da Maria Letizia Panerai | Dic 23, 2021
Blanco (Javier Bardem), è il titolare dell’omonima azienda spagnola di bilance industriali. Leader nel settore, la Basculas Blanco è famosa in tutto il paese per l’alta qualità dei suoi prodotti, ma anche per la magnanimità e la professionalità del suo proprietario che, orgoglioso dei risultati di produttività raggiunti, ha dedicato un’intera parete del salone di casa ai riconoscimenti accumulati negli anni in modo che tutti i suoi ospiti possano vederli.
L’unica targa mancante è il premio di Eccellenza Imprenditoriale e Blanco, pur di aggiudicarselo, stimola ripetutamente i dipendenti a seguire il suo esempio, professandosi il principale rappresentante di un lavoro duro improntato sui principi di “equilibrio e fedeltà”. L’uomo è disposto a tutto pur di accedere al prestigioso attestato, adattandosi a risolvere qualsiasi tipo di problema dei propri dipendenti affinché rimangano sempre concentrati sui propri ruoli senza distrazioni.
Scelto per rappresentare la Spagna agli Oscar 2022, il film si avvale della presenza costante e centrata di Javier Bardem nella veste insolita di questo capo goffamente onnipresente, quasi tentacolare, ruolo molto lontano dalla precedente filmografia di questo splendido interprete. Abile manipolatore delle vite degli altri, Blanco tenta in ogni modo di controllare e manovrare quelle dei propri dipendenti senza alcuna remora ma solo per il proprio tornaconto; ma inevitabilmente qualcosa andrà per storto e, alla vigilia dell’ispezione da parte della commissione per aggiudicarsi l’ultimo agognato premio, Blanco dovrà far fronte ad una seria di piccoli e grandi disastri se vorrà raggiungere l’obiettivo.
Il film, dotato di qualche guizzo tragi-comico, nonostante sia stato preceduto da lusinghieri giudizi oltre che da un notevole battage pubblicitario sui nostri canali nazionali, non mantiene le promesse risultando nel complesso inappagante. Forse perché Fernando León de Aranoa, regista di Perfect Day e Escobar, con Il capo perfetto si è concentrato (a cominciare dal titolo ed avvalendosi di un autentico mostro sacro come Bardem) nel disegnare prevalentemente un personaggio macchinatore, privo di moralità, che riesce a superare qualsiasi limite etico pur di soddisfare i propri interessi, accecato solamente dalla logica del profitto.
La commedia, a tratti pungente e con qualche spunto di metafora come la bilancia posizionata all’ingresso della fabbrica che non è mai in equilibrio e solo Blanco troverà lo stratagemma giusto per allineare i piatti, è tuttavia “sbilanciata” (tanto per restare in tema) perché costruita esclusivamente intorno al suo protagonista senza una vera e propria storia lasciando nello spettatore, assieme ad una manciata di intermittente noia, il dubbio che forse si poteva fare di più.
data di pubblicazione:23/12/2021
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da Maria Letizia Panerai | Dic 2, 2021
Paolo Sorrentino racconta in maniera semplice, quasi scarna rispetto al suo stile, sé stesso e la sua famiglia d’origine, le sue passioni, la sua Napoli, il Napoli e Maradona, e di come a soli diciassette anni la sua vita prese una svolta inaspettata di crescita veloce e amara quando, in un solo giorno, il destino intrecciò passione e morte. Da quel momento Paolo, che nel film è Fabietto, dovrà sforzarsi di capire che essere abbandonati non è come rimanere soli perché si può comunque attingere a quel tesoro interiore, alimentato dai contesti familiari e sociali, e poterlo un giorno raccontare: “ma è mai possibile che ‘sta città nun te fa veni’ in mente niente ‘a raccunta’? A tieni qualcosa a raccunta’? E dimmella”.
