da Antonietta DelMastro | Feb 26, 2018
Nel suo blog la Dunne, parlando del suo ultimo romanzo, scrive: Quando si comincia a scrivere ci viene spesso consigliato di ‘scrivere di ciò che si conosce’. Ma se questo significasse ‘scrivere solo delle proprie esperienze dirette, sarebbe estremamente limitante…In Come cade la luce i due personaggi principali sono due sorelle, caratterizzate da una relazione profonda e interdipendente. Sotto molti aspetti tale relazione è stata plasmata dall’interazione con Mitros, loro fratello: il figlio mezzano tra la maggiore Alexia e la minore Melina, affetto da una grave forma di disabilità.
Io non ho sorelle. E non ho mai vissuto con un bambino disabile. Il salto immaginativo mi ha richiesto di mettermi nei panni di personaggi, ponendomi questioni molto importanti.
Ho iniziato, come sempre, con una robusta dose di ‘Cosa accadrebbe se?…”
Ho letto tutto ciò che ha scritto, e tutto lo ho consigliato ad amiche, colleghe e conoscenti; questa volta alla domanda di una di loro sull’ultimo titolo di Catherine Dunne mi sono trovata a rispondere: leggilo, ma non ti aspettare che si avvicini neanche lontanamente a La metà di niente o Il viaggio verso casa o Quel che ora sappiamo. Dopo qualche giorno mi è arrivato il seguente messaggio: “che delusione, un romanzetto della serie Harmony….”.
E’ la storia della famiglia Emilianides, fuggita da Cipro a causa del colpo di Stato del 1974 che, alla ricerca di una nuova serenità in Irlanda, viene segnata pesantemente dalla gravissima malattia di Mitros, l’unico figlio maschio.
La storia viene narrata attraverso lo scambio di email – si potrà ancora utilizzare il termine epistolare o è troppo legato all’attesa che nulla ha a che vedere con l’immediatezza di una email? – tra le due sorelle Alexia e Melina.
Lo stile della Dunne è sempre lo stesso, elegante ed estremamente coinvolgente: solo la sua penna è in grado di creare “realmente” i dolci aromi e le calde tinte del sud del Mediterraneo e di contrapporli all’odore forte della pioggia e a quello dell’erba che cresce rigogliosa nella plumbea Irlanda, ma la storia non mi ha convinta: il rapporto tra le due sorelle è sicuramente interessante anche se l’argomento non è certo una novità, tutti ricordiamo Elionore e Marianne diRagione e sentimento della Austen o abbiamo visto la trasposizione disneyana di Cenerentola di Perrault, assolutamente interessante il modo in cui le due sorelle vivono il rapporto con il fratello Mitros, ma tutto il resto… troppi cliché e troppi passaggi scontati, i fallimenti di Alexia, il segreto di Melina che viene svelato nelle pagine conclusive, tutto è assolutamente prevedibile ed esageratamente melodrammatico.
data di pubblicazione:26/02/2018
da Antonietta DelMastro | Feb 18, 2018
È la storia degli Eltyšev, ma la loro condizione potrebbe essere quella di una qualsiasi altra famiglia nella Russia del post perestrojka.
Nikolaj, il padre, lavora in polizia nel centro di detenzione per ubriachi, un lavoro che sarà quasi una nemesi, la moglie Valentina lavora nella biblioteca della loro città e si occupa della casa; hanno due figli Artëm e Denis: “il maggiore aveva smesso di studiare, era uno sfaticato nullafacente e un bambinone di venticinque anni compiuti, mentre il minore… Il minore era finito male: in una rissa aveva tirato un pungo in testa a un tale e l’aveva ridotto a una larva. Conclusione: l’altro handicappato e a lui cinque anni di lavori forzati”.
La loro vita si trascina tra insoddisfazioni e recriminazioni fino a quando Nikolaj una notte calca troppo la mano, forse troppo stanco o forse infastidito dalla confusione degli ubriachi, sta di fatto che ne rinchiude quattordici in uno spazio estremamente angusto e, non contento, li fa “irrorare” con il peperoncino… il risultato è che loro finiscono in rianimazione e Nikolaj perde lavoro e casa.
La famiglia è dunque costretta a trasferirsi nel paese avito di Valentina, ospitati da una vecchia zia nella sua izba, una vera stamberga.
È il primo gradino di una inarrestabile discesa verso la totale disfatta; privati di quella che per trent’anni è stata la loro routine, privati del lavoro, senza alcuno stimolo, senza alcuno scopo, gli Eltyšev entrano in una spirale di alcol, fallimenti, violenza e disgrazie che sfocerà nella devastazione del loro piccolo nucleo familiare.
Senčin descrive la banalità della vita degli Eltyšev, il loro squallore e la povertà d’animo che emana dai loro pensieri con un potenza e con una tale verosimiglianza che ci sentiamo soffocati da un profondo senso di amarezza e di oppressione, così come le descrizioni della izba o del rigido inverno della campagna russa “L’inverno fu duro. In certi momenti credettero di non farcela, di crepare in quella tomba di casa, di sbranarsi l’uno con l’altro: il poco spazio scatenava continue liti, attizzava la rabbia” rimarcano l’intenzione dell’autore di instillare nel lettore tristezza e mestizia al cospetto dello squallore dell’esistenza degli Eltyšev.
