro una sacca da pasticciere con bocchetta a stella media. Premere dunque sulla sacca e deporre su una teglia foderata con carta da forno, dei cilindri della lunghezza di 10 cm dando ad essi quella forma leggermente incurvata (che vuole ricordare i baffi di Vittorio Emanule II al quale i krumiri sono stati dedicati) e distanziateli tra loro. Proseguite con il resto dell’impasto e quindi mettete nel forno a 180° fisso per circa 20 minuti. Sfornate i biscotti e disponeteli su una gratella per dolci a raffreddare. Con questa dose si ottengono una trentina di biscotti, ottimi per una colazione da re!
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