da Antonietta DelMastro | Lug 12, 2017
Secondo capitolo della trilogia con il commissario Yeruldegger nel grandioso paesaggio della Mongolia.
È il terzo inverno in cui la “sciagura bianca” avvolge la steppa lasciando dietro di sé una scia di cadaveri di uomini e animali. Troviamo l’ispettrice Oyun accoccolata nella neve per controllare un “monticello di cadaveri” che si staglia come unica protuberanza per chilometri nella steppa; la gamba di un uomo spunta dal un cumolo di carcasse congelate tra un cavallo, su cui probabilmente stava viaggiando, e un dzo che, non si capisce come, sembra le sia letteralmente caduto sulla testa.
Così inizia il nostro nuovo viaggio in compagnia di Ian Mannok che, seguendo le indagini dell’ineffabile Yeruldelgger e della sua squadra, ci porta ancora una volta alla scoperta della spettacolare Mongolia.
Lasciamo l’ispettrice Oyun nella steppa vetrificata dal gelo dello dzüüd e torniamo nella capitale dove viene rinvenuto il cadavere di Colette, la prostituta che nel precedente libro aveva aiutato il commissario Yeruldegger a fare pulizia tra le fila della polizia corrotta di Ulan Bator, ed è proprio lui a essere accusato della sua morte.
Non sarebbe il personaggio forte che abbiamo imparato a conoscere se rimanesse inerme in attesa di giudizio: Yeruldegger si lancia sulle tracce di Ganshü, il figlio scomparso di Colette, e arriva fino in Normandia dove scoprirà un fitto intrigo che coinvolge servizi segreti, militari e la parte corrotta della politica mongola e che lo obbligheranno a prendere in mano le armi e a mostrarci un volto crudele che il Settimo Monastero Shaoilin non è riuscito a mitigare.
Purtroppo anche questa volta, come per la precedente recensione di Morte nella steppa, non posso non criticare l’intreccio narrativo che ci presenta Manook. Gli accadimenti che si concatenano nelle quasi 500 pagine sono assolutamente inverosimili, l’indagine è contorta, ingarbugliata e assurda. Ma, come per il primo romanzo, la maestria con cui descrive la Mongolia è assolutamente perfetta: le pietanze, i paesaggi sterminati, le tradizioni millenarie, Mannok riesce a rendere incantevole persino il terribile dzüüd che si abbatte sulla steppa sconfinata.
Il desiderio di proseguire la lettura per farsi avviluppare dalle descrizioni di questo mondo affascinante è tale che, anche questa volta, sono passata sopra alla trama “zoppicante”, Mannok scrive e ti avvolge, come se tu fossi lì, come se i trenta gradi sotto zero della sciagura bianca bruciassero la tua pelle, come se il calore del Gurgur, tè con il burro salato di yak, si spandesse tra le tue membra intorpidite. Leggere questi romanzi di Manook è stato per me come viaggiare per paesaggi che, temo, non potrò conoscere se non tramite le sue descrizioni, paesaggi che mi hanno totalmente stregata e di cui, tutte le volte che leggo l’ultima pagina sento, forte, la nostalgia.
Questo è il motivo per cui sicuramente leggerò La morte nomade, ultimo capitolo della saga di Yeruldelgger Khaltar Guichyguinnkhen, libro già pubblicato in Francia che, spero presto, Fazi pubblicherà anche in Italia.
data di pubblicazione:12/07/2017
da Antonietta DelMastro | Lug 3, 2017
Dorothy “Dot” Sherman è la narratrice, protagonista adolescente, dalla quale il romanzo prende il nome. Sicuramente non è il mio romanzo preferito tra quelli scritta da Lansdale: la rappresentazione degli anni della Depressione di In fondo alla palude o L’ultima caccia sono assolutamente coinvolgenti, e sono rimasta conquistata da La sottile linea scura, ma la personalità di Dot è assolutamente unica, le descrizioni che fa di ciò che le accade: “In quel momento Herb parcheggiò accanto a me…. mi faceva sentire come se fossi seduta in un carretto trainato da un asino morto…” oppure “Nonna mi portò i giornali. Erano interessanti quasi quando fare la tintura a un topo.” o i battibecco che ha lo “zio” Elbert “… ero lì in Kansas. Avevano bisogno di qualcuno che si vestisse da pagliaccio per i bambini, per la parte dello spettacolo dedicato a loro” “Deve essere stato difficile, con una bottiglia di birra in mano….” sono assolutamente esilaranti, il linguaggio di Dot è dissacrante e la battuta ironica sempre pronta.
