da Maria Letizia Panerai | Ago 28, 2019
(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Autore del recente Un affare di famiglia, ma anche di Father and Son, Little sister e Ritratto di famiglia con tempesta, Kore-Eda Hirokazu con La vérité apre, in Concorso, la 76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il regista giapponese, che nel 2003 aveva scritto questa storia nella forma di una pièce teatrale che prevedeva come unica ambientazione il camerino di un’attrice, ha deciso di far debuttare la sua idea sul grande schermo girando la pellicola a Parigi con interpreti francesi d’eccezione, non rinunciando tuttavia nella prima e nell’ultima scena a due splendide inquadrature di alberi autunnali che, con il cadere lieve delle foglie, ci traghettano in quel suo mondo poetico che ben conosciamo, in cui ciò che si prova emotivamente è più importante di ciò che viene provato dalla realtà dei fatti.
Fabienne (Catherine Deneuve) è una star del cinema francese che ha di recente pubblicato un’autobiografia in cui sua figlia Lumir (Juliette Binoche), che vive a New York sposata ad un mediocre attore americano (Ethan Hawke) e madre a sua volta, non si riconosce. Il confronto tra madre e figlia, quest’ultima accorsa a Parigi per la presentazione del libro, sarà necessario ad entrambe per far emergere “la verità” sui loro rapporti, sul loro differente modo di sentire, sui loro rancori ancora molto vivi e sulle loro ripicche che hanno portato entrambe a vivere in modo diametralmente opposto le loro esistenze. Fabienne è una donna libera, autonoma, che non rinuncia ad essere attrice anche nella vita, perché per lei recitare è la cosa più importante della sua esistenza; mente Lumir sembra volerle ogni giorno dimostrare che al contrario è la famiglia la cosa più importante, dando costantemente di sé un’immagine di donna realizzata come moglie e come madre, pur essendo una apprezzata sceneggiatrice. In questa altalena continua tra realtà e finzione ma, soprattutto, di quanto di vero si è disposti a mettere in gioco nella interpretazione di un personaggio, si alimenta la nuova storia di Kore-Eda che già ci aveva dimostrato, nel suo gioiello del 2018 Un affare di famiglia, come si può essere una famiglia senza esserlo realmente, in una finzione più incisiva della realtà.
L’interrogativo se sia davvero più importante la verità di una bugia e quanto di vero possa esserci nel ruolo di attore allorquando si accinge ad immedesimarsi, con il corpo e con la mente, nella vita degli altri, il regista giapponese non lo scioglie lasciando allo spettatore la scelta, usando la metafora del cinema come rappresentazione della verità attraverso la finzione.
La prova delle due interpreti femminili arriva diretta al cuore, culminando quasi sul finale in un confronto che ci fa commuovere, ma anche sorprendere come quando, di fronte ad un’eccellente prova attoriale ci si vergogna un po’, a luci accese, ad asciugarsi le lacrime per averci creduto. Ottime anche le performances di Ethan Hawke e degli altri interpreti maschili, volutamente in ombra, che fanno da cornice a tanto sentire.
La pellicola non raggiunge l’intensità dei precedenti lavori di Kore-Eda Hirokazu, ma non si può che togliersi tanto di cappello di fronte alla bravura del duo Deneuve-Binoche che fanno di questo film, non perfetto, un film emozionante, in cui ognuna ha messo molto di sé come hanno dichiarato durante una affollata conferenza stampa. Distribuito da BIM, uscirà nelle sale il 3 ottobre, sperando che il doppiaggio non rovini proprio questa sinergia che è il vero punto di forza della pellicola.
data di pubblicazione:28/08/2019
da Maria Letizia Panerai | Lug 6, 2019
Due sorelle legate da un amore profondo, fisico, due metà che si completano solo quando sono insieme perché la distanza reale è troppo dolorosa. Un “amore irrequieto, drogato, completo” è al centro del nuovo film di Pablo Trapero, presentato fuori concorso nel 2018 a Venezia e appena uscito nelle sale italiane: il film parla di “sorellanza”, in un complesso rapporto tra due donne che si amano nonostante le apparenze le vorrebbero l’una contro l’altra, con uno sguardo molto attento e profondo verso l’intimo femminile, all’interno di una famiglia. Una storia al presente, che tuttavia affonda le sue radici nelle storture del passato argentino al tempo della dittatura, in un ideale sequel de Il clan con il quale il regista vinse il Leone d’argento alla regia nel 2015.