Siamo a Napoli negli anni ottanta e Fabio Schisa (detto Fabietto) è uno studente di liceo classico che vive con i genitori Saverio e Maria, suo fratello Marchino e sua sorella Daniela, entrambi più grandi di lui. Saverio è direttore al Banco di Napoli, Maria casalinga, entrambi si interrogano su ciò che il ragazzo vorrà fare nella vita; ma Fabio, timido e impacciato come la maggior parte dei suoi coetanei, non ha delle aspirazioni precise ed osserva il mondo circostante con molta curiosità preferendo frequentare un giovane contrabbandiere che lo diverte molto o seguire le strampalate ambizioni cinematografiche del fratello che tenta, senza riuscire, di fare la comparsa in un film del grande Fellini. Il ragazzo però una certezza ce l’ha: la venerazione per Diego Armando Maradona, il “Pibe de oro”. Sono proprio quelli gli anni in cui il campione argentino verrà acquistato dal Napoli che vincerà di lì a poco lo scudetto, scrivendo la storia del calcio e di una certa napoletanità che per sempre rimarrà grata al grande campione.
Si piange e si ride, come raramente accade al cinema, in questo film in cui divertimento e tragedia, visione e realtà, superstizione e sensibilità si intrecciano, re-inventando il passato. Presentato al Festival di Venezia, dove la pellicola ha vinto il Premio della Giuria e Filippo Scotti (Fabietto) il Premio Marcello Mastroianni, È stata la mano di Dio è stato selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar 2022 nella sezione miglior film straniero.
La pellicola si discosta molto dalla precedente filmografia del regista partenopeo. Troviamo in essa solo in parte il mondo immaginifico e visionario di Sorrentino, soprattutto nella descrizioni di certi personaggi eccessivi come Alfredo, la Baronessa Focale, la donna più cattiva di Napoli, Marriettiello, Antonio Capuano o nel rapporto di grande affinità elettiva che Fabietto ha con la procace zia Patrizia (interpretata da una sorprendente Luisa Ranieri, bellissima e afflitta da una inconsolabile tristezza). Da lei il ragazzo (e non il solo) è sicuramente attratto, ma è anche l’unico a comprenderne il desiderio profondo di maternità che Patrizia tenterà di esaudire grazie ad improbabili incontri con San Gennaro “in persona” o alle apparizioni di un piccolo monaco portafortuna, figura esoterica della tradizione partenopea detto “O’munaciello”.
Il film è un malinconico e contagioso racconto di una vita familiare passata ma indelebile, inondata da una galleria di personaggi, alcuni veri e altri inventati o trasfigurati, come la sorella Daniela chiusa in bagno per tutto il film; una vita fatta innanzitutto di spensieratezza, allegria, di scherzi a parenti e vicini, di amore profondo per i propri genitori, ma anche di dolore sordo, di disorientamento ed abbandono. Il tutto si traduce in una sorta di confessione pubblica a posteriori, che arriva solo dopo aver ampiamente dimostrato di avere “qualcosa da raccontare” e che non fa che aggiungere interesse a ciò che Sorrentino vorrà ancora raccontarci.
data di pubblicazione:02/12/2021
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da Maria Letizia Panerai | Nov 16, 2021
Dopo un burrascoso colloquio con il fratello Renato, Gabriele sente la necessità di recarsi a trovare l’anziano padre, un ex magistrato in pensione, che durante il loro incontro gli confessa: “se dovessi scegliere tra la legge e l’amore, oggi sceglierei l’amore”. Da quel momento Gabriele capirà di non volersi più sottrarre a quella insolita ed inaspettata “paternità” che il destino gli ha regalato, travolgendolo come solo la vita vera sa fare.
Gabriele Santoro è un rispettato insegnate di pianoforte con un passato da concertista. La sua vita scorre monotona ed in totale solitudine in un appartamento nei quartieri spagnoli di Napoli, dove quest’uomo taciturno e schivo ha scelto di vivere nonostante le sue origini borghesi. Le sue giornate sono tutte uguali e la musica è la sua unica vera ragione di vita; conscio che quella solitudine può intaccare la sua lucidità, recita a memoria ogni mattina brani di poesie per tenere in esercizio la memoria. Tra le mura del suo appartamento, dove Gabriele si difende nascondendosi dal mondo esterno, un giorno come tanti entra furtivamente Ciro, il figlio di un vicino. L’uomo preferisce non vessare di domande il bambino, dichiaratamente in fuga dalla sua famiglia per qualcosa che inizialmente non riesce a confessare: in poco tempo, costretti dai loro reciproci “segreti “ a vivere e confrontarsi sotto quello stesso tetto, tra i due nasce una meravigliosa storia che ha a che fare proprio con quell’amore che l’anziano genitore aveva profeticamente indicato a Gabriele come l’unica scelta di vita possibile.