La prosa di Lansdale è costantemente godibile e la descrizione della vita in una cittadina del Texas della classica famiglia americana che vive ai margini in una casa mobile con lavori mal pagati e sussidi è veramente pregevole.
La storia è quella della diciassettenne Dot che vive in una casa mobile con la sua famiglia composta da madre, nonna, il fratellino Frank e la sorella con i suoi figli che, perlomeno saltuariamente, chiede asilo dalle botte del marito nella già stracolma roulotte: l’unico che manca è il padre, uscito cinque anni prima per prendere delle sigarette e mai più rientrato.
Dot, per aiutare il bilancio familiare, sfreccia sui pattini servendo la cena ai clienti seduti nelle proprie macchine al “Dairy Bob”, ed è assolutamente determinata a non compiere gli errori in cui sono cadute la sorella e la madre: vuole conseguire il diploma e non annullare la propria vita per un ubriacone che la picchi e la abbandoni con dei bambini.
L’arrivo dello “zio” Elbert sarà di aiuto al riscatto di Dot, le darà la carica e la tenacia per sciogliere alcuni nodi che la perseguitano e tentare di avere qualche cosa di più, non sarà importante cosa o come, e le fa capire che ce la può fare, può riuscire in ciò che ritiene sia giusto per lei, e glielo dice molto chiaramente: “Sai cosa penso? – disse – Penso che siamo tutti responsabili di ciò che facciamo. Non è colpa degli altri. Non è sempre colpa della genetica, e di come ci hanno fatto crescere, perché ci sono tante persone nate in contesti orribili, che hanno subito ogni sorta di torti e non per questo sono diventate spregevoli. Scegliamo di essere quel che siamo. Diventiamo quel che vogliamo essere”.
data di pubblicazione:03/07/2017
da Antonietta DelMastro | Giu 17, 2017
Terzo romanzo di Michel Bussi pubblicato dalle Edizioni E/O. Incontriamo l’autore in una chiacchierata caratterizzata da batture e sorrisi amichevoli il 18 maggio nell’affollatissima sala Blu del Salone del Libro di Torino.
I libri di Michel Bussi sono ormai tradotti in tutto il mondo, leggerli è un viaggio alla scoperta di nuovi luoghi che, con la maestria che lo contraddistingue, rende reali e vivi davanti ai nostri occhi. Nel corso dell’intervista ha spiegato che tutti i luoghi in cui vengono ambientati i suoi romanzi sono in qualche modo a lui cari: la Normandia in cui vive e in cui si ambienta Ninfee nere, la Corsica di Tempo assassino di cui è originario il nonno, e ora il paradiso tropicale del dipartimento d’oltremare francese dell’isola de La Réunion, immersa nell’Oceano Indiano.
Bussi già conosceva la geografia delle isole vulcaniche di Stromboli e Vulcano, perché meta delle sue vacanze, ed è lì che è nato il germe di questo romanzo che è definitivamente sbocciato durante il soggiorno a La Réunion, che descrive con l’indiscutibile finezza e maestria del geografo qual è.
Tutto ha origine da un episodio minimo: la separazione avvenuta anni prima del protagonista Martial Bellion, un figlio condiviso e due genitori che fanno di tutto per rendersi la vita impossibile.
Bellion torna dopo anni sull’isola con la nuova moglie, Liane, e la loro figlioletta di sei anni, Josapha.
All’improvviso Liane scompare e Bellion si rivolge alla Brigata territoriale di gendarmeria perché inizino le ricerche, ma ben presto le cose cominciano a non quadrare; durante la perquisizione della stanza occupata dai Bellion all’Hotel Almanda vengono rinvenuti alcuni inconfondibili schizzi di sangue, dalla valigia da pic-nic della famiglia è scomparso un coltello, e la testimonianza della cameriera del piano, che giura di aver visto Martial Bellion spingere un carrello della biancheria fino al parcheggio dell’hotel, inchiodano il marito come unico sospettato della scomparsa e dell’omicidio di Liane.
A quel punto Bellion e la figlia scompaiono anch’essi.
Nelle pagine, che posso assicurarvi correranno rapide sotto i vostri occhi, assisteremo alla ricerca angosciosa di Liane da parte di Martial che trascinerà con sé la figlia.