Eugenia (Bèrénice Bejo) e Mia (Martina Gusman) si ritrovano al capezzale del padre colpito da ictus per sostenere la madre Esmeralda (Graciela Borges) presso la loro tenuta denominata la quietud, immersa nelle campagne vicino Buenos Aires. Il rapporto tra le due sorelle è mutuato dal modo con cui la madre si comporta con loro: sempre molto amorevole con Eugenia, verso la quale ha ricordi di grande tenerezza e che le ha appena annunciato di aspettare un figlio che Esmeralda vede come una benedizione, e sempre molto dura con Mia che forse, solo per difendersi, riversa tutto il suo affetto nei confronti del padre morente. Eppure, nonostante Esmeralda non faccia nulla per celare questa evidente diversità di sentimenti nei confronti delle figlie, esse al contrario si amano, si cercano ed ogni volta ritrovano un afflato quasi fisico che le unisce: questo legame speciale farà loro superare avversità di ogni genere.
Trapero, con La quietud riprende il tema della violenza de Il clan, ma lo tratta in maniera differente: il dolore è presente ma non palese, s’impadronisce di queste donne ma non si sa da dove provenga, causato sicuramente in parte dal legame malato che la madre, che non le sa amare, ha con una di loro, condannandola inevitabilmente all’infelicità.
Le due bravissime attrici (una è la moglie del regista) si somigliano talmente tanto da sembrare proprio due sorelle, e riescono con molta naturalezza ad esprimere questo profondo sentimento che le lega. Sulle esistenze di Eugenia e Mia incombono in maniera dolorosa e strisciante vecchi fantasmi che insufflano in loro una non ben identificata sofferenza: tuttavia queste due sorelle sanno amare e, quando tutto sembra perduto, raggiungono a loro modo insieme quella “quiete” evocata dal titolo.
Film originale, sensibile, profondo, tutto al femminile.
data di pubblicazione:06/07/2019
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da Maria Letizia Panerai | Mag 18, 2019
Un film maturo. Bello. Incredibilmente pacato. Una descrizione perfetta di come le nostre origini ed il nostro antico sentire giuochino un ruolo fondamentale su ciò che diveniamo. Banderas nella sua migliore interpretazione, supportato da un cast di attori di primissimo livello.
Salvador Mallo è un famoso regista, ancora molto amato dalla gente, conosciuto in tutto il mondo, ma oramai senza più ispirazione. Vive solo, “ascoltando” il malessere fisico ed interiore che nasce dalle innumerevoli patologie che hanno colpito il suo corpo, segnato anche da un delicato intervento alla colonna vertebrale. Il senso di vuoto che prova nel non riuscire più a scrivere e a dirigere un film, è a tratti colmato da tutta una serie di ricordi a partire da quelli della sua infanzia segnata da molte presenze femminili e da sua madre, donna energica ed infaticabile scomparsa da appena due anni, ma anche da Federico, il suo primo ed indimenticato amore al cui ricordo si affianca quello infantile del suo primo vero desiderio (El primer deseo, titolo nel titolo del film) che solo oggi gli appare chiaro, nitido ed ancora palpitante. La creazione artistica sotto forma di scrittura e di regia cinematografica sono la sua unica terapia, ma Salvador non riesce più a creare; alla disperazione ed alla rabbia per questa deriva che ha colpito la sua mente, Salvador preferisce la solitudine affollata solo dai ricordi, che pian piano riaffiorano regalandogli momenti di inaspettata felicità. L’infanzia trascorsa in un piccolo paesino di provincia ricco di sole, con due genitori poveri che decidono di mandarlo in seminario per garantirgli un’istruzione, l’arricchimento negli anni adulti a Madrid in cui esplode prepotente la passione per il cinema e per Federico che, assieme, rappresentano la sua “dipendenza”, come recita il titolo di una sceneggiatura parcheggiata da anni sul desktop del suo computer.
