da Felice Antignani | Mar 13, 2015
Honk Hong, la centrale nucleare di Chai Wan subisce un attacco hacker (a carico dei sistemi di raffreddamento delle barre) che provoca l’esplosione di un reattore. Poco dopo, a Chicago, la Borsa subisce l’aggressione informatica dello stesso hacker, che fa schizzare alle stelle il prezzo della soia. La reazione delle Autorità è immediata. L’esercito cinese e l’F.B.I. decidono di unire le proprie forze per stanare il blackhat, e cioè l’hacker malintenzionato, creando una task force che si avvale della collaborazione di un ex pirata cibernetico statunitense, Nicholas “Nick” Hathaway, detenuto per una lunga serie di crimini informatici. Inizia così una serrata caccia all’uomo che porterà i protagonisti dagli Usa in Cina, Malesia ed Indonesia.
Michael Mann torna dopo sei anni d’assenza (Nemico Pubblico, 2009) e lo fa in maniera prepotente, firmando un thriller cibernetico di pregevole fattura. La storia è intensa, nonostante alcuni (voluti) buchi di sceneggiatura che non pregiudicano la narrazione, anzi, la esaltano, contribuendo ad accrescere l’interesse dello spettatore. Il ritmo è alto, la musica accompagna con maestria le sequenze più emozionanti (che sono copiose) e dei cali d’attenzione non si vede nemmeno l’ombra.
Fedele alla propria tradizione cinematografica, Mann mescola l’azione col sentimento, fonde i colpi d’arma da fuoco e la violenza al ritratto psicologico dei protagonisti, profondo e disilluso. Nick non è una brava persona (e ne è perfettamente consapevole), ciononostante non rinuncia a difendere o vendicare i propri affetti. Blackhat è quindi un film di genere, pregno però di elementi d’autore: il pessimismo e la malinconia sono tangibili, come tangibili sono le paure post 11 settembre, ancora radicate nella coscienza statunitense. I riferimenti a Collateral e Miami Vice sono lampanti, mentre la figura di Nick sembra ricalcare quella di Frank, protagonista di Strade Violente.
Blackhat non è per tutti: rigoroso e iper-realista nel ricostruire le procedure informatiche, nonché complesso e dettagliato nei dialoghi e nei confronti umani. Tante le scene che sono un piacere per gli occhi: le panoramiche delle metropoli, le inquadrature dall’alto, in aereo o in elicottero, la rappresentazione del mondo cibernetico – tra cavi, processori e strumenti vari- come un mondo a sé stante, che vive delle proprie regole, nonché la straordinaria sequenza del conflitto a fuoco nel tunnel e tra i container (dove Mann fa uso del digitale in maniera assolutamente innovativa).
Da non perdere. Chapeau.
data di pubblicazione 13/03/2015
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da Felice Antignani | Mar 7, 2015
Anno 2044. La Terra è ormai prevalentemente desertificata e l’umanità ridotta a poco più di venti milioni di individui, a causa di pericolose tempeste solari. Le nubi sono create artificialmente allo scopo di proteggere la popolazione dai raggi solari, la tecnologia ha subito una sensibile involuzione e gli esseri umani vivono in (apparente) simbiosi con i Pilgrim, automi creati dalla multinazionale R.O.C. per servire l’uomo nelle attività all’aperto. Essi rispondono a due protocolli: non posso nuocere ad alcuna forma vivente e non possono modificare se stessi o altri robot. Il perito assicurativo della R.O.C., Jacq Vacuam, indaga su presunti casi di malfunzionamento dei Pilgrim e si imbatte in una realtà che va oltre la propria immaginazione: la violazione del secondo protocollo.