Josapha sarà protagonista tanto quanto il padre del romanzo: sotto i nostri occhi avverrà la sua trasformazione e la piccina fragile, viziata, dispotica e spensierata che incontriamo a bordo piscina all’inizio della storia, si forgerà e troverà dentro di sé la forza per andare avanti, spinta dall’amore per la sua mamma e dalla speranza di ritrovarla. Sarà questa speranza che le permetterà di continuare a seguire il padre benché, nella sua testa e nel suo cuore, non sappia decidere se il suo ruolo è quello di eroe, vittima o assassino.
Oltre a padre e figlia, protagonisti indiscussi del romanzo, Bussi ci presenterà molti altri personaggi e a ognuno di essi darà modo di parlare e presentare la sua verità su ciò che è accaduto, mentre al lettore verrà richiesto di fare uno sforzo di comprensione della psicologia di ogni personaggio.
Definito l’erede di Agata Christie e della sua scuola del romanzo poliziesco, i romanzi di Bussì in realtà si allontanano dalla struttura classica dei polizieschi per concentrarsi più sulla psicologia dei personaggi; a tal proposito ha confessato di trovare ispirazione per le sue storie nel cinema d’azione facendo, su tutti, il nome di Shyamalan con Il Sesto Senso.
Una curiosità che ci ha rivelato l’autore è che in un primo momento per il libro aveva proposto il titolo di Zamal, un tipo di cannabis molto utilizzata sull’isola de La Réunion e che ha un suo ruolo nella storia, ma l’editore francese non lo riteneva politicamente corretto e venne scelto Ne lâche pas ma main.
Ha inoltre aggiunto che i titolo dei suoi romanzi sono spesso legati a canzoni francesi a cui fa riferimento anche nei romanzi, perché trasmettono emozioni forti ai lettori.
Un libro assolutamente da leggere.
data di pubblicazione:17/06/2017
da Antonietta DelMastro | Giu 8, 2017
La Picoult ci accompagna in un cammino etico e morale alla conoscenza della condizione di vita delle persone di colore negli Stati Uniti.
La storia è quella di Ruth Jefferson, donna di colore che per tutta la sua vita si è impegnata al massimo per essere “solo” Ruth Jefferson e non la “figlia della governante di una ricca famiglia bianca”. Dopo aver conseguito il diploma alla scuola infermieristica nella prestigiosissima Yale University e dopo due decenni di lavoro irreprensibile nel reparto di maternità al Mercy-West Haven Hospital in Connecticut, viene denunciata da uno dei leader del movimento degli white supremacist, quale responsabile della morte del figlio neonato, Davis.
Nelle 492 pagine del libro l’autrice narra gli sforzi compiuti dall’avvocato Kennedy McQuarrie, la “donna bianca” che difenderà Ruth Jefferson, per scagionare la sua cliente, cercando peraltro di dissuaderla dal voler basare il processo sulla discriminazione razziale, benché in realtà sia consapevole che il problema sia proprio quello: assistiamo quindi alle testimonianze in aula, alla reazione dei familiari dell’imputata, alla sua rabbia e alla sua impotenza in alternanza alla storia della vita di Ruth e a quella dei genitori del piccolo Davis.
Più di mille parole credo che sia significativo un particolare passo del libro che mi ha estremamente colpita e che riporto qui integralmente.
Nel brano il soggetto narrante è Christine, la figlia della famiglia presso cui ha prestato servizio fino alla morte la madre di Ruth; il fatto che viene narrato è accaduto anni prima, mentre Christine stava tornado a casa per le vacanze del Ringraziamento dall’Università Vassar:“… c’era un autostoppista sul ciglio della strada… Era un uomo di colore aveva un gamba malandata. Camminava con le stampelle. Accostai e gli chiesi se aveva bisogno di un passaggio. Lo trasportai per tutto il tragitto fino alla Penn Station, perché potesse salire su un treno e andare a trovare la sua famiglia a Washington. … Quando arrivai a casa e Lou (la madre di Ruth, ndr) venne nella mia stanza per aiutarmi a svestirmi, le raccontai quello che avevo fatto. Pensavo che sarebbe stata orgogliosa di me, perché avevo fatto il buon samaritano e tutto il resto. Invece, sapessi come si arrabbiò, Ruth! Ti giuro che non l’avevo mai vista così. Mi prese per le braccia, scuotendomi. All’inizio non riusciva nemmeno a parlare. Non devi farlo mai più, mi disse, e io ero così scioccata che glielo promisi…. Oggi mi sono seduta in aula e ho ascoltato quell’investigatore che raccontava di aver fatto irruzione in casa tua nel cuore della notte, buttandoti a terra e bloccando Edison (il figlio minorenne di Ruth, ndr) e continuavo a udire nella mia testa la voce di Lou, quando le avevo raccontato dell’autostoppista di colore. Capivo che tua madre si era spaventata. Ma, per tutti questi anni, avevo pensato che volesse tenermi al sicuro. Ora so che voleva tenere lui al sicuro.” …
Parte integrante del libro, che purtroppo troppo spesso non viene letta, è la “Nota dell’autrice” inserita nelle ultime pagine, in cui la Picoult descrive il lungo percorso che ha compiuto per riuscire a scrivere questo meraviglioso romanzo.