Amore è ciò che traspare dal nuovo film di Almodòvar, solo amore e null’altro: amore per la vita, per il cinema, per la scrittura, per la luce, per i colori, per le canzoni (magnifica la scelta sul brano del 1961 Come sinfonia interpretato da Mina). Commuove questo Pedro maturo e privo di eccessi, che si mette a nudo come non mai, fragile ma anche consapevole di aver avuto molto o quanto meno tutto ciò che maggiormente desiderava dalla vita. Inevitabile non provare ad immedesimarsi profondamente in quei ricordi che rappresentano l’ossatura di ciò che Almodòvar è diventato. Un film diverso da tutti gli altri, sull’importanza delle proprie radici, scacciando tuttavia la nostalgia dei ricordi.
Banderas non è Almodòvar nelle fattezze fisiche, quanto la materializzazione dei suoi sentimenti e del suo animo: è Pedro senza assomigliargli fisicamente ed è bravissimo, un vero e proprio alter ego segnato da malattie che l’eroina può tentare di placare, ma che solo l’arte del cinema e dello scrivere possono guarire, in un film dal linguaggio semplice, maturo e consapevole, semplicemente da non perdere.
data di pubblicazione:18/05/2019
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da Maria Letizia Panerai | Mag 4, 2019
Matteo Rovere e Sydney Sibilla con i loro film hanno contribuito a delineare una nuova e brillante corrente nel panorama del cinema italiano: basti pensare a Veloce come il Vento e a Smetto quando voglio. Questa volta, con la loro casa di produzione Groenlandia, in veste di produttori, hanno dato la possibilità all’esordiente Leonardo D’agostini di portare sugli schermi, e con successo, una pellicola commerciale ma di qualità, che riesce ad abbracciare il gusto di una vasta platea di spettatori senza distinzione di genere, seppur ambientata in ambiente calcistico, concorrendo un po’ a risollevare le sorti del cinema di casa nostra in perenne crisi creativa ed esistenziale.
Christian Ferro (e non poteva che chiamarsi così!) è un asso del pallone del nuovo millennio: una vera e propria pop star, con ingaggi plurimilionari non solo in veste di campione dell’A.S. Roma, ma anche come immagine di spicco di pubblicità e sponsorizzazioni di ogni genere. Christian (figura quasi “mitologica” dalle fattezze, gli atteggiamenti ed il talento di Cassano, Totti, Ronaldo e Balotelli messi assieme) è del Trullo, un quartiere popolare di Roma. Orfano di madre e con un padre nullafacente a carico, Christian è circondato da un insieme di amici veri e no, che gli ruotano attorno come pescecani pronti ad azzannare le briciole (e anche più) di ciò che riesce a divorare nella sua giovane esistenza di ventenne: dalle Lamborghini di ogni foggia e colore con cui spesso fa dei clamorosi incidenti, agli abiti firmati, dalla villa hollywoodiana con piscina, alle frotte di ragazze immagine adoranti e ai ristoranti penta stellati. Il suo talento, al pari della sua spavalderia, lo identificano ovunque lui vada, e quando uno dei suoi amici d’infanzia lo apostrofa con un “te sei ripulito”, il suo onore ferito da ex ragazzo romano di periferia lo induce a commettere l’ennesima bravata che il Presidente della sua squadra (interpretato dal grande Massimo Propolizio) non potrà perdonargli. Dimostrerà di mettere la testa a posto studiando per prendere (e si spera anche raggiungere) la maturità o verrà punito con la tribuna a vita?