“La casa diventa un luogo di tensione e decantazione che conduce i personaggi a un nuovo stato affettivo, come se stessero creando le basi di una nuova famiglia”, spiega lo scrittore Roberto Andò che ha anche diretto l’adattamento cinematografico del suo omonimo romanzo. Il parallelismo tra una vita “normale” e ciò che drammaticamente si consuma in certi contesti criminali, rappresenta la struttura di tutto il film sino a quando quei due mondi, incontrandosi, inevitabilmente si contaminano, inducendo Gabriele a prendere coscienza di ciò che sino ad allora era rimasto fuori dalla propria porta di casa e Ciro a fuggire dalla realtà in cui era cresciuto sino a quel momento.
La narrazione, tuttavia, seppur intrisa di una certa drammatica elettricità sin dalle prime scene, è fatta prevalentemente di silenzi e sguardi, in cui si impongono la bravura indiscussa di Silvio Orlando e la spontaneità di Giuseppe Pirozzi che interpreta Ciro. Splendidi i camei di Roberto Herlitzka e Gianfelice Imparato rispettivamente nei ruoli del padre e del fratello di Gabriele, due facce di una stessa medaglia con cui l’uomo finalmente farà i conti, senza più nascondersi, in un viaggio verso la consapevolezza di quello che è il suo vero mondo, come recitano alcuni versi che declama la mattina per mantenere allenata la propria memoria: “quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure ed esperienze”. Un altro bel film da non perdere.
data di pubblicazione:16/11/2021
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da Maria Letizia Panerai | Nov 3, 2021
Janis e Ana, due donne single ed entrambe incinte, seppur con le dovute differenze, accettano istintivamente la propria gravidanza come un dono e decidono di portarla a termine. Janis è una fotografa di successo e ha già quarant’anni: il suo orologio biologico la induce con decisione a non rinunciare a quella che potrebbe essere la sua ultima occasione di diventare madre; Ana invece è un’adolescente spaventata, con un vissuto da persona poco amata, ma con una inespressa carica di profonda dolcezza che neanche lei sa di possedere che la spinge, tra mille dubbi, verso quella creatura che porta in grembo.
In Madres paralelas, che ha aperto quest’anno la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ed in cui è stata premiata con la Coppa Volpi Penélope Cruz proprio per il ruolo di Janis, Pedro Almodóvar torna su un terreno a lui caro, mettendo al centro quell’universo femminile con cui è in perfetta sintonia attraverso il tema della maternità. Ritratto intenso e sensibile, il film parla soprattutto di “senso materno”, di solidarietà ed altruismo al femminile, attraverso la descrizione di due donne, a loro modo libere ed alla ricerca della propria verità, portatrici di un dono immenso, ineguagliabile ed unico che prescinde dalla loro età o dalla loro condizione sociale, ma che parla di famiglia e di vita.
I destini di Janis e Ana si incrociano nella stanza di un ospedale dove sono state ricoverate per partorire, e da quell’incontro non nasceranno solo le bambine che portano in grembo, ma anche un sentimento di profonda “sorellanza”. Le poche parole che le due donne si scambieranno qualche ora prima del parto e l’inevitabile intervento del fato “almodóvariano”, creeranno un vincolo talmente forte che troverà uno sbocco inaspettato ed alquanto imprevedibile. Il film sorprende lo spettatore non solo per i noti temi cari al regista, ma soprattutto perché la storia ad un certo punto da privata vira verso un ambito politico netto, dichiarato, che si pone al centro della vicenda, in cui il parallelismo del concetto di maternità in senso lato diventa più importante dei destini privati delle due protagoniste ed in cui la verità che ognuna di loro sta cercando affonda le proprie radici nella storia del loro paese.