Scrittrice bianca, ha avuto molte difficoltà per riuscire a trasmettere, nelle sue pagine, la sofferenza delle persone di colore, si è dovuta preparare e spogliare dai pregiudizi organizzando incontri e discussioni con skinhead, seguendo corsi di giustizia sociale in cui sono stati elencati, e qui ne riporto un paio, alcuni dei privilegi che il colore della pelle ha sempre concesso ad alcuni e negato ad altri, e che tutti noi diamo assolutamente per scontato senza renderci conto come possano essere vissuti in modo discriminante: entrare da un parrucchiere a caso e trovare qualcuno pronto a tagliarti i capelli, oppure comprare bambole o giocattoli o libri per bambini che raffigurano persone della propria razza…
È sicuramente un libro duro che costringe il lettore a prendere atto del fatto che ancora oggi, dopo più di 150 anni dalla firma del Civil Rights Act e nonostante tutti gli aggiornamenti che si sono rincorsi, il colore della pelle rappresenta ancora un grande privilegio.
data di pubblicazione:08/06/2017
da Antonietta DelMastro | Mag 28, 2017
Secondo romanzo di Mirko Zilahy, assolutamente coinvolgente come il precedente È così che si uccide, presentato con una chiacchierata con l’autore oggi, 20 maggio, al Caffè letterario del Salone del Libro di Torino
Anche questo romanzo è un thriller di rara potenza, in cui ritroviamo la squadra del commissario Enrico Mancini, profiler della Polizia di Stato di Roma, impegnata nella caccia a un serial killer: lo Scultore.
Questa volta non sarà uno stravolto senso di giustizia ad armare la mano del serial killer, questa volta ci troviamo davanti a una realtà parallela nella quale sembra si muova l’assassino, una realtà in cui le vittime diventano vere e proprie “opere” ispirate alla mitologia classica che trovano come “palcoscenico” le strade di una Roma percorsa dal terrore.
Il nuovo mostro si muove attraverso le migliaia di gallerie che attraversano la citta eterna lasciando Laooconte a Galleria Borghese, Scilla a Ponte Nomentano a Montesacro, Medusa al Pigneto, uno via l’altro: una trama originale in cui si fondono religione, psicologia e arte a cui fanno da contraltare la tecnica e le intuizioni della squadra che è sulle sue tracce. Il libro cattura il lettore dalle prime righe e i continui colpi di scena non permettono che la tensione di abbassi; i tentativi di capire quale possa essere il passo successivo e quindi la speranza di riuscire ad attraversare la strada del killer per cercare di fermarlo, ci attanaglia fino alla fine.
Come il precedente anche questo romanzo è scritto in modo magistrale, ma non potevamo aspettarci nient’altro da Zilahy: la facilità con cui dà forma alle descrizioni di alcune truculente scene degli omicidi sono perfette, i capitoli di flashback che alterna alle azioni del killer ci danno modo di capire meglio la sua psicologia, il suo passato travagliato. Personaggio cardine dell’indagine è ancora una volta Enrico Mancini che ritroviamo ancora tormentato dai suoi demoni personali.
Ho un unico appunto da fare ed è sul personaggio di Alexandra Nigro, insegnante di Studi classici alla American Academy di Roma, che il questore Gugliotti affianca alla squadra nel tentativo di far dare loro una mano da una specialista in “mitologia dell’arte antica”, non voglio spoilerare il libro, aspetto che arriviate alla fine della lettura per sapere che cosa ne pensate…
data di pubblicazione:28/05/2017
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