Christian Ferro è incarnato da Andrea Capenzano (classe 1995) che, dopo Tutto quello che vuoi e La terra dell’abbastanza, conferma la sua stupefacente bravura; mentre un maturo Stefano Accorsi, misurato e generoso nei panni di Valerio Fioretti ex professore di liceo squattrinato e tormentato da un passato ingombrante, è colui che si assumerà l’onere e l’onore di insegnargli ad apprezzare le materie scolastiche, al pari di quanto nel “Ferro fenomeno” ci sia ancora tanto di quel ragazzo del Trullo che ha più paura di restare solo che di perdere soldi e notorietà.
I personaggi di Valerio e Christian non sono certo originali cinematograficamente parlando, ma la complicità tra questi due attori sono la vera forza del film: entrambi non sconfinano, non prevaricano, ma si compenetrano, in una perfetta sinergia che fanno di questo film, dalla trama semplice e forse un po’ scontata, una pellicola sulla maturità e sull’amicizia da vedere ed apprezzare, una vera sorpresa anche per chi, come chi scrive, di calcio non se ne intende affatto.
data di pubblicazione:04/05/2019
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da Maria Letizia Panerai | Mar 29, 2019
Peterloo è la crasi tra St. Peter’s e Waterloo. Essa indica “la strage di innocenti” che avvenne durante un comizio nell’agosto del 1819, presso St. Peter’s Field a Manchester ad opera della cavalleria inglese, immediatamente dopo la vittoria su Napoleone a Waterloo, allo scopo di soffocare nel sangue la pacifica manifestazione di famiglie di contadini che, pur pagando i tributi al Re, si erano radunati per chiedere al Governo inglese la riforma elettorale, non potendolo fare esprimendo regolarmente il proprio voto.
Mike Leigh (Segreti e bugie, Il segreto di Vera Drake e Turner) ci regala un altro dei suoi “affreschi” sui diritti negati ai più deboli, raccontando un episodio sovente riportato nei trafiletti dei libri di storia inglese, in cui persero la vita diciotto persone ed almeno un centinaio rimasero gravemente ferite: un forte atto di repressione sulla libertà di riunione ad opera del governo su donne, bambini e braccianti di Manchester, che rappresentò una delle scintille per la definizione della futura democrazia.
Il regista ci riporta ancora nel passato per parlarci del presente, mettendo di nuovo al centro dei suoi racconti l’uomo nella sua eterna lotta contro l’avidità del potere, la corruzione e la violenza: questa umanità che perde tutto per tentare di vivere una vita migliore, per far valere i propri diritti e che combatte in nome di un ideale che possa condurla verso una vita più giusta. Leigh ci fa capire come le ripercussioni economiche, su un paese appena uscito da un conflitto seppur vittorioso come il caso dell’Inghilterra su Napoleone, siano ugualmente devastanti e come i governi hanno da sempre tentato di risolvere ogni genere di crisi vessando il popolo, come fecero i conservatori del governo britannico nell’ 800.
Peterloo è un film storico che si articola, come spesso avviene nelle pellicole di Leigh, partendo da una lunga fase di preparazione in cui entriamo nell’atmosfera di queste famiglie contadine, inventate ad arte dal regista, ma che verosimilmente ricalcano la vita di quelle reali di allora: persone normali che non sanno come sopravvivere nel quotidiano. Ed è in questo contesto che, con il supporto di attivisti e giornalisti, cominciano a farsi largo le idee di cambiamento.
Le scene del massacro sono esaltate dal montaggio di Jon Gregory (Tre manifesti a Ebbing, Missouri), con una sequenza di immagini di grande impatto visivo; il lavoro di Jon Gregory è stato paragonato da Leigh come quello di uno chef che assembla gli ingredienti per arrivare ad esaltare il gusto finale del piatto che si sta realizzando. Dick Pope ha invece curato la fotografia, attingendo alla sua lunga esperienza da documentarista in zone di guerra: il risultato è dato da inquadrature di ampio respiro, con masse di persone brulicanti e comizi politici, che ci introducono sino alle fasi finali dello scontro.
Peterloo si sceglie di andarlo a vedere per riflettere su come la storia si ripeta, incessantemente, sotto i nostri occhi e su come da certi errori del passato si possa partire per affrontare meglio il presente.
data di pubblicazione:29/03/2019
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