Questo risvolto sorprendente rende Madres paralelas un film insolito e profondo, con un cast straordinario ed una scena finale potente che fanno la differenza, in cui la vicenda privata lascia il passo alla ingombrante memoria storica del paese. La pellicola pur mantenendo intatte tutte le caratteristiche della filmografia di Almodóvar, regala agli spettatori una sfumatura inedita e nuova che non fa che accrescere il valore di questo artista tanto amato, che proprio a Venezia molti anni fa iniziò il suo meraviglioso cammino. Da non perdere.
data di pubblicazione:03/11/2021
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da Maria Letizia Panerai | Ott 25, 2021
“Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere”. È l’estate del 1975: una tredicenne viene lasciata dal padre, senza troppe spiegazioni, presso un casale al centro di una campagna brulla, ed affidata ad una famiglia di contadini che scoprirà essere i suoi genitori biologici. Fortemente indigenti e con una nutrita prole, questi l’avevano ceduta a soli sei mesi di vita ad una coppia di cugini benestanti che non potevano avere figli e che, sino a quel momento, l’avevano cresciuta come fosse la loro bambina, in una bella casa in città, lontana da quella povertà rurale dell’entroterra abruzzese.
La giovane adolescente, con una valigia in mano, “restituita” dall’uomo che credeva essere suo padre a quella che invece è la sua vera famiglia d’origine, all’improvviso perde tutto il suo mondo, le sue amiche, la bella casa dove era cresciuta e si ritrova circondata dal silenzio e dall’indifferenza. Comincia dunque a patire il mutismo assordante di quella famiglia a lei estranea, diventando trasparente agli occhi degli adulti che l’avevano cresciuta e di quelli che l’avevano ceduta, come se tutti loro avessero perso la “memoria della sua esistenza”. Diviene invisibile. Come una rifugiata in terra straniera, la ragazza dovrà tentare di reinventarsi una nuova vita in un nucleo familiare, respingente e diffidente che, pur non appartenendole, è il suo. Solo la piccola Adriana, bambina sveglia e solare, a suo modo la accoglierà, traghettandola in quella vita che le è stata imposta senza alcuna spiegazione.
Unica pellicola italiana voluta da Monda in concorso ed applauditissima dal pubblico alla prima proiezione ufficiale durante la Festa del Cinema di Roma appena terminata, L’Arminuta di Boniti è un vero gioiello, rude e tenero al tempo stesso, che fa venire immediatamente voglia di leggere, per chi non lo avesse già fatto, l’omonimo potente romanzo di Donatella Di Pietrantonio, anche co-sceneggiatrice della pellicola. Molti sono i temi affrontati, da quello sui minori maltrattati o sradicati da adulti non responsabili, a quello sull’abbandono sovente collegato a maternità non consapevoli o non supportate da figure maschili idonee. Il film fa anche emergere certe terribili usanze praticate in alcune zone depresse del sud, in cui sino a qualche decennio fa venivano attuate “private” forme rudimentali di affido, per garantire ai numerosi figli di famiglie bisognose una vita migliore, soffermandosi soprattutto sugli strappi affettivi che privano le persone della propria identità (l’Arminuta non ha un nome, non ha un compleanno da condividere: è solo colei che viene restituita), e su quanto la conoscenza sia l’unico vero antidoto alla paura e al buio.
Il cast è eccezionale, ad iniziare da Sofia Fiore (l’Arminuta), struggente e dura al tempo stesso, suo malgrado temprata da quell’affetto materno negato, e la piccola Carlotta De Leonardis che impersona Adriana, bambina matura e disincantata ma che nonostante tutto ama ancora giocare e andare sulla giostra; un immenso Fabrizio Ferracane nel ruolo di un padre-padrone che non conosce il perdono e la comprensione, ma solo il silenzio e la forza delle proprie mani per infliggere punizioni, ed infine le due madri, ognuna infelice a modo suo, degnamente interpretate da Vanessa Scalera e Elena Lietti.
L’Arminuta è un piccolo grande film, di quelli che ci insegnano qualcosa, che ci allargano il cuore, che scalfiscono il muro dell’indifferenza e che ci inducono ad essere più aperti e generosi nei confronti dei più deboli.
data di pubblicazione:25/10/2021
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