da Antonietta DelMastro | Apr 4, 2016
È stato pubblicato come un romanzo per ragazzi e francamente, dopo aver letto Il bambino con il pigiama a righe e aver poi visto il film diretto da Mark Herman, non potevo non prendere in mano il nuovo libro di John Boyne.
La storia è quella Pierrot, un bambino francese di padre tedesco che, rimasto orfano, lascia Parigi per andare a vivere con la zia paterna in una splendida villa sulle Alpi bavaresi.
Siamo nel 1935 e la casa che accoglierà Pierrot è il Berghof di Adolf Hitler. Contro ogni possibile immaginazione Pierrot risulterà simpatico al Führer che lo prenderà sotto la sua ala protettrice e irretirà il piccolo che rimarrà affascinato dal potere che irradia quell’ometto.
Boyne descrive i rapporti psicologici che si creano tra i vari personaggi e che porteranno allo stravolgimento dei sentimenti e della comprensione del Bene e del Male di un piccolo innocente di 10 anni, sottolineando magistralmente il potere seduttivo che ha avuto l’ideologia nazista.
Il cambiamento di comportamento degli adulti nei confronti di Pierrot, il rispetto che scaturisce dal suo essere protetto di Hitler, deforma la percezione che il bambino ha di sé e delle azioni degli altri, cancellando completamente la sua innocenza e portandolo a commettere azioni ignominiose senza averne la benché minima percezione.
Il romanzo è duro, come non potrebbe essere altrimenti, la scrittura è semplice, visto il pubblico a cui è destinato.
Mi ha emozionata il finale del libro; la presa di coscienza da parte di Pierrot di quello che realmente è accaduto e che lui, affascinato dall’idea della superiorità della Germania nazista, non aveva voluto vedere; solo una volta fuori dal Berghof, a contatto con la “realtà” è riuscito a comprenderne l’orrore e la reale portata, riuscendo infine a capire e a pentirsi della sua trasformazione.
data di pubblicazione: 04/04/2016
da Antonietta DelMastro | Mar 13, 2016
La storia di una famiglia italiana narrata da uno dei suoi componenti, Teo, il figlio “di mezzo”, quello schiacciato tra la primogenitura del maggiore e le attenzioni riservate dai genitori alla “piccola di casa”.
Teo è in macchina, sta correndo verso casa del fratello Max che, appassionato alpinista, si è trasferito in un paesino dell’Alto Adige. Max ha bisogno di lui, è in difficoltà e Teo, anche se stanco e arrabbiato, non può fargli mancare il suo sostegno e, mentre viaggia per raggiungere il fratello, ci racconta in modo vivace e avvincente la storia della sua vita, che è anche storia dell’Italia dagli anni Settanta al nuovo millennio, con alcune scene innegabilmente comiche e con alcuni stereotipi che non possiamo non riconoscere e ricordare sorridendo.
Il racconto che ci troviamo a leggere inizia con delle immagini molto tenere dell’infanzia dei due fratelli. Max è il primogenito, fulcro della vita del piccolo Teo che lo vede come un eroe all’ombra del quale poter crescere tranquillo; il loro è un rapporto destinato a cambiare con l’avvento dell’adolescenza che trasformerà totalmente Max, allontanandolo dai suoi genitori e da Teo, che non riuscirà più a capire le sue scelte. Sarà il comportamento del fratello maggiore a influenzare quello di Teo che, consapevole di non essere il “centro” della vita dei suoi genitori, cercherà, con i suoi comportamenti e con le sue scelte, di sostituire il fratello nelle loro speranze, nel loro affetto, nella loro considerazione, tentando di diventare ciò che loro si aspettavano da Max, sperando così di poter prendere il posto di “prestigio” che la primogenitura aveva decretato per il fratello maggiore.
Max quindi lascerà la strada tracciata per lui dai suoi genitori e si dedicherà alla sua passione assoluta, l’alpinismo; una passione che lo porterà lontanissimo da casa, verso una vita faticosa, che gli farà compiere delle scelte che lo porteranno a un passo dalla morte e che stravolgeranno in modo definitivo la sua vita. Teo seguirà invece le orme paterne, le sue scelte gli permetteranno di vivere una vita più tranquilla senza doversi sovraesporre, ma anche per lui arriverà il momento di cambiare, di compiere delle scelte: “sapevo da sempre che, senza un po’ di orgoglio, un uomo finisce per essere sempre trasportato in luoghi sgradevoli”.