Una maestria, quella di Roman Senčin, che riporta agli antichi fasti della letteratura russa.
Un libro assolutamente da leggere.
data di pubblicazione:18/02/2018
da Antonietta DelMastro | Feb 12, 2018
Ammetto di averlo letto per il commento di Donato Carrisi anche se, alla fine, devo dire che il personaggio che lo aveva positivamente colpito è stato quello che mi ha convinto di meno: il commissario profiler Teresa Battaglia, colei che sarà a capo dell’indagine su una serie di omicidi avvenuta a Travenì, paesino immaginario delle Dolomiti friulane. Francamente il commissario Battaglia mi è sembrato un po’ troppo costruito: un passato tristemente segnato da un avvenimento che per intrigare il lettore dovrebbe restare segreto e che viene svelato prima della fine del libro; una malattia che potrebbe renderla inabile al lavoro, che ci ricorda il caro vecchio Kurt Wallander dei romanzi di Mankell, e che la Battaglia affronta con estremo stoicismo; una vena di sarcasmo nel suo carattere duro e determinato che in realtà nasconde la sua bonarietà… un personaggio forse troppo attento a creare un rapporto di empatia con il lettore, ho sicuramente apprezzato di più il “novello” ispettore Massimo Marini “Era poco più di un ragazzo e sembrava uscito da una pubblicità di moda.”.
La location del romanzo è perfetta, siamo rapiti, incantati e intrigati dalle montagne friulane che Ilaria Tuti ci descrive con affetto e rispetto, sono i paesaggi delle montagne tra cui è nata e cresciuta e dalla sua scrittura ne traspare il suo amore sincero.
La tranquillità di queste montagne viene spezzata dal ritrovamento del corpo di un uomo a cui sono stati asportati gli occhi, poco lontano l’assassino ha preparato un fantoccio con gli indumenti della vittima. A questo omicidio ne seguiranno altri altrettanto efferati l’unico indizio per le indagini verrà dai racconti di quattro bambini di Travenì, uniti tra loro da un patto di sangue, che saranno per il commissario Battaglia una sorta di calamita che unirà i pezzi del puzzle che porteranno alla risoluzione del caso “«Forse loro vedono il mondo meglio di noi» disse, in un sussurro. «Vedono l’inferno che abbiamo sotto i piedi, mentre noi contempliamo i fiori che crescono sul terreno»”. Il romanzo si svolge su due piani narrativi che si alternano nei vari capitoli, alle vicende che si stanno svolgendo a Travenì si contrappongono quelle avvenute negli anni ’70 del Novecento in Austria e di cui sono protagonisti, anche in quel caso, dei bambini oggetto di un esperimento basato sugli studi dello psicanalista René Spitz.
Devo dire che non mi è dispiaciuto affatto, la scrittura è estremamente fluida e le descrizioni dei luoghi molto piacevole, in alcuni passaggi mi è sembrato intravedere la mano del maestro Carrisi ma forse sono solo un po’ prevenuta.
Sicuramente una scrittrice da seguire.
data di pubblicazione:12/02/2018
da Antonietta DelMastro | Gen 29, 2018
Nelle pagine dedicate ai ringraziamenti, alla fine del nuovo romanzo di Rosella Postorino, l’autrice spiega come è nata l’idea di questo libro.
Qualche anno addietro si era imbattuta in un articolo in cui si parlava di Margot Wölk, una donna tedesca di 96 anni che nella sua giovinezza era stata una delle assaggiatrici di Hitler; purtroppo le ricerche per trovare l’indirizzo di Margot Wölk si protrassero troppo e proprio mentre le stava scrivendo per chiederle un’intervista venne a sapere che si era appena spenta.
A questo punto non le restava che scrivere una storia in cui cercare di immaginare cosa avesse significato essere stata una delle donne che, tre volte al giorno per parecchi mesi, erano state obbligate ad assaggiare i cibi che avrebbe dovuto mangiare il Führer per evitare che ne venisse avvelenato.
Il romanzo si svolge a Gross-Partsch, un villaggio vicino al Wolsschanze, la “Tana del Lupo”, un insieme di bunker mimetizzati nella foresta della Prussia orientale. La protagonista è Rosa Sauer, appena trasferitasi a casa dei suoceri dopo un lungo viaggio da Berlino, dove ha lasciato tutta la sua vita, in attesa di riunirsi al marito, soldato sul fronte russo.
La mattina successiva al suo arrivo viene “arruolata” dalle SS per assaggiare i piatti destinati al Führer; non è sola Rosa: “Eravamo in dieci. … Da anni avevamo fame e paura. E quando il profumo delle portate fu sotto il nostro naso, il battito cardiaco picchiò sulle tempie, la bocca si riempi di saliva…Quando il pasto fu concluso, due SS si avvicinarono… Resterete qui, sedute, il veleno entrerà in circolo rapidamente… basta un’ora”.