Secondo lungometraggio – dopo Hierro – dello spagnolo Gabe Ibañez, Autòmata è un thriller distopico e fantascientifico che affascina per contenuto, nonostante duri un po’ troppo, abbia un ritmo altalenante e la sceneggiatura presenti forzature nella parte centrale della narrazione. Le sequenze alla “discarica” – un’immensa baraccopoli separata dal centro urbano mediante un altissimo muro di cemento – sono visionarie, tra la rappresentazione di robot mutilati e automi dediti alla prostituzione o alla cartomanzia. Particolarmente interessante è l’ossimoro tecnologico tra gli androidi, provvisti di un’intelligenza artificiale dalle potenzialità illimitate, e gli strumenti utilizzati dagli uomini, schermi a tubo catodico, stampanti ad aghi e cercapersone (anziché cellulari). Capaci di provare emozioni e, addirittura, di creare la vita, gli automi rappresentano il futuro della Terra (Per morire bisogna essere prima vivi, recita uno di essi), mentre l’uomo (definito una scimmia violenta) è destinato all’estinzione.
Inevitabili sono i rimandi a Blade Runner, dall’autocoscienza dei robot alla pioggia radioattiva ed ai giganteschi ologrammi che si muovono tra gli edifici fatiscenti. Convincente la prova di Banderas, uscito (finalmente!) dal personaggio degli spot di un noto biscottificio italiano. Buona la fotografia grigiastra, perfettamente in sintonia con la realtà rappresentata, e davvero giusta la scelta di non ricorrere al digitale per la raffigurazione degli automi: il senso di umanità che hanno deriva, in parte, anche da ciò.
Autòmata è nel complesso un film da apprezzare, anche alla luce del basso budget impiegato (circa quindici milioni di Euro) per realizzarlo. Il set è, in buona parte, quello de I Mercenari 2, qui utilizzato per finalità (fortunatamente) più nobili.
data di pubblicazione 07/03/2015
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da Felice Antignani | Mar 2, 2015
Los Angeles, sul finire degli anni ‘60. Larry “Doc” Sportello, uno degli ultimi hippie della zona e consumatore abituale di marijuana, si trascina (giorno e notte) nei dintorni di Gordita Beach, svolgendo, con poca dedizione, l’attività di investigatore privato abusivo (con un ufficio all’interno di uno studio medico, ed in particolare ginecologico!). Nel corso di una classica giornata da dolce far niente, Doc viene sorprendentemente avvicinato dalla sua ex ragazza, Shasta Fay Hepworth, che gli chiede di indagare su presunti, strani movimenti che riguardano il suo nuovo amante, l’imprenditore edile (letteralmente palazzinaro) Mickey Wolfmann, operati, tra l’altro, da un gruppo di fanatici neo-nazisti, un potente cartello dell’eroina ed alcuni agenti dell’F.B.I.
Settimo lungometraggio dell’acclamato Paul Thomas Anderson, Vizio di Forma – adattamento italiano del titolo originale Inherent Vice – è la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Thomas Pynchon, edito nel 2011. Ci sarebbero tutti gli elementi del classico noir-poliziesco, ma così non è, perché Vizio di Forma appartiene ad una categoria indefinibile, che mischia elementi del cinema letterario, e quindi d’autore, da un lato, ad aspetti del cinema popolare, e quindi di genere, dall’altro.
È un film complesso, a tratti sofisticato, che evidenzia il cambiamento dei tempi e l’ottusa discriminazione nei confronti di chi, come Doc Sportello, è considerato superato, fuori moda o, addirittura, pericoloso per il semplice fatto di essere un hippie. La marijuana che fa spazio all’eroina e la filosofia peace&love che cede il passo al razionalismo e alle psicosi di massa (legate agli eventi di Charles Manson) rappresentano il messaggio di fondo di Vizio di Forma, sintetizzabile nelle visionarie sequenze a casa hippie, l’ultimo avamposto (tragi-comico) di una civiltà oramai appartenente al passato.