Una narrazione vivace, mai noiosa, a volte un po’ cinica, che descrive perfettamente le dinamiche familiari, le aspettative dei genitori deluse dai figli che si trovano “a gestire un confronto impossibile con dei genitori terribili”, i quali non riescono a capire la realtà dei proprio figli perché la loro vita è stata estremamente più facile: “…hanno cominciato a lavorare in un decennio in cui il prodotto interno lordo è cresciuto del settanta per cento. Loro, da poveri, sono diventati ricchi e noi, cresciuti più o meno nell’agio, stiamo precipitando nell’abisso…”.
Un libro che fa sorridere, riflettere, divertire, meditare; un libro assolutamente da leggere.
data di pubblicazione:13/03/2016
da Antonietta DelMastro | Mar 6, 2016
Lo scenario in cui si dipana la storia è Roma. Zihaly ci porta da Piazza Navona alle stradine di Città giardino, una delle zone più belle di Montesacro, da San Paolo al vecchio Mattatoio del Monte dei Cocci.
Nelle note alla fine del libro l’autore spiega il perché di queste immagini della Città eterna che ci offre: “ho sempre subito il fascino del profondo contrasto che, in una città strabordante d’arte, storia e cultura come Roma, si coglie quando ci si trova improvvisamente di fronte a uno dei suoi mille mostri d’acciaio…”, non si può non essere affascinati dalla convivenza, in questa meravigliosa città, delle testimonianze di archeologia industriale e di “arte pura”!
Il protagonista della storia è il commissario Enrico Mancini, profiler specializzato nei crimini seriali a Quantico, che combatte contro i demoni personali e al quale è stato imposto il caso di un serial killer che sta terrorizzando la città.
Debbo ammettere che Mancini non mi ha colpita per la simpatia, nel corso delle indagini ho provato più empatia con l’ispettore Comello o la fotografa De Marchi con la quale purtroppo condivido la musofobia, ma sarà sotto la sua guida che la task force che ha creato, con lui ci saranno oltre ai già citati Comello e De Marchi anche l’anatomopatologo Rocchi e la pm Foderà, riuscirà a trovare le linee che li porterà a scoprire la verità che si nasconde dietro quei cadaveri sezionati chirurgicamente, ai vestiti che indossano, agli oggetti che sono dentro di loro.
Un libro noir che si svolge in una Roma vetero-industriale su cui piove ininterrottamente da giorni, un thriller che risente di influenze americane, un intreccio ben sviluppato con abbondanza particolari, un autore che padroneggia splendidamente l’italiano e che lega il lettore al romanzo in un crescendo sempre più rapido e coinvolgente.
Non possiamo che restare in attesa del ritorno di Mancini e della sua squadra.
da Antonietta DelMastro | Feb 27, 2016
Al salone “Più libri più liberi” 2015 ci troviamo davanti a una elegante signora in nero, lunghi capelli biondi sulle spalle e una voce calda, quella di Annie Ernaux che ci parla della sua nuova fatica, Gli anni. Rispondendo alle domande che le sono state poste spiega come siano importanti per l’empatia del lettore le parti che parlano di pubblicità, politica, musica, televisione, tutti argomenti che sono parte della nostra quotidianità e che rendono il lettore partecipe di un “sentire comune”.
L’idea è quella di un romanzo autobiografico, Annie Ernaux fa di più perché raccontando la sua vita ci propone in realtà un viaggio dal primo dopoguerra a oggi in cui è la Storia a fare da protagonista. Lei stessa definisce questa sua opera “un’autobiografia impersonale”, proprio perché la sua figura, che si muove all’interno del libro, ci permette di essere spettatori di istantanee della Guerra d’Algeria, delle lotte sessantottine, della politica di Mitterand; tutti noi possiamo riflettere su quei cambiamenti, ripensare a come eravamo e cosa sentivamo. Il libro è un susseguirsi di fotografie del nostro modo di essere perché, di fatto, la Storia è fatta dall’insieme delle vite di ognuno di noi.
