da Maria Letizia Panerai | Set 4, 2022
Al quarto giorno di Festival arrivano due film che, seppur non debbano essere necessariamente annoverati tra i più belli visti sino ad ora, li potremmo definire “circolari”: con un inizio, una fine ed una parte centrale che genera sorprese e colpi di scena. Il primo parla di eventi realmente accaduti e dunque il coinvolgimento emotivo del pubblico è più immediato (anche se non scontato); il secondo invece è una storia inventata, ma da parte di chi le storie le sa inventare. Entrambi pare che in sala abbiano incontrato il favore del pubblico.
Argentina, 1985 del quarantenne Santiago Mitre, con un cast di attori molto bravi tra cui primeggia Ricardo Darín, è un film ispirato ad eventi realmente accaduti come il titolo stesso suggerisce. Due procuratori, il navigato Julio Strassera ed il giovane ed inesperto Luis Moreno Ocampo, vengono incaricati dalla procura di indagare sulle atrocità commesse durante la dittatura militare di Videla con lo scopo di perseguirne i responsabili. La fase della creazione del pool è la più difficile perché in procura quasi la totalità è ancora simpatizzante con l’ideologia fascista. I due procuratori allora decidono, contro il parere di tutti, di creare un team formato interamente da giovani inesperti e disoccupati, per arrivare con le loro indagini proprio al cuore delle nuove generazioni e schivare la diffidenza dei più anziani. Il film ha una carica di ironia incredibile ed è uno di quei classici esempi di coralità, in cui la bravura di tutti gli attori porta ad una vera e propria esplosione sul finale, lasciandoci con il gusto della vittoria raggiunta addosso: “ricordo ancora il giorno in cui Strassera formulò l’atto di accusa: il boato dell’aula del tribunale, l’emozione dei miei genitori, le strade finalmente in grado di festeggiare qualcosa che non fosse un partita di calcio, l’idea di giustizia come un atto di guarigione”.
Il secondo film della giornata è Master Gardener di Paul Schrader che ne ha curato anche la sceneggiatura e che quest’anno a Venezia è stato insignito del Leone d’Oro alla carriera: sono suoi, tanto per citarne alcuni, American Gogolò, Il bacio della pantera come regista e Taxi Driver, Toro scatenato e L’ultima tentazione di Cristo come sceneggiatore. Master Gardener è uno di quei film con i tempi giusti, con una sceneggiatura accurata ed un’aria rarefatta che ci fa stare sempre un po’ con il fiato sospeso, dialoghi essenziali dai quali si scoprono cose grandi, attori di livello: un insieme insomma che fa la differenza. Narvel Roth (Joel Edgerton) è il maestro giardiniere al Gracewood Gardens, una tenuta con tanto di giardini e dimora storica di proprietà di Mrs. Norma Haverhill (Sigourney Weaver) ricca ereditiera vedova e senza eredi diretti. I giardini sono molto famosi, e la responsabilità che tutto sia curatissimo è di Narvel che coordina una piccola squadra di giovani giardinieri apprendisti. Tutto cambia quando Mrs. Norma chiede a Narvel di assumere come apprendista la sua pronipote Maya, ragazza ribelle ed unica erede dell’intero patrimonio. La figura di Narvel è il fulcro del film ed è sapientemente tratteggiata, e l’arrivo di Maya farà accadere qualcosa nella vita di quest’uomo schivo e silenzioso che metterà in discussione un presente così meticolosamente organizzato, fatto di tante certezze, facendo riemergere un passato inimmaginabile.
data di pubblicazione:04/09/2022
da Maria Letizia Panerai | Set 3, 2022
La terza giornata del Festival di Venezia 2022 è quella del nostro Luca Guadagnino con il suo Bones and All in Concorso, interpretato dall’attesissimo Timothée Chalamet, assieme a Taylor Russel e Mark Rylance.
Ambientato nel centro America all’epoca di Reagan (ma l’epoca è assolutamente irrilevante), narra del primo amore di due esseri “speciali”, Maren e Lee, entrambi vagabondi, due diseredati che vivono ai margini della società, tema che ha affascinato il regista durante il periodo del lock down al fine di indagare i modi e i varchi che si possono aprire a persone come i due protagonisti nonostante le impossibilità che il loro modo di vivere e di essere imprime alle loro vite. E se il cinema è finzione, Guadagnino con questo film ha amplificato il concetto per esprimere, attraverso il cannibalismo di cui sono affetti i personaggi, l’isolamento in cui sono costretti a vivere e l’inevitabile crisi di identità che li travolge. Le scene a cui si assiste sono molto esplicite e solo chi riesce ad andare oltre quella che è una visione molto cruenta, può vedere ciò che c’è dietro tutto questo, cogliendo l’urgenza di un messaggio così “gridato”. Non siamo tutti uguali soprattutto quando siamo intrappolati in qualcosa che non riusciamo a controllare, ma l’amore per Guadagnino vince su tutto, anche su diversità così esasperate perché riesce ad aprire delle porte che sino ad allora sembravano invalicabili. Bones and All ci sferra forti pugni nello stomaco sino a farci stare male. Inutile sottolineare che gli attori sono superbi e le ambientazioni perfette. Il pubblico deciderà se era necessario tutto questo: chi vi scrive ci sta ancora pensando…
Il secondo film della giornata, anch’esso in Concorso, è Monica di Andrea Pallaoro, che si conferma regista sensibile e profondo nel tornare su tematiche legate a personaggi femminili tormentati da segreti e paure, come fu per il suo splendido Hannah con la strepitosa Charlotte Rampling; questa volta il personaggio è una giovane donna che fa ritorno a casa dopo aver abbandonato la sua famiglia in età adolescenziale; ne viene tratteggiato un ritratto intimo, molto profondo, autoriale, e toccati temi come l’abbandono, l’accettazione ed il riscatto. Ritorna anche in questa pellicola il tema dell’identità e soprattutto della sua precarietà, una sorta di fil rouge di questa edizione del Festival, espressa nei modi più disparati attraverso la sensibilità e la genialità dei registi: ”ci siamo addentrati nel mondo emotivo e psicologico di Monica per riflettere sulla natura precaria dell’identità di ciascuno di noi quando viene messa alla prova dalla necessità di sopravvivere e trasformarsi”.
data di pubblicazione:03/09/2022
da Maria Letizia Panerai | Set 2, 2022
La seconda giornata del Festival di Venezia 2022 è caratterizzata da un’altra pellicola in Concorso molto attesa: si tratta di BARDO, Falsa crónica de unas cuantas verdades di Alejandro G. Iñárritu.
Il regista messicano affronta la crisi di identità di Silverio, un noto giornalista e documentarista messicano, che vive oramai da 15 anni a Los Angeles con la moglie e i loro due figli: ce ne sarebbe anche un terzo di nome Mateo, ma è meglio non rivelare questa ed altre “sorprese” di cui il film è particolarmente ricco. Silverio torna con moglie e figli nel suo paese per ritirare un prestigioso premio internazionale, ma il viaggio sarà rivelatore di ricordi, fantasmi e paure da affrontare, ed anche portatore di idee politiche contrastanti che gli faranno amare ed odiare alternativamente sia il paese che lo ha accolto ma anche quello da cui proviene. Travolto da una vera e propria crisi di identità, il protagonista reagisce nascondendosi e non concedendo interviste, scontentando la sua gente e gli amici che vogliono festeggiarlo. Il film è una vera e propria maratona (dura quasi 3 ore!) che ci fa viaggiare nel mondo interiore ed esteriore di Silverio: le domande che il regista fa porre al suo protagonista non sono solo intime ma universali e mettono in evidenza interrogativi complessi, che abbracciano il vissuto di Silverio ma anche la storia del suo paese. Le produzioni Netflix, come questa, hanno sovente la caratteristica di essere interminabili e sorge spontanea la domanda di quanto l’aspetto commerciale dell’avvento delle piattaforme abbia in qualche modo danneggiato il prodotto finale, in quanto i tagli che una volta probabilmente i produttori ed i distributori imponevano ai registi, in qualche caso “salvavano” le pellicole da un inevitabile lungaggine che “diluisce” l’aspetto artistico della pellicola stessa di cui anche il film di Alejandro G. Iñárritu, pur essendo una pellicola d’autore con immagini e battute di assoluta genialità, ne è rimasto inevitabilmente vittima.
Per la sezione Orizzonti è decisamente da segnalare il film giapponese di Kei Ishikawa dal titolo Aru Otoko (Un uomo): anche in questa pellicola si affronta il tema dell’identità da cui si fugge, che si vuole cambiare perché, come lo stesso regista ha dichiarato, ogni essere umano è fatto di tante componenti che si possono amare o odiare. Rie è una giovane donna separata con un bambino piccolo che porta lo stesso nome di un altro figlio morto a soli 2 anni per un tumore. Nonostante la sua triste esistenza, la vita riserva alla donna una seconda opportunità: incontra il giovane e gentile Daisuke di cui si innamora, ben presto creeranno una famiglia insieme e dal loro matrimonio nascerà anche una bambina. Ma la morte improvvisa di Daisuke le farà scoprire delle sconcertanti verità sull’uomo che amava. Il film induce a riflessioni molto interessanti e gli interpreti sono davvero bravi (soprattutto l’attore che interpreta l’avvocato che si dovrà occupare di scoprire la vera identità del defunto): fondamentalmente ci fa scoprire come il dato di fatto e la verità non sempre sono combacianti e che spesso, scoprire verità nascoste, non sempre rappresenta un elemento per cancellare quanto di buono si è vissuto o per cambiare il giudizio sulla persona amata.
Ultima pellicola della giornata, anch’essa in Concorso, è francese dal titolo Un couple del regista Frederick Wiseman e tratta della relazione durata quarantotto anni tra Leo Tolstoj e sua moglie Sofia detta Sonja, donna di origini nobili, di forte temperamento, assidua copista delle opere del marito e sua amministratrice. La coppia ebbe tredici figli, alcuni dei quali morirono, e Sofia li allevò tutti personalmente. Entrambi erano soliti scrivere un diario e Leo pare che la prima notte di nozze lesse il suo, ricco di particolari intimi, alla diciottenne sposa. Il film si basa sulle lettere che si scrissero e sul contenuto del diario di Sofia. Girato in Bretagna nel giardino La Boulaye, sull’isola di Belle Île, il film gode di una ambientazione perfetta ed ha una impostazione teatrale nella forma di monologo: il pregio è di portare a conoscenza attraverso le pagine di un diario i sentimenti contrastanti della lunghissima vita coniugale dei coniugi Tolstoj irta di crisi e litigi che portarono sovente lo scrittore a voler abbandonare la famiglia, ma che sicuramente fu un elemento importante per la stesura delle sue opere.
data di pubblicazione:02/09/2022
da Maria Letizia Panerai | Set 1, 2022
Il Festival di Venezia 2022 apre le sue porte e, nonostante il sistema di prenotazione delle proiezioni abbia creato non pochi problemi, i film ripagano pienamente i disagi di un sistema che si spera venga abbandonato presto per tornare a quelle splendide file sotto il sole del Lido, alle chiacchiere che precedono le proiezioni e ai commenti che le seguono: a quello che potremmo definire il romanticismo di una kermesse così importante che i tempi moderni, traghettati dal covid, hanno un po’cancellato.
Apre la 79ma edizione del Festival Noah Baumbach con il suo White Noise, film ambizioso ricco di riflessioni su dubbi e ossessioni, paure sulla vita e sulla morte, interpretato da Greta Gerwig, moglie di Baumbach, interprete e cineasta di pregio, e il bravissimo Adrian Drive alla sua quinta esperienza con il regista, che già nel 2019 era presente al Lido con Marriage Story dello stesso Baumbach, e che in un certo senso con White Noise replica tematiche legate anche agli affetti e al rapporto di coppia. Seppur ambientato negli anni ’80, ai tempi di Reagan, è lampante il riferimento alla contemporaneità che stiamo vivendo e nella quale ci riconosciamo, ma non abbastanza da renderlo “coinvolgente”, empatico. Un buon esercizio di regia, algido e a tratti autoreferenziale, con sprazzi di genialità che non riescono tuttavia a reggere l’intera durata della pellicola. Empatia e commozione profonda invece giunge dal film che apre la sezione Orizzonti, Princess di Roberto De Paolis, alla sua seconda prova da regista, che vede Rai Cinema tra i produttori e Lucky Red come distributore. E’ un film potente, originale e di grande spessore, che non parla solo di immigrazione clandestina e prostituzione, ma di anima, narrando una storia che nasce da dentro, con una assenza assoluta di ogni genere di giudizio morale, con linee difficili da tratteggiare e raccontare, che vanta tra i protagonisti attori veri e ragazze nigeriane realmente strappate alla vita di strada. Questi si muovono come equilibristi in modo esemplare, creando quell’empatia in una storia che ha i tratti del documentario ma che è un film a tutti gli effetti, anche se con ruoli capovolti, in cui i veri attori “assecondano” la vita di Glory Kevin e delle altre ragazze. “Ho costruito Princess fondendo il mio punto di vista con quello di alcune ragazze nigeriane, vere vittime di tratta, che hanno scritto con me e poi hanno interpretato se stesse”. Il messaggio del film potremmo sintetizzarlo nel concetto che ognuno deve salvarsi da solo, ma per farlo ci vogliono le condizioni; ed anche se alcuni incontri, come quello di Princess con il personaggio interpretato da Lino Musella (bravissimo assieme agli altri due interpreti Salvatore Striano e Maurizio Lombardi) possono fare aprire gli occhi alla protagonista perché carichi di un istinto positivo, non le regala tuttavia tutti quegli elementi necessari per liberarsi dalle catene. Il film ci insegna sul finale che