Inevitabilmente la vita di Rosa “la berlinese” si intreccerà con quella di alcune delle altre assaggiatrici, la misteriosa Elfriede, Beate che legge i tarocchi, Heike con i suoi bambini e poi con la datrice di lavoro del suocero, la baronessa Maria Freifrau von Milderhagen, a una festa della quale Rosa conoscerà il tenente delle SS Albert Ziegler.
Il personaggio di Rosa mi ha veramente colpita, non è nazista così come non lo sono i suoceri e il marito, così come non lo erano i suoi genitori, è una persona qualunque che soffre, che ha subito delle perdite e, soprattutto, che è estremamente sola. È tutto questo a farla piegare, a farle accettare tutto ciò che le accadrà e che la obbligherà a una vita di sensi di colpa e vergogna che non la lasceranno più e che annulleranno la sua vita futura, perché non può comunque perdonarsi la sua rassegnazione che era diventata, in qualche modo, complicità …: “Non ho mai detto nulla, e non lo dirò. Tutto quel che ho imparato, dalla vita, è sopravvivere.”
Un romanzo potente, un personaggio per alcuni versi contraddittorio, che fa sicuramente riflettere, un libro che ti prende e non ti lascia fino all’ultima pagina.
data di pubblicazione:29/10/2018
da Antonietta DelMastro | Gen 21, 2018
Georgia Hunter lo ha scritto ispirandosi alla storia vera della sua famiglia, storia che ha scoperto solo casualmente in seguito a un compito assegnato alla sua classe sulle origini della propria famiglia, la Hunter aveva quattordici anni e, solo allora, ha scoperto i segreti che il suo “fantastico” nonno le aveva sempre sottaciuto “non perché mi nascondesse intenzionalmente tutte queste verità, erano semplicemente frammenti di un’altra vita, che lui aveva preferito lasciarsi alle spalle.”
È la storia della famiglia Kurc, Sol e Nechuma i genitori, Genek con la moglie Herta, Mila con il marito Salim e la figlioletta Felicia, il terzogenito Addy (nonno dell’autrice), Jacob e la moglie Bella e Halina con il marito Adam, una famiglia ebrea di Radom, Polonia, una famiglia che subito prima dell’invasione della Polonia nel settembre del 1939 era convinta che tutte le mostruosità che sentivano accadere nella Germania nazista non sarebbero mai potute avvenire in Polonia.
La narrazione è perfetta, il continuo alternarsi dei capitoli con la descrizione delle vicende di ogni membro della famiglia, fatte da loro stessi in prima persona, permette una empatia immediata con i vari personaggi.
Il racconto inizia nel marzo del 1939 con una lettera di Nechuma ad Addy, a Parigi per conseguire la laurea in ingegneria, la madre gli fa il resoconto di ciò che avviene in casa dei “piccoli” cambiamenti che stanno iniziando ad accadere fino a giungere al punto centrale “E ciò mi porta al motivi principale di questa lettera: io e tuo padre crediamo che faresti bene a restare in Francia, per questa Pasqua e rimandare all’estate la tua prossima visita.”. Le cose stanno cominciando a cambiare, Nechuma, la madre, è fiduciosa che sia solo un momento, tanto da consigliare al figlio di rimandare la sua visita solo di qualche mese, non crede che ciò che sta succedendo in Germania possa in qualche modo coinvolgere anche la Polonia. Il giorno della celebrazione della Pasqua sono tutti riuniti, manca solo Addy che non è potuto rientrare a casa nonostante avesse voluto e non perché la madre lo avesse sconsigliato ma perché non era riuscito a ottenere il visto necessario per attraversare i territori sotto il dominio nazista che lo separavano dalla Polonia.
Nel corso della celebrazione della Pasqua Nechuma torna con il pensiero alla celebrazione avvenuta un quarto di secolo prima, durante la Grande Guerra, in un seminterrato ed è certa che non avverrà mai più una cosa simile: “No, lei non tornerà a nascondersi come un animale selvatico, non vivrà mai più in quel modo. È impensabile che si arrivi di nuovo a questo”. Purtroppo di lì a qualche mese dovrà rivedere tutte le sue certezze, il primo settembre la Germania invade la Polonia, i Kurc dovranno arrendersi all’evidenza che il loro Paese non è più sicuro per una famiglia di ebrei. Per sfuggire al nazismo, saranno costretti a dividersi e a rassegnarsi a una vita da clandestini, senza avere alcuna notizia dei propri cari, obbligati ad affrontare le persecuzioni, la fame e il freddo, tra la Siberia e la Palestina, tra il Brasile e l’Italia, senza sapere se, quello che vivono, è il loro ultimo giorno.
Una storia coinvolgente, con mille sfaccettature; un libro splendido di cui consiglio assolutamente la lettura.
data di pubblicazione:21/01/2018
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