Ma il suo racconto non è fatto solo di eventi pubblici noti, è anche un susseguirsi di minuziose descrizioni di interni, l’evoluzione della moda, del succedersi dei pranzi di famiglia che mostrano i cambiamenti epocali che si rincorrono uno via l’altro; personalmente sono rimasta sconcertata dalla verità del nostro rapporto con gli oggetti, un tempo desiderare qualche cosa e ottenerla creava un senso di soddisfazione prolungato nel tempo e che si radicava in noi: gli oggetti tanto anelati “si offrivano agli sguardi e alle ammirazioni altrui” mentre ora la velocità dei cambiamenti è tale che si è concentrati sul continuo rincorrere senza riuscire a godere di nulla di quello che si ha, sempre alla ricerca di qualcosa di più.
Le parole con cui l’autrice descrive l’avvenimento che ha creato un confine, un prima e un dopo nella nostra storia contemporanea, il momento “che non poteva essere creduto, né pensato, né sentito, soltanto visto e rivisto sullo schermo di un televisore” è quello dell’11 settembre in cui “tutti cercavano di ricordare in che attività fossero impegnati nel momento esatto in cui il primo aereo aveva colpito la torre del World Trade Center, mentre coppie che si tenevano per mano si gettavano nel vuoto” una descrizione così viva che mi ha riportato alla mente il dolore di quei momenti.
Benché abbia molto apprezzato la struttura del romanzo, forse avrei gradito un approfondimento maggiore, perlomeno di alcune fasi della vita. Così mi sono sentita quasi una spettatrice davanti a un vecchio filmino in super8, immagini da colori ormai improbabili che scorrevano velocemente sul muro bianco, una concatenazione di momenti i cui si sorride al ricordo di una pubblicità o si aggrottano le sopracciglia al pensiero di una disgrazia; ma tutto troppo veloce, tutto con un tempo che non lascia prendere fiato e sedimentare i sentimenti che si creano rimangono solo in superficie, per poi svanire come bolle di sapone.
da Antonietta DelMastro | Feb 6, 2016
Con Canale Mussolini Antonio Pennacchi vince il premio Strega 2010.
Purtroppo i sequel non sono mai all’altezza del libro che li ha preceduti e, a mio avviso, è così anche in questo caso.
Uno dei meriti indiscutibili di Antonio Pennacchi è quello di narrare gli avvenimenti storici del periodo trattato con estrema obiettività, riconoscendo meriti e demeriti, ad amici e nemici, senza fare sconti a nessuno e senza curarsi della loro appartenenza politica, ma di questo ne potevamo stare certi conoscendo il profilo “fasciocomunista” dell’autore.
Innegabilmente esilaranti alcune pagine nelle quali quando fa parlare Hitler in dialetto veneto, originale accostare ogni data citata nel testo al Santo del giorno e, quasi sempre, al proverbio del giorno: una sorta di calendario di frate Indovino ante litteram.
Però …
Però quando ho iniziato il libro mi aspettavo di continuare a leggere della saga dei Peruzzi mentre, questa volta, lo loro vicenda è incidentale rispetto alla storia che ci viene narrata, che è la Storia vera, quella della linea Gustav, dello sbarco di Anzio, dell’adesione al piano Marshall di De Gasperi.
Al contrario questa volta i personaggi non sono più così ben delineati e caratterizzati come nel precedente capitolo, la narrazione è troppo frammentata tra la descrizione dei fatti storici e di quelli romanzati e pende eccessivamente verso i primi.
Le vicissitudini di zio Adelchi, di zia Santapace, del nipote Diomede passano in secondo piano, la descrizione dei luoghi in cui si svolge la vicenda è ridondante tanto che è stato difficile anche per me, che frequento l’Agro Pontino e una città di “fondazione” da circa 25 anni, tenere dietro alla descrizione della toponomastica di Littoria e alla descrizione dei Borghi della zona: immagino quindi che un lettore che non abbia mai messo piede a Sabaudia, Borgo Grappa o Borgo Piave si trovi totalmente spaesato.
Non è il libro che mi aspettavo, non pensavo di trovarmi davanti a un romanzo storico, didascalico.
Sono rimasta interdetta anche per la fine del libro: la fine del precedente era “compiuta”, chiaramente speravo in una continuazione perché ero ormai parte della famiglia dei Peruzzi e volevo sapere cosa sarebbe successo loro.
Questa volta Pericle ci lascia con un “ma il resto…. glielo racconto un’altra volta” sono rimasta sconcertata, un occhio un po’ troppo commerciale come chiusa…
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