ci vuole una spinta interiore per romperle quelle catene, che ci inchiodano ad una vita in cui si crede che sopravvivere sia vivere. Tra i film Fuori Concorso è sicuramente da segnale Living, ovvero il capolavoro di Kurosawa Ikiru “reimmaginato” dal regista sudafricano Oliver Hermanus, con una accuratissima sceneggiatura di K.Ishiguro. Film poetico, umano, lieve, Living è la storia di un uomo ordinario che decide, in seguito ad un evento che stravolgerà la sua vita, di fare qualcosa in extremis per poter dare un senso alla sua esistenza grigia, vissuta in un angolo, decidendo di vivere appunto. Magnificamente interpretato dall’attore inglese Bill Nighy ed ambientato in una Inghilterra degli anni ’50, il film è piacevolmente lento per apprezzarne le innumerevoli sfumature, e tutte quelle piccole cose che assumono così dimensioni immense. Ma la prima giornata della 79ma edizione del Festival del cinema di Venezia si conclude con la divina Cate Blanchett e la sua stupefacente interpretazione di Lydia Tár nel film TÁR di Todd Field presentato in anteprima alla stampa, incentrato sulla figura della prima donna della storia a divenire direttore di una delle più importanti orchestre tedesche. Il film è stato scritto per la sua protagonista che conferma la sua immensa bravura in una maratona di 2 ore e 40 minuti senza mai fare un passo falso, con una interpretazione che già profuma di candidatura all’Oscar. Peccato che nel film ci sia… una assenza totale di musica. Una vera e propria contraddizione: occasione mancata? Il pubblico deciderà.
data di pubblicazione:01/09/2022
da Maria Letizia Panerai | Ago 4, 2022
Esce oggi nelle sale, in una caldissima giornata di agosto, Sposa in rosso gradevole commedia di sentimenti dalla trama frizzante e non scontata, scritta e diretta da Gianni Costantino che vede come protagonisti Sarah Felberbaum e lo spagnolo Eduardo Noriega, affiancati da Massimo Ghini, Anna Galiena, Cristina Donadio, Dino Abbrescia, Maurizio Marchetti e Roberta Giarrusso.
Roberta (Sarah Felberbaum), pugliese di origine e incinta del suo primo figlio, e il giornalista Leòn (Eduardo Noriega), sono due quarantenni con un lavoro precario che si incrociano su un autobus a Malta: la donna, che di mestiere fa la guida turistica in bicicletta sull’isola, sviene tra le braccia dell’uomo. In un attimo i due si ritrovano sull’autoambulanza perché lei che sta per partorire e i loro destini si fondono nel momento in cui, nato il bambino, i genitori di lei (Anna Galiena e Maurizio Marchetti) e suo zio Sauro (Dino Abbrescia) si presentano a sorpresa in ospedale. Roberta decide di far passare Leòn come il padre del bambino: il passo per celebrare il matrimonio in Puglia alla presenza di un numero indefinito di inviati è breve, assieme ad una serie di disavventure che da questi fatti ne scaturiranno. Compongono il cast di questa soffocante famiglia del sud, con donne dominanti e uomini inidonei e infantili, Cristina Donadio nella parte della bizzarra ed anticonformista zia di Roberta, costumista teatrale con un ingombrante segreto da celare, in lite da sempre con la sorella Lucrezia-Anna Galiena, ed un irriconoscibile Massimo Ghini nel ruolo – un po’ forzato – di una sorta di camaleontico fotografo, improbabile amico di Leòn.
Il film, seppur non rappresenti una pietra miliare nel panorama delle commedie italiane degli ultimi anni, ha quanto meno il pregio di essere ben recitato e di presentare qualche spunto di originalità, ricco di siparietti ed equivoci che fanno da contorno ad una stramba storia d’amore. Primeggiano i temi della precarietà non solo lavorativa dei quarantenni di oggi, generazione che non trova ancora un posto nel mondo, schiacciata tra i millennials e la generazione X, nella spasmodica ricerca della libertà per tentare di respirare e brillare di luce propria. Ed anche se non è un’idea del tutto originale che, come afferma lo stesso regista, “la vera storia d’amore inizia quando il film finisce”, la pellicola nel complesso è gradevole e può rappresentare una piacevole sorpresa in questa torrida estate.
data di pubblicazione:04/08/2022
Scopri con un click il nostro voto:
Gli ultimi commenti…