La narrazione è nebulosa e lisergica, volutamente volta a confondere lo spettatore, come confusi e stralunati sono, d’altronde, i personaggi della storia, costantemente in preda ai fumi degli stupefacenti, ad eccezione dell’integerrimo poliziotto Christian “Bigfoot” Bjornsen, vero e proprio alter ego di Sportello. Il ritmo è lento e statico (praticamente non esistono scene d’azione) e la lunghezza è – a parere di chi scrive – eccessiva. Vizio di forma è difficile da metabolizzare. Non è un film per tutti: lo si intuisce nella prima mezz’ora e se ne ha la consapevolezza a metà film. Urge una seconda (e forse una terza) visione, per afferrare tutti i particolari e comprendere appieno, quindi, il significato del vizio intrinseco, ma la sensazione di fondo è che si tratti di un opera non sempre coerente, fin troppo labirintica, con alcuni personaggi soltanto abbozzati (vedi, tra i vari, l’avvocato di Doc Sportello, Sauncho Smilax) e comunque non sempre funzionali alla trama. Un buon film, nel complesso, ma non completamente convincente. Inevitabili, tuttavia, sono l’empatia e la simpatia verso Doc, strano eroe di questa ancor più strana vicenda, complice lo straordinario Joaquin Phoenix, ingiustamente snobbato (?) dall’Academy.
data di pubblicazione 02/03/2015
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da Felice Antignani | Gen 16, 2015
È stata una grande gioia vedere quest’uomo superare ogni sfida, sia scientifica che personale. Regno Unito, 1963. Stephen Hawking è un giovane dottorando di ricerca in Fisica, presso l’Università di Cambridge. Apparentemente pigro, svogliato e privo di metodo, è in realtà uno studente brillante, capace di risolvere, in poco tempo, nove (su dieci) domande impossibili, fornitegli dal proprio professore. Ha un obiettivo “semplice”, dal suo punto di vista, quanto ambizioso: trovare l’unica equazione che spieghi l’origine dell’universo e, al contempo, dimostri l’inesistenza di Dio. Ad una festa universitaria conosce Jane Wilde, dottoranda in lingue straniere. I due si innamorano ma, ben presto, la loro storia d’amore dovrà scontrarsi con malattia di Stephen, quella del motoneurone: una patologia progressiva che, mano a mano, gli impedirà di compiere i più elementari movimenti muscolari, quali camminare, scrivere, parlare, mangiare e deglutire. La coppia affronterà insieme la situazione, creando famiglia e cercando di vivere, al massimo delle proprie possibilità, l’anormale quotidianità. Jane dovrà rinunciare alle proprie aspirazioni, mentre Stephen, dal suo canto, continuerà a svolgere ricerca scientifica, senza perdere mai il proprio spirito goliardico ed irriverente.
Primo adattamento cinematografico del libro Travelling to Infinity: My life with Stephen, biografia del celebre astrofisico inglese scritta da Jane Wilde, il film di James Marsh potrebbe essere protagonista alla prossima cerimonia degli Oscar. La regia, poco dinamica, si concilia alla perfezione con le vicende narrate. Le musiche, potenti ed affascinanti, contribuiscono a coinvolgere ed emozionare lo spettatore. La Teoria del tutto è un film razionale e lucido, mai sdolcinato o melodrammatico. Forte ed intenso come lo sono i personaggi principali, si sviluppa con ritmo appropriato (né lento né veloce), che non stanca o appesantisce la visione. Quel fin che c’è vita c’è speranza, citato da Stephen durante l’ultima conferenza, fa riflettere, nella sua semplicità, e sprona a tirar fuori il meglio dalle situazioni più angoscianti. E poi ha un finale meraviglioso, da vivere con le lacrime agli occhi.
Cinque nomination agli Oscar (miglior film, miglior attore protagonista, miglior attrice protagonista, miglior sceneggiatura non originale, miglior colonna sonora) più che meritate. Da vedere, assolutamente.
data di pubblicazione 16 /